La premier Giorgia Meloni nella conferenza stampa di inizio anno ha detto in modo esplicito che il premierato “si tiene” con l’autonomia differenziata. Una mano tesa apprezzata dai leghisti e dal governatore del Veneto Luca Zaia in particolare. Lei può raccontarci il punto di vista delle regioni meridionali. Cosa succederà con la riforma?
Con l’autonomia differenziata, come previsto dall’art.117 della Cost. alla Regione autonoma viene trasferita la “proprietà” di beni, costruiti con le risorse di tutti gli italiani, e funzioni per 23 materie: sanità, scuola, porti e aeroporti, strade e autostrade, beni culturali e soprintendenze, demanio idrico, produzione e distribuzione di energia, commercio con l’estero e professioni, casse di risparmio e rurali, ecc. La Regione autonoma, per la gestione dei beni e di tutte le funzioni, è finanziata con la compartecipazione al gettito, maturato nel territorio regionale, di tributi erariali. Il che vuol dire che la Regione autonoma è finanziata dallo Stato: non sono risorse regionali. Inoltre, si può avvalere delle risorse del fondo perequativo statale. E questo flusso di risorse statali è per di più “differenziato” all’interno della finanza pubblica, cioè è garantito e “intoccabile”: sono soldi non più gestibili con la normale “discrezionalità” dallo Stato.
Detto così suona complessivamente vantaggioso. Invece le regioni del Sud dicono che subiranno uno “scippo” di risorse e competenze. Mentre quelle del Nord che sarà invece un riequilibrio di risorse dovute. Chi ha ragione?
Il fatto è che già esiste un’erogazione di risorse pubbliche territorialmente iniqua in Italia tra Nord e Sud. Quindi la Regione che ottiene l’autonomia differenziata diventa “privilegiata” proprio sulle spalle della Regione che, rimasta ordinaria, diventa “svantaggiata”. Ecco perché definire l’autonomia differenziata la “secessione dei ricchi” – sebbene con l’intento di evidenziare la conseguente disparità nei diritti tra i cittadini dello stesso Stato – è un concetto fuorviante.
Perché?
Perché una Regione “differenziata” non solo riceve tutti i beni delle funzioni trasferite – porti aeroporti, strade, autostrade -, ma molte più risorse erariali, un flusso di soldi “esclusivo ed intoccabile” che arriva dal centro, quindi sottratte alla fiscalità generale e al finanziamento di beni e funzioni nelle Regioni ordinarie. A quel punto che interesse può avere una Regione differenziata ad una secessione, se riceve molte più risorse, se praticamente non partecipa più alla finanza pubblica, e se tutti i servizi rimasti statali nelle Regioni “differenziate” (pubblica amministrazione, tribunali, polizia, ecc.) sono finanziati con i soldi degli italiani “ordinari”?
Domanda retorica: nessuno…
É proprio così. Al contrario, l’interesse è rimanere incollati alle Regioni ordinarie. Inoltre tutte le opere pubbliche in quelle regioni – Expo, Mose, Olimpiadi invernali 2026, ecc. – per miliardi e miliardi di euro, sono sempre finanziate con i soldi di tutti gli italiani.
É vero, come sostiene il governo, che la determinazione dei Lep (livelli essenziali delle prestazioni) eviterà contraccolpi al sistema nazionale?
È da chiarire che i Lep con l’autonomia differenziata c’entrano poco o niente. Posto che la definizione dei Lep è necessaria, anche solo per superare quel criterio territorialmente iniquo della spesa storica, il fatto è che a livello nazionale il finanziamento dei Lep nelle Regioni ordinarie sarebbe da garantire solo con i soldi dei residenti regionali “ordinari”, cioè non tocca il flusso di risorse dallo Stato alla Regione “differenziata”. Sono “binari” distinti.
Alla luce di quello che ha detto prima, è fondato il sospetto che il Veneto sia in prima linea su questa riforma per ridurre il vantaggio competitivo delle regioni limitrofe a statuto speciale come Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia?
Più che un sospetto, lo ha dichiarato in Parlamento il rappresentante del governatore Zaia: il motivo per cui il Veneto richiede l’autonomia differenziata è ricevere più risorse. Il suo problema è che riceve meno risorse dallo Stato, rispetto al Friuli Venezia Giulia e al Trentino-Alto Adige, Regioni a statuto speciale. Per essere chiari, il Veneto si sente “povero” rispetto alle “ricche” vicine Regioni Speciali come certifica lo studio del Mef sulla 2021: Roma (lo Stato) spende pro capite 12.014 euro per un altoatesino e 4.372 euro per un veneto.
Una bella differenza.
Infatti, Cortina, ricca di risorse private, aveva approvato un referendum a larghissima maggioranza per entrare nel Trentino-Alto Adige per avere a disposizione molte e molte più risorse pubbliche, distacco poi bloccato dal governatore del Veneto. Con l’autonomia differenziata la Regione Veneto, diventa perfino più di una Regione Speciale, diventa una Regione “privilegiata”. Lo “Stato del bengodi”.
Dal punto di vista tributario qual è il suo giudizio sulla riforma?
Osservo che con legge è possibile “differenziare” il sistema tributario nazionale. Tuttavia l’autonomia differenziata non è l’applicazione del c.d. concetto di “residuo fiscale”, sviluppato negli Usa dal premio Nobel J.M. Buchanan, parametro base per valutare l’adeguatezza dell’attività redistributiva complessiva dello Stato. Per Buchanan, in base al principio di equità orizzontale (trattare in modo uguale gli uguali), lo Stato avrebbe dovuto garantire l’uguaglianza della spesa pubblica agli individui uguali per reddito, dovunque si risieda nella nazione. Ciò che conta è che cittadini con lo stesso reddito ma residenti in regioni diverse siano trattati nello stesso modo. Invece in Italia il concetto di residuo fiscale si è trasformato, da condizione individuale a condizione territoriale, cioè regionale.
Con quali effetti pratici?
Per Buchanan il dipendente dell’Agenzia delle Entrate di Reggio Calabria, Napoli o Bari deve ricevere una spesa pubblica pari al dipendente dell’Agenzia delle Entrate di Bologna, Varese o Treviso. Invece per la CGIA di Mestre o l’Istituto Eupolis (Regione Lombardia) è l’opposto: il dipendente del Nord deve ricevere una spesa pubblica maggiore rispetto a quello del Sud solo perché risiede in un territorio dove alcuni sono ricchi. L’italica trasposizione del “residuo fiscale” non c’entra nulla, ma è un escamotage politico per far credere giusta un’iniquità nella distribuzione delle risorse da parte dello Stato.
Alla fine, con i suoi difetti, questa riforma può essere un primo passo verso l’ammodernamento del Paese o è la corsa verso il baratro dell’unità nazionale?
L’autonomia differenziata, per come viene strutturata a livello di nazione, è una visione inefficiente, caotica e costosa. Si avrebbero 20 “staterelli”, venti competenze discipline legislative – come già per la sanità – per il sistema produttivo e tutte le scelte fondamentali sulla vita civile del Paese, come l’istruzione, i trasporti, le comunicazioni, le reti dell’energia, le condizioni di lavoro, l’ecologia, l’ambiente. Ma se va avanti come sta andando e se l’autonomia differenziata è un privilegio sulle spalle degli altri, allora devono chiederla tutte le Regioni ordinarie e su tutte le 23 materie previste dalla Costituzione.
Con quali conseguenze?
Calabria, Campania, Puglia o Lazio diventerebbero “ricche” (parafrasando il Veneto), cioè avrebbero molte più risorse pubbliche rispetto a prima. E non dovrebbero più partecipare alla finanza pubblica nazionale, se non previo accordo bilaterale. Poi avrebbero garantito il finanziamento dei servizi rimasti statali e delle opere pubbliche sul proprio territorio con le risorse degli italiani “ordinari” (quelli rimasti). Non è finita, perché gli utili della gestione dei beni culturali, energia, porti, infrastrutture ecc. sarebbero a vantaggio esclusivo della Regione. Il “privilegio” dell’autonomia differenziata, può esistere solo se rimangono degli “svantaggiati”, cioè gli “ordinari”. Paradossalmente, quindi, se tutte le Regioni ordinarie la richiedono, l’autonomia differenziata si blocca, in quanto sarebbe insostenibile per la finanza pubblica. A carico di chi, si può essere tutti “privilegiati”?
Federica Fantozzi – Giornalista