Cultura

L’archeologia italiana a difesa dei valori umani nel mondo: l’impegno congiunto delle università e degli enti di ricerca e di restauro e del maeci

Sì è svolto al Campidoglio il 9 maggio scorso il primo incontro dei 246 direttrici e direttori     di missioni archeologiche condotte con il cofinanziamento del Ministero degli Affari Esteri in 61 paesi nel mondo.     L’impressionante sforzo di ricerca e cooperazione nel campo della tutela e valorizzazione dei beni archeologici, storici, antropologici ed etnografici svolto dall’Italia da diversi decenni è stato così, improvvisamente, visibile e riconosciuto. E ha indotto a molte riflessioni su come ricerca, scienza, cooperazione, solidarietà, protezione della memoria dell’Umanità siano un’arma potente per fronteggiare la deriva autodistruttrice che affligge l’epoca in cui viviamo. L’incontro è stato organizzato dall’Ufficio VI della Direzione Generale per la Diplomazia Pubblica e Culturale del MAECI[1], recentemente istituita, alla presenza del Ministro degli Esteri Tajani, del Ministro della Cultura Sangiuliano e del Sindaco di Roma Gualtieri e ha visto l’intervento del Presidente della Commissione Cultura della Camera On. Federico Mollicone e della Sottosegretario MAECI On. Maria Tripodi cui si è aggiunto, per una sintesi conclusiva, il Sovrintendente capitolino, Arch. Claudio Parisi Presicce. Il tema della tavola rotonda che ha animato questo primo incontro è stato definire il modello di intervento italiano nel campo archeologico. Si tratta di un modello completamente non-coloniale, che parte dal mettersi a disposizione delle autorità localmente preposte allo studio, alla tutela e alla valorizzazione dei monumenti, dei siti e del paesaggio archeologici e, assieme ad esse, dare vita a progetti che per prima cosa prevedano inclusione della popolazione locale, formazione del personale, valorizzazione sia scientifica, attraverso lo studio e la pubblicazione, sia turistica, attraverso la costituzione di musei e parchi archeologici. Una sfida e un impegno giganteschi che tante Università in Italia, insieme alle eccellenze del Consiglio Nazionale delle Ricerche, dell’Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro, dell’Opificio delle Pietre dure, dell’ISMEO e di tante

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Gli archeologi italiani e iraqeni a Ninive salvano il patrimonio dell’umanità

Il patrimonio archeologico è un bene condiviso dell’Umanità intera e per questo deve essere protetto e valorizzato: osservare e toccare i resti materiali di tante generazioni umane dovrebbe aiutare la nostra memoria e il nostro senso di responsabilità. Per arrivare sin qui ci sono voluti millenni di sacrifici, di errori e di conquiste. La materialità dell’archeologia, toccare gli oggetti o i muri delle antiche costruzioni, risveglia la nostra più profonda umanità. Questa consapevolezza balza agli occhi quando ci si trova a scavare i centri maggiori del Vicino Oriente, in territori che hanno vissuto sofferenze indicibili e che hanno visto questo patrimonio calpestato e distrutto (cfr. Paolo Matthiae, Distruzioni, saccheggi, rinascite, Electa 2015). In questo campo l’Italia eccelle. Lo ha dimostrato di recente la missione archeologica dell’Università Alma Mater Studiorum di Bologna diretta da Nicolò Marchetti a Ninive, l’antichissima capitale del regno assiro, una delle più antiche e più estese città del Vicino Oriente. Le archeologhe e gli archeologi bolognesi, assieme allo State Board of Antiquities and Heritage dell’Iraq e con il fondamentale supporto del Ministero degli Affari Esteri (che sostiene le missioni archeologiche con un programma dedicato) e delle fondazioni J.M. Kaplan e Volkswagen hanno ripreso a lavorare a Ninive, inglobata dalla moderna Mosul, una delle città martirizzate da Daesh, nel 2019. Ninive è la città più antica dell’Assiria e una delle più sante, sede del tempio della dea Ishtar, l’antica divinità guerriera degli Accadi, ricostruita dai re paleoassiri nei primi secoli del II millennio a.C. e diventata poi uno dei centri principali del regno assiro nel I millennio a.C. Quando il re Sennacherib (704-681 a.C.) decise di trasferirvi la sua capitale, ampliò la città fino all’incredibile estensione di 700 ettari, proteggendola con un circuito di poderose mura lungo 12 km, in cui si aprivano 18 porte. Secondo la Bibbia,

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Cultura

Le storie dei tesori del Sud: infinita bellezza da riscoprire

Trasmettere l’amore per il Bello – per il nostro sterminato Patrimonio Culturale – è quello a cui tutti aspiriamo. Non è un compito facile. Accanto ai monumenti e alle opere ci sono le loro storie. Un groviglio di informazioni che hanno senso solo se chi ce le racconta è preciso.  Storie che rendono questi luoghi e queste opere luoghi e opere dell’anima e li fanno vivere nel nostro immaginario, nella nostra memoria culturale condivisa. Ci è riuscita Lauretta Colonnelli che – dopo il successo de Le muse nascoste (Giunti) – ora ci regala uno straordinario viaggio nell’arte, nel paesaggio e nelle anime multiple del nostro fantastico Meridione, intitolato Storie Meridiane. Miti leggende e favole per raccontare l’arte, edito da Marsilio. Il riflettore è puntato sul Sud – sorprendente e non solo già noto – dalla Concattedrale di Taranto di Gio Ponti ai deliziosi paesaggi del tedesco Jakob Philipp Hackert (1737-1807), a L’uomo che misura le nuvole di Jan Fabre (2019).   Lauretta Colonnelli scava nelle sterminate ricchezze culturali del nostro Meridione e, come Guglielmo II d’Altavilla (il Buono) che sogna e trova sotto a un carrubo il tesoro con cui realizzare il rilucente Duomo di Monreale, estrae dal suo scrigno preziosi racconti d’arte che ammaliano e fanno sognare. Sono quaranta i capitoli di un percorso poliedrico alla riscoperta di capolavori, monumenti e luoghi dimenticati o delle storie nascoste di quelli più noti.  L’archeologia ha un ruolo non piccolo in questo moderno florilegio e la raccolta si apre con la curiosa scoperta nei dipinti ottocenteschi di Edouard de Sain e Filippo Palizzi  delle giovani donne che lavoravano come portatrici di terra negli scavi di Pompei.   Ragazze dimenticate, che la Colonnelli con sagacia riconosce come operaie tessili che avevano perduto il lavoro per la chiusura degli opifici del cotone (niente di

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Cultura

Betlemme: al di là del muro. Parla l’archeologo

Non solo nell’immaginario di ogni cristiano, ma anche nella realtà, Betlemme era davvero un piccolo borgo, arrampicato sulla dorsale interna delle montagne che dividono il Mar Morto dalla costa mediterranea, qualche chilometro a sud di Gerusalemme, dove i tratturi che scendono nei uidian[1] del  Deserto di Giuda raggiungono la strada che porta a Hebron. Un paesino, tale e quale quelli che possiamo ammirare nei presepi. Per questo, quando i pellegrini arrivano al muro di cemento che oggi circonda la cittadina palestinese restano scioccati. Lo street artist Banksy, qualche anno fa, ha cercato con varie opere di stigmatizzare quanto questo muro rappresenti una ferita non solo simbolica per l’Umanità. Oltre il check-point, Betlemme è distesa sulla collina. Tutt’attorno sono piccole perle paesaggistiche: le cosiddette “Piscine di Salomone”, grandi vasche costruite dal califfo ottomano Sulaymān, Solimano il Magnifico (1494-1566), sfruttando mille anni dopo gli acquedotti costruiti magistralmente dalla X. Legio Fretensis, la legione romana inviata a sedare la rivolta giudaica[2]; il paesino di Beit Jala, con il grande convento di Cremisan, dove i salesiani veneti producono lo chardonnay della Terra Santa; il villaggio di Battir, costruito su terrazze digradanti come un borgo dell’Umbria o della Lucania, la piccola valletta verdeggiante del Uadi Artàs, dove da un lato sono stati trovati resti paleolitici e calcolitici, dall’altro si può ammirare ancora una volta la canalizzazione romana circondata di mandorli e olivi. Sul versante nord-orientale, invece, lo sviluppo della città è stato vertiginoso negli ultimi venti anni e, complice anche la situazione politica, il bucolico “campo dei pastori”, è stato quasi completamente circondato da case e alberghi. Alla mia domanda rivolta ad una collega palestinese sul perché di questa edilizia infestante, la risposta è stata “i nostri figli da qualche parte devono pur vivere”. A breve distanza è la “Milk Grotto”, dove Maria ha allattato

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Cultura

A Gerico, dove scavare serve a capire se stessi

Nel punto più basso della terra, al fondo della depressione del Mar Morto, anzi, più precisamente, dove il fiume Giordano termina i suoi infiniti meandri per gettarsi nel lago salato dove sopravvivono solamente diciassette microrganismi, si trova l’antica Gerico, oggi Tell es-Sultan, la collina del Sultano, dove da più di venti anni l’Università di Roma «La Sapienza» collabora con le autorità palestinesi per scavare e valorizzare uno dei più antichi e affascinanti siti archeologici del mondo. Tornare a Gerico è sempre un’esperienza sconvolgente. Il tell, ossia la collina artificiale formata dagli strati di occupazione umana, è relativamente piccolo, circa 6 ettari, un decimo di Ebla, un ventesimo di Ur. Ma gli strati sovrapposti sono tanti. Coprono più di diecimila anni di storia di una delle comunità più resilienti e più innovative conosciute. Lì, sul fondo di trincee di scavo alte fino a 15 metri, vi sono le tracce della prima comunità umana che decise di vivere in modo stanziale e riuscì ad addomesticare le piante e gli animali. A prezzo di sacrifici e per intere generazioni: consumando sempre i frutti peggiori e riservando per la semina quelli migliori. Gli archeologi, italiani e palestinesi insieme, affondano le loro piccozzine negli strati che – come capsule del tempo – restituiscono ogni giorno preziosi frammenti di un passato che può sembrare lontano, ma non è mai stato così vicino. Quando i nostri antenati di Gerico compresero che era molto più saggio e remunerativo prendersi cura della vita che uccidere per vivere e smisero di essere cacciatori e raccoglitori per diventare agricoltori e allevatori, dando inizio alla rivoluzione neolitica. La prima rivoluzione, la rivoluzione della preistoria. Quando capirono che vivere insieme in uno spazio pianificato e organizzato, costruito, poteva significare vivere meglio. Inventarono la ruota, il fuoco che trasforma i cibi e serve a

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