Ancora una volta sono tornata a pensare a Kafka, ancora una volta- e non solo perché ricorre il centenario dalla sua morte – il grande scrittore boemo mi “chiama” a sé perché io lo difenda dall’uso sconsiderato che la stampa e i social fanno dell’aggettivo derivato dal suo cognome (risposta kafkiana, provvedimento kafkiano, situazione kafkiana) esclusivamente nel senso di incomprensibile; l’effetto che ciò produce è di deriva di significato e di forte banalizzazione.
O ci crediamo tutti kafkiani o non lo siamo affatto. Kafka non ammette comunque che si finga di conoscerlo: questo “impiegato della vita”, così lo definì Debenedetti, nei suoi scritti privati ha cercato in ogni modo invece di farsi capire, di farsi conoscere, innanzitutto da sé stesso. Pagine che parlano di un uomo inquieto ma anche appassionato e che oggi mi stupiscono e mi attraggono più che le sue opere (tante volte ricordate e analizzate in questi mesi per celebrare la ricorrenza), più dell’ardua interpretazione delle sue simbologie, delle sue allegorie vuote.
Preferisco accostarmi all’essere gettato nel mondo, alla creatura fragile e insieme potente, tragica e ironica, innocente e tormentata, cinica e disperata che è stato Franz Kafka. Sono convinta, infatti, come il suo amico e biografo Max Brod, che se i suoi libri sono stupefacenti, Franz lo sia ancora di più. E per scavare nel suo abisso vorrei guardare attraverso i suoi occhi, rileggere alcuni passaggi della sua spietata autoanalisi nelle lettere d’amore scritte a Milena o ascoltare la voce di quest’ultima per via indiretta quando proprio a Max parla di Franz come di uno assolutamente incapace di mentire, come pure di ubriacarsi, un essere senza il minimo rifugio […] un individuo nudo tra individui vestiti.
La carne tenera e molle del corpo risulta in quelle lettere liberata dalla corazza, dall’esile carapace dello scarafaggio che scricchiola sotto i colpi di Franz stesso o della commossa destinataria. Milena Jesenskά, la giovane praghese che per prima tradusse in ceco alcuni suoi racconti tra cui La metamorfosi, affermava che in realtà Gregor Samsa era lei stessa, presentata come creatura indecisa e tenuta nascosta per vergogna dai familiari che la lasciavano morire nella solitudine e nella sporcizia. Almeno così afferma Margarete Buber-Neumann nel suo splendido ricordo biografico Milena, l’amica di Kafka. Una versione davvero singolare del più famoso racconto di Kafka, ma che comunque ci aiuta a capire non solo la venerazione della giovane traduttrice per il grande scrittore, ma anche il processo di assimilazione progressiva con l’amico/amato, cui l’unisce la malattia polmonare, il riconoscimento dei turbamenti e delle pulsioni erotiche contro cui si alzano i bastioni delle loro condizioni personali: il marito di lei ma, soprattutto, il corpo di lui.
Innocenza e disobbedienza
II carteggio tra i due, iniziato nell’Aprile 1920, si estende con densità e frequenza quasi convulse da parte di Franz lungo tutto l’anno, per prolungarsi ma diradato fino a metà novembre del ’23: è una summa psicologica del grande scrittore alle prese con il proprio abisso, con le profondità di quel mare che appare spaventoso a uno che- come lui- non sa nuotare e che ha enorme difficoltà ad ascoltare e accordarsi con il proprio corpo, così come con le note musicali.
Tutto questo viene detto esplicitamente e con un’apparente semplicità da Franz stesso: l’innocenza delle dichiarazioni dissimula così la sua disobbedienza alle ragioni del corpo. Ma non lo fa con i toni della confessione patetica, piuttosto col distacco quasi clinico di chi afferma di avere l’angoscia come compagna assidua e indissolubile. Il termine, nell’accezione che gli attribuisce Kafka, non ha molto di kafkiano, non è sinonimo di quell’inquietudine enigmatica (diciamo alla Pessoa) che solitamente gli si attribuisce.
Si tratta di una condizione molto fisica, legata alla debolezza del corpo e all’insonnia, uno stato che, mi patulla a volontà, non distinguo più alto e basso, destra e sinistra. L’angoscia lo “patulla”, cioè lo sballottola, lo fa dondolare come si fa con un bimbo, lo tiene stretto e con lei si rotola attraverso le notti. Un’amante avida e gelosa che lo avvince quanto più il suo cervello, il suo cuore e il suo corpo perdono la vicinanza fisica di Milena. Un’angoscia- tiene anche subito dopo a precisare – che non è privata – lo è anche, e paurosamente – ma è pure l’angoscia di ogni fede, da sempre ( Praga, 15.VII.20 Giovedì). Un male senza il quale sarebbe quasi totalmente sano, di cui non conosce le leggi interiori, ma soltanto la sua mano contro la mia strozza (21,VII.20). Con stupefacente ironia Franz associa la sua unione con donna angoscia al matrimonio di Milena: lei maritata e costretta a vivere a Vienna, lui a Praga sposato con Angoscia “trascinano entrambi la loro vita coniugale”.
Entrambi infedeli, mi viene da dire, ma di certo più disponibile all’adulterio e al tradimento Milena che non Franz, il quale mentre minimizza fino all’irresponsabilità la sua prima emottisi e la malattia polmonare che lo affligge, ingigantisce l’angoscia come il vero male fisico che gli fa da impedimento, che lo vincola e gli toglie ogni energia: Sono stanco, non so nulla e non vorrei che posare il viso nel tuo grembo, sentire la tua mano sul mio capo e rimanere così per l’eternità.
Milena ha saputo entrare nei meandri della mente di Franz, ascoltarne le difese psichiche, perdersi nei labirinti emotivi – sempre troppo razionalizzati – del suo devoto spasimante; ama anche la paura che egli prova per questo amore che lo fa essere insieme sommamente tranquillo e sommamente inquieto e che gli ispira parole struggenti ma fanciullesche come rivela l’uso del diminutivo – frequentissimo nelle lettere dell’uomo/bambino Franz: ti amo davvero, o donna che fatica a capire, come il mare ama un minuscolo sassolino sul suo fondo così ti inonda il mio amore.
Kafka e Milena, un enigma mistico
Lei è forte come il mare, esigente sul piano fisico mentre lui inventa “spaventevoli trattative tra il suo cervello e i suoi polmoni” e al più si immagina adagiato nel suo grembo materno, ammettendo la spossatezza del possedere: una prostrazione che lo pervade e che presto, troppo presto lo porta alla rinuncia al sesso e al mondo. Entrambi sono per lui una sorta di enigma mistico. Del corpo egli sente non solo il peso, ma tutta la potenza, anche attraverso la vitalità esplosiva della giovane Milena; sa che il corpo può aprirsi agli altri (il braccio cui chi vive abbandonato vorrebbe appoggiarsi nel breve racconto La finestra sul vicolo), pensa il corpo come una sorta di pagina su cui la società marchia le proprie leggi (Ne La colonia penale la pena per il condannato consiste nel portare scritto sul suo corpo il comandamento che egli ha violato).
Sul corpo la storia individuale e collettiva tatua i suoi segni, lascia tracce visibili, segna e con-segna l’individuo alla società. Riferendosi al proprio corpo, tra il mondo diurno (il locus amoenus boschereccio dove posa le labbra sulla spalla nuda di Milena e riposa sul suo petto seminudo) e “quella mezz’ora a letto” per Kafka si apre un abisso che egli non può valicare, probabilmente perché non posso. Di qua è il mondo che il suo corpo può possedere, di là la notte, un “fatto notturno”, una sorta di magia forse necessaria per procreare, ma a suo sentire ridotta a un incessante, spossante e immotivato “possedere”. Ma si può prendere possesso un’altra volta? – si domanda Franz. Non è come perderla? Nel riproporsi dell’atto sessuale egli individua una specie di nevrosi, una coazione a ripetere insensata e contraria al possesso stesso.
Angoscia, desiderio e sospensione
Nella lettera (Praga ,9.VIII.20) attraverso il corpo percepito come abisso Franz, vecchia talpa che scava nuovi passaggi anticipa la distinzione diurno/notturno che farà Hillman, ma resta ancorato al tema corporeo, ci trasporta nel suo mondo infero, nel suo Ade dove è costretto a ripetere qualcosa che lo atterrisce, a rivivere ogni volta l’incubo coitale. Questo profilo di desiderio mi pare collocabile proprio in quello che Lacan connette appunto all’angoscia, l’angoscia che insorge di fronte al carattere enigmatico del desiderio dell’Altro. La sensazione che ne deriva sarebbe quella di essere un oggetto di trastullo, un qualcosa in balìa del godimento insaziabile e senza limiti dell’Altro.
Anche un Altro come Milena così generoso e degno di fiducia ha in sé qualcosa di indecifrabile, suscita domande inquietanti. Aumenta in Franz la percezione del proprio corpo e dei suoi limiti, lo lascia in uno stato di sospensione interrogante. Se gli viene a mancare l’aria, anche un poco di quell’aria diurna da Paradiso terrestre, allora insorge l’angoscia. Terribili il ricordo e il racconto che fa a Milena di uno di questi atti notturni compiuti in un albergo quando era studente con una ragazza che per compiacerlo gli aveva soffiato nell’orecchio qualcosa di spinto.
Franz riconosce la forza eccitante della pornolalia, ma la combatte ridicolizzandola ed enfatizzandone l’aspetto “sudicio”: Il mio corpo, quieto molte volte per anni e anni, veniva poi scrollato fino al limite della sopportazione da quel desiderio di una piccola, ben determinata turpitudine,di qualcosa di leggermente ripugnante, penoso, sporco; anche nel meglio che ci fosse per me ne rimaneva qualcosa, un leggero cattivo odore, un po’ di zolfo, un po’ d’inferno. Attrazione e repulsione, forza e debolezza, tranquillità e irrequietezza del corpo.
Quanta insistenza sull’argomento e quanto senso di colpa in quell’ odore sulfureo! Senso di colpa che la vulgata critica fa risalire alla condizione ebraica e alla condanna da parte del padre: un padre castrante che punisce e asserisce, un padre che conosciamo attraverso un’altra famosissima lettera e che, secondo Walter Benjamin, coincide con il mondo dei funzionari. Gli odiosamati funzionari kafkiani, la cui ottusità è accompagnata da degradazione e sporcizia. Ma il peccato, con annessa condanna e che riguarda la scena notturna recitata da “due estranei tra loro”, è quello originale, è la mela di Eva su cui Franz ironizza per spiegare che non si tratta di un male irreparabile: È come se Eva avesse bensì staccato la mela ma soltanto per mostrarla a Adamo perché questa le piaceva. Il punto decisivo fu il morso nella mela; che si giocasse con essa non era lecito, ma neanche vietato (Praga ,13.VIII.20 Venerdì). Astuta scappatoia per il senso di colpa di uno che il venerdì successivo scrive: Sono sporco, Milena,infinitamente sporco, perciò faccio tanto chiasso per la purezza. Nessuno canta così puro come coloro che sono nel più profondo inferno[..] Le lettere a Milena si interromperanno per volere di Kafka,schiacciato dalla consapevolezza che quello per lei è un amore contrassegnato dall’impossibilità, ma di tale distacco mi preme evidenziare il vero contenuto emotivo: questo si connette alla complessione fisica (per dirla con Leopardi) di Kafka e all’inevitabile riverbero sulla sua psiche (tortuosità, distorsioni, dismorfie e disarmonie).
Italo Calvino e quel racconto di Kafka
Quel corpo percepito come attaccato a una serie di macigni, un corpo di appena 55 Kg (continuamente menzionati!) gli lasciava concepire solo un amore fantasmatico, un desiderio di tipo infantile e narcisistico: Amore è il fatto che tu sei per me il coltello col quale frugo me stesso. Lo stesso tipo di desiderio doveva avergli ispirato il racconto, scritto in prima persona nel 1917, intitolato Il cavaliere del secchio e con il quale Italo Calvino chiude la sua lezione americana sulla Leggerezza, offrendone una breve e suggestiva lettura. Il protagonista narratore esce di casa in sella a un secchio vuoto per cercare carbone per la stufa: è troppo in alto per il carbonaio la cui bottega è sotterranea e che però vorrebbe dargli il carbone, mentre la moglie lo scaccia come fosse una mosca. Il secchio è talmente leggero che il buffo cavaliere vola via trasportato oltre le Montagne di Ghiaccio.
Se fosse pieno – nota Calvino – non gli sarebbe stato possibile sollevarsi oltre le miserie, oltre l’egoismo e le privazioni. Giusto, ma cos’altro può essere quel secchio vuoto se non il desiderio stesso che l’Altro – non a caso un Altro femminile – non ha alcuna voglia di riempire? O ancora, azzardando un’altra ipotesi, poiché il protagonista è il narratore stesso, questo buffo psicologo, chissà che Kafka non l’abbia voluto far scomparire in un volo magico, alleggerito del peso della materia e del bisogno, visto che per un racconto non c’è sorte più bella che scomparire? (Praga,13.VII.20).
Caterina Valchera – Docente- Saggista