Politica

Dario Nardella : un estremista per prudenza

Il silenzio è d’oro, la parola non sempre lo è.  Ma Dario Nardella, ancora per poco sindaco di Firenze perché in scadenza come uno yogurt, non lo sa. E incautamente se n’è uscito, dopo il raduno fiorentino dei sovranisti invitati da Matteo Salvini, con questi memorabili detti: “Nella città di Sassoli, La Pira e Calamandrei il raduno è una provocazione. Io ho invitato i cittadini a manifestare senza cadere in posizioni intolleranti”. E se al sullodato terzetto non ha aggiunto anche Dante è solo perché il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano ha affermato – assumendosene tutta la responsabilità – che l’Alighieri era un uomo di destra.         E bravo Nardella! Recita due parti in commedia come meglio non si potrebbe. Da una parte scaglia il sasso, dall’altra nasconde la mano. Da una parte fa il piromane, dall’altra fa il pompiere. Perché? Forse per mantenersi in equilibrio. Come che sia, la dice grossa. Vergogna! Ma come gli viene in mente di definire “provocazione” il fatto che un gruppo di persone riunite alla Fortezza da Basso ha il torto di non pensarla come lui? Si dà il caso che il Nostro sia un cultore del diritto costituzionale a tal punto da averlo professato, e forse di professarlo ancora, all’Università di Firenze. E dove sennò?         Sono sicuro che lui consideri la nostra Costituzione repubblicana – al pari di tanti esponenti di sinistra – la più bella del mondo. Ma dopo questa premessa, non va oltre. Strano, molto strano. Perché la Legge fondamentale della Repubblica, tra i tanti articoli degni di particolare menzione, c’è – vedi caso – l’articolo 21. Il cui primo comma recita: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. Tutti, avete

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Politica

Fini, Meloni e la Costituzione

Facciamo un passo indietro. Ospite di Lucia Annunziata, in gioventù un’estremista di sinistra pura e dura, giorni fa Gianfranco Fini ha in certo qual modo paragonato Giorgia Meloni a Rolando Pietri. Ma sì, il maratoneta che alle Olimpiadi di Londra del 1908 si accasciò, sfinito, a pochi metri dal traguardo. Novello Gesù Cristo, così Fini ha invitato Giorgia ad alzarsi pure lei come Lazzaro e a tagliare felicemente il traguardo dell’antifascismo. Diamine, che cosa aspetta la presidente del Consiglio – ecco il sottinteso – a proseguire sulla strada che lui tracciò a Fiuggi quasi trent’anni fa? Sta di fatto che la predica è venuta da un pulpito a dir poco sospetto. Da un personaggio che disse di considerare Benito Mussolini il più grande statista del Novecento. Non c’è dubbio che il “Duce” sia stato un abile politico fino a un certo punto e un eccellente giornalista e oratore. Ma ogni medaglia ha il suo rovescio. Instaurò una dittatura, deliberò le vergognose leggi razziali e perse una guerra che non ci lasciò neppure gli occhi per piangere. Il fascismo voleva accreditarsi, al pari della Resistenza vent’anni dopo, come un secondo Risorgimento. Ma tradì i suoi valori scolpiti sull’Altare della Patria: “Civium libertati”, “Patriae unitati”. Proprio così: alla libertà dei cittadini e all’unità della Patria. Fini tuttavia ha sorvolato sul fatto che Giorgia Meloni è stata due volte ministro: una prima volta della Gioventù, proprio dal presidente di Alleanza nazionale indicata a Silvio Berlusconi, e una seconda volta, a ottobre, presidente del Consiglio per verdetto popolare. Tant’è che Sergio Mattarella, nelle consultazioni al Quirinale in vista della formazione del nuovo governo, intrattenne la delegazione di centrodestra, presentatasi unita, soltanto una manciata di minuti. Perché questa volta il capo del governo non sarebbe stato come Mario Draghi un’invenzione del Colle. E in tale

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Cultura

Come D’Artagnan, Pietro Di Muccio è andato alla conquista della Capitale

Novello D’Artagnan, un giovanissimo Pietro Di Muccio de Quattro, un uomo con due cognomi che si è fatto pure un nome, lasciò il paesello natìo e andò alla conquista della Capitale. Giulio Andreotti sosteneva che l’importante per una lunga vita è avere buoni ascendenti. La stessa cosa si potrebbe dire di Pietrino, come lo chiamo da tempo immemorabile. Lui non solo ha ottimi ascendenti, tant’è che il padre Guido è stato stimato sindaco del borgo natìo per un bel po’. Ma è nato in un luogo dove Vittorio Emanuele II incontrò un Giuseppe Garibaldi vittorioso sul Borbone. E fu fatta l’Italia. Tutto questo e molto altro ancora ce lo racconta il sullodato Pietrino in un libro – rara avis – ben scritto, godibilissimo e non privo d’ironia. S’intitola Deputato per caso. Ricordi personali e memorie politiche, Macerata, Edizioni Simple, pagine 212, € 15. Il paragone con D’Artagnan non è affatto esagerato. E perché non s’insuperbisca il chiaro Autore, non lo salutiamo come il nuovo Cesare con il suo Veni, vidi, vici. Sta di fatto che le cose stanno precisamente così. Perché il sullodato Autore potrebbe cingersi il capo di alloro per i molteplici successi che gli riserverà Roma. Così si reca nello Studium Urbis di mussoliniana memoria e si laurea in Giurisprudenza con 110 e lode dopo aver superato tutti gli esami a pieni voti. Anche nelle materie più ostiche e con docenti autorevolissimi che erano lo spauracchio degli esaminandi. Già che c’è, di lì a poco si laurea brillantemente anche in Scienze politiche e, per di più, non fatica a impreziosire il proprio curriculum con un dottorato di ricerca. Ma tutto questo, come ben sanno i più avveduti, non è un traguardo ma un punto di partenza. Dopo uno studio non proprio matto e disperatissimo, perché Di Muccio supera

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Politica

Quei senatori a vita schierati a sinistra

A un tizio che lo contestava dal loggione, Ettore Petrolini dal palcoscenico replicò: “Io non ce l’ho con te ma con quello che ti sta accanto perché ancora non ti ha buttato di sotto”. Allo stesso modo, non possiamo rifarcela con i senatori a vita schierati a sinistra, per il semplice motivo che in democrazia ognuno la pensa come vuole. Ma possiamo avere qualcosa da ridire, con rispetto parlando, nei riguardi di quei presidenti della Repubblica che nelle nomine non hanno usato il bilancino e hanno insignito lor signori del laticlavio non solo per le loro indiscusse benemerenze ma anche perché avevano la stessa concezione del mondo – diciamo così – degli inquilini del Quirinale. Del resto, talis pater, talis filius. Salvo lodevoli eccezioni, le cose sono andate sempre pressappoco così. Sempre. Tant’è che nelle votazioni fiduciarie, si trattasse di mozioni di fiducia o di questioni di fiducia, i predetti senatori con il torcicollo incorporato a manca hanno spesso e volentieri detto di sì ai governi di sinistra. Neppure fossero stati illuminati dallo Spirito santo. Mentre quando si trattava di concedere una fiducia sia pure stiracchiata a governi di destra, o c’era un fuggi fuggi generale pur di non esprimersi al riguardo o, nel migliore dei casi, si astenevano. Ma non sono mancati parecchi casi di voti contrari, alla faccia del fatto che i sullodati non sono rappresentanti del popolo. Memorabili le fiducie al secondo governo Prodi, che in mancanza di una maggioranza politica affidabile si reggeva grazie alle stampelle – figurate o vere, come quelle di Rita Levi-Montalcini – dei senatori a vita. Voti determinanti. A tal punto che erano ricercati e portati con ogni mezzo nell’aula di Palazzo Madama perché dicessero il sospirato sì a Prodi e alla sua scombinata squadra di governo. Manco a dirlo, la scena

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