Riforma Premierato, Segre e Cattaneo prendono partito

Scendono in campo due senatrici a vita, con due interventi che hanno fatto discutere

Nel mio libro sui senatori a vita ho scritto che Liliana Segre ed Elena Cattaneo fanno onore al Senato della Repubblica. A un anno di distanza da quel mio lavoro non ho difficoltà a confermare in tutto e per tutto il mio giudizio. Sergio Mattarella, nel nominare la Segre, ha avuto la mano felice. La sua testimonianza è della massima importanza. La sua denuncia dell’indifferenza rispetto alla banalità del male e di tutti i totalitarismi è un inno alla libertà e alla democrazia. Una lezione, la sua, che merita di essere tenuta sempre ben presente. E anche nel nominare la Cattaneo, Giorgio Napolitano non poteva fare di meglio. Due senatrici a vita che non si sono mai date alla latitanza, come non pochi loro colleghi, e che in aula e sulla stampa hanno detto autorevolmente la loro sui temi di rispettiva competenza.

                 

Nella seduta del Senato del 14 maggio scorso, in occasione della discussione generale sul disegno di legge costituzionale sul premierato presentato dal governo, si sono avventurate in territori che nelle mappe di una volta venivano classificati con la scritta “Hic sunt leones”. E ci è sembrato di notare una certa indulgenza nei riguardi degli idola fori e degli idola tribus. Per di più con un pathos che in qualche modo contraddice la gravitas propria di chi è componente di Palazzo Madama non per elezione ma per nomina quirinalizia. Cuius regio eius religio. Se il presidente della Repubblica rappresenta la Nazione, ci si aspetterebbe che i nominati fossero una spanna al di sopra delle parti. Anche se spesso questo è rimasto un pio desiderio. Tant’è che non sono pochi i casi di senatori a vita che non hanno esitato a iscriversi a un gruppo parlamentare.

Segre esordisce con una frase che sembra fatta apposta per épater le bougeois. Afferma infatti, dopo che se ne parla sia pure a vuoto da almeno un quarantennio, che riformare la Costituzione non è una vera necessità del nostro Paese. Ma – aggiunge giudiziosamente – se proprio si vuole riformare, occorre farlo con estrema attenzione. Con “generosità, lungimiranza,
grande cultura costituzionale e rispetto scrupoloso del principio di precauzione”. Onestamente, non avrebbe potuto dire meglio. Tanto più che tra favorevoli e contrari al premierato si registra purtroppo un dialogo tra sordi.

Ciò premesso, Segre demolisce la riforma con accenti allarmanti. Dice: “Io non posso e non voglio tacere”. All’elezione popolare diretta del primo ministro non fa sconti. Un azzardo, a suo dire. Perché delle due, l’una: l’inquilino di Palazzo Chigi o dovrà vedersela con un Parlamento riottoso “in un clima di conflittualità istituzionale senza uscita” o signoreggerà il Parlamento grazie ad artifici elettorali di tipo maggioritario. Toni apocalittici decisamente fuori misura. Difatti nel Regno Unito, la patria di un parlamentarismo che nel corso dei decenni è evoluta in unpremierato, vige un sistema maggioritario come l’uninominale secco e gli elettori sanno in anticipo che l’inquilino del numero 10 di Downing Street sarà il leader del partito che vincerà le elezioni. Se non si tratta di un’elezione popolare diretta, poco ci manca. Di qui un interrogativo: il Regno Unito, per via di queste regole, non ha più le caratteristiche di una democrazia liberale? Non scherziamo.
Segre sostiene che con lo scioglimento il primo ministro avrà un potere di vita o di morte sul Parlamento. Ma sorvola sul fatto che con la fiducia il Parlamento ha anch’esso un potere di vita o di morte sul governo. E la parola tornerà agli elettori.

Segre grida al “lupo al lupo” perché il premierato provocherebbe un drastico declassamento delle prerogative del capo dello Stato. Ma questa non è altro che una favola metropolitana. E il fatto che sia ripetuta di continuo non ne certifica la veridicità. La fisarmonica del Colle, secondo la felice metafora di Giuliano Amato, si allarga quando c’è instabilità politica e si restringe quando le cose vanno per il meglio. Il premierato, sia detto con rispetto, non c’entra un fico secco. Segre finisce in bellezza. Afferma: “Anche le tribù della preistoria avevano un capo, ma solo le democrazie costituzionali hanno separazione dei poteri, controlli e bilanciamenti, cioè gli argini per evitare di ricadere in quelle autocrazie contro le quali tutte le Costituzioni sono nate”.
Una frase ad effetto, sicuro. Ma nelle forme di governo parlamentari non c’è divisione dei poteri tra esecutivo e legislativo perché legati dal rapporto fiduciario.

A questo punto non si può fare a meno di rilevare che quando Segre percorre le terre vergini della politica, non sempre le ciambelle le riescono con il buco. Per esempio, al Fatto Quotidiano del 18 gennaio 2001, quando il secondo gabinetto Conte pendeva più della torre di Pisa, Segre non si capacita che “vi siano esponenti politici che non riescono a fare il piccolo
sacrificio di mettere un freno a quello che Guicciardini chiamava il particulare “. Ce l’aveva con Matteo Renzi, pronto a dare il colpo di grazia al presidente del Consiglio pro tempore. Ma poi si fa prendere dall’entusiasmo: “Mi pare che si debba riconoscere che il governo ha fatto nell’ultimo anno un lavoro gigantesco per reggere l’urto di un’emergenza spaventosa; ed ha ottenuto una svolta storica nelle politiche europee”. Insomma, dipinge Giuseppe Conte come se fosse la reincarnazione di Cavour. Mentre sul Conte 1, sostenuto dai pentastellati e dalla Lega con il Pd all’opposizione, Segre si astiene. Cavour, quindi, è ancora di là da venire. E poi, come ha osservato Ugo Magri su “huffington post” del 19 maggio scorso, il premierato non è la legge Acerbo.

Elena Cattaneo esordisce dicendo di intervenire “da non esperta della materia”. Ma, scrupolosa com’è, si è ben documentata. Anche se le sue fonti il più delle volte pendono pericolosamente a sinistra. Sostiene che il premierato darebbe il colpo di grazia a un Parlamento alquanto malconcio. Ma se così stanno le cose, la colpa non è del destino cinico e baro caro a Giuseppe Saragat. Il Parlamento è di costituzione debole perché i suoi componenti sono di fatto nominati dalle segreterie dei partiti e il ricorrente trasformismo, che con la sfiducia costruttiva perorata da Cattaneo ingrasserebbe ancor di più, rappresenta uno schiaffo al popolo solo in teoria sovrano. Come ha denunciato Giorgia Meloni nella Sala della regina di Montecitorio.

Con il premierato si affermerebbe il principio che il decisore è eletto direttamente dai cittadini. Ma deve essere un premierato fatto a regola d’arte. Come quello predisposto da Cesare Salvi ai tempi della commissione bicamerale per le riforme costituzionali presieduta da Massimo D’Alema. E sul quale nessuno a sinistra ebbe nulla, ma proprio nulla, da ridire. Sul Foglio del 10 marzo scorso, quattro giorni prima degli interventi al Senato di Segre e di Cattaneo, Salvi – allora esponente di spicco del Pds – afferma che “non ha senso sentire parlare di un restringimento degli spazi democratici”. E ribadisce, nel caso che a sinistra siano duri d’orecchio: “Sulla messa in discussione della Repubblica attraverso il premierato, su una deriva per la nostra democrazia, però, ecco, su questo non sono d’accordo”.Chissà se Segre e Cattaneo avranno letto prima dei loro interventi le parole di Salvi?

 

 

Paolo Armaroli-Professore ordinario di Diritto pubblico comparato. Docente di Diritto parlamentare. Già deputato. Saggista

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