In Duse. The Greatest, infatti, un’immagine di Duse emerge attraverso la storia della ricezione, divaricata su due corpora di fonti, dirette e indirette. Le fonti dirette (manoscritte, a stampa, fotografiche, video) forniscono l’immagine che i contemporanei ebbero di lei (una chiave di lettura efficace e corretta anche scientificamente, alla base anche dello spettacolo prima citato, La Duse e noi). Di esse fanno parte le testimonianze video di Emma Gramatica, Eva Le Gallienne, Misa Mordeglia Mari, Lee Strasberg, Luchino Visconti.
Le fonti indirette compongono l’immagine che abbiamo noi della Duse, senza averla mai vista recitare se non in Cenere. Queste fonti indirette sono, nel film, le interviste di Bergamasco ad artisti viventi che, come lei e in varie forme, riconoscono nell’artista un modello: Valeria Bruni Tedeschi, Ellen Burstyn, Fabrizio Gifuni, Helen Mirren. Delle fonti indirette sotto forma di intervista fanno parte anche i dialoghi di Bergamasco con i professori universitari di storia del cinema e del teatro Emiliano Morreale, Mirella Schino (ordinaria a Roma 3) e Ferruccio Marotti (emerito alla Sapienza di Roma e protagonista del contributo più commovente, girato negli spazi ricchi di spettri del Teatro Valle a Roma: Marotti da giovane ha lavorato con Edward Gordon Craig, l’attuatore di una nuova idea di regia che a sua volta ebbe un rapporto di collaborazione turbolento con Duse); a essi si aggiunge la collega di Letteratura italiana Annamaria Andreoli, già Presidente della Fondazione Il Vittoriale degli Italiani.
Tra le testimonianze video di spettatori diretti selezionate da Bergamasco, quella di Luchino Visconti è sintomatica per una ragione. Visconti è l’unico uomo di teatro del Novecento che condivide con Duse una caratteristica del mito costruito attorno a entrambe le loro figure d’artista: pur essendo considerato uno dei più rivoluzionari maestri del teatro di regia, di fatto Visconti si è guadagnato la sua mitografia in assenza di registrazioni delle sue 66 regie teatrali. Come della recitazione di Duse sopravvive la sola prova cinematografica muta di Cenere, per Visconti regista teatrale dobbiamo immaginare quale fosse il suo metodo sulla base delle fotografie, dei resoconti diretti e indiretti e dei (soli, si fa per dire) suoi 18 film.
Tra le regie e gli apparati scenici di Visconti, c’è anche una commemorazione di Duse al Teatro Quirino a Roma il 3 ottobre 1958 per i cento anni della nascita, con un testo in cui Gerardo Guerrieri tentava di ricostruire la biografia dell’attrice attraverso le notizie, le cronache del suo tempo, le testimonianze e le lettere di lei. Partecipò anche Lilla Brignone, interprete viscontiana a teatro che incarnò la divina per lo sceneggiato RAI dedicato a Duse nel 1969 (l’anno di La caduta degli dei). Prologo dello sceneggiato fu la trasmissione Eleonora Duse. Appunti per una biografia in cui la stessa Brignone intervistò Visconti sulla Duse e che Bergamasco ha parzialmente inserito nel suo film. Negli stralci dal prologo RAI, Visconti rivela l’impressione sconvolgente che la recitazione della più sfuggente attrice teatrale di tutti i tempi ebbe su di lui quindicenne quando la madre Carla Erba lo portò nel 1921 al Manzoni a Milano per vedere la diva sessantatreenne recitare La donna del mare di Ibsen: pur sembrando più anziana degli anni che aveva, Duse lasciò in Visconti un’“impressione di sgomento”, “di una verità sconcertante”

“Aveva una tecnica tale da farti pensare che non ne avesse una”, dice, allo stesso modo, la regista, attrice e produttrice Eve La Galienne, in un’altra intervista inclusa nel film. La stessa recitazione fatta di nulla, non ovvia, apparentemente priva di tecnica, tanto da non fare capire che stesse recitando, apparve a Lee Strasberg, fondatore dell’Actors Studio e maestro di Marlon Brando, Marilyn Monroe, Al Pacino, Robert De Niro ed Ellen Burstyn. L’intervista di Bergamasco alla novantenne Burstyn (candidata all’Oscar per L’esorcista nel 1973 e vincitrice della statuetta per Alice non abita più qui diretta da Martin Scorsese nel 1974) ha uno spazio sul quale aleggia l’autorevolezza dei passaggi di consegne: Burstyn, infatti, fu allieva di Strasberg all’Actors Studio, di cui è stata direttrice artistica per la sede di New York, e di cui ora condivide la presidenza con Al Pacino e Alec Baldwin. Nel film manifesta il comprensibile orgoglio di essere l’ultima insegnante di recitazione in grado di tramandare ancora ai suoi allievi i ricordi della Duse in scena che Strasberg tramandò a lei. Burstyn ebbe anche modo di ricevere le impressioni di Eve La Galienne, che aveva visto in scena sia Duse sia la sua rivale storica, Sarah Bernhardt, che aveva scritto The Mystic in the Theatre. Eleonora Duse, e che aveva collezionato cimeli privati e di scena di Duse. Burstyn è l’attuale proprietaria di questi veri e propri talismani e feticci, che mostra come il suo “tesoro più prezioso” a Bergamasco durante il colloquio avvenuto nella sua casa di New York.

A conferma che il film non va relegato sbrigativamente nel genere documentaristico, Duse. The Greatestsegue anche la pista della ricerca sul campo condotta attraverso un laboratorio coordinato da Bergamasco, in presenza di Pierini, insieme a quattro attrici di generazioni diverse, nel Teatro “Eleonora Duse” ad Asolo. Elena Bucci, Federica Fracassi, Caterina Sanvi, Giuditta Vasile studiano l’iconografia dei gesti, immaginano a quali azioni sceniche ricorrenti Duse la applicasse: per esempio, con sensibilità quasi filologica Fracassi lavora sul gesto preso dalla vita quotidiana più riprodotto ed enigmatico dell’iconografia dusiana, cominciato con Frou-Frou e tanto riconoscibile che Visconti chiese a Maria Callas di recitarlo anche per le fotografie quando interpretò Violetta in Traviata. Bucci, Fracassi, Sanvi e Vasile si fanno invadere dalle parole che Duse ha scritto, si interrogano su quali espressioni della biografia della Duse siano diventate una costante in quella di ogni attrice moderna e di molte donne; si immergono infine nel bianco e nero di Cenere.




Di questa indagine sui gesti di Duse fa parte anche L’alfabeto dei gesti di Eleonora Duse, un dialogo fotografico in corso d’opera di Bergamasco con Alberto Terrile, che ha scattato dei bozzetti del volto e del corpo di Sonia a partire dal confronto con ritratti del volto e del corpo di Duse, parzialmente inseriti nel montaggio di Duse. The Greatest.

A sinistra: Alberto Terrile, Sonia Bergamasco. Studio di mani.
Da Alberto Terrile, L’alfabeto dei gesti di Eleonora Duse. Con Sonia Bergamasco, 2023
Nell’amalgama di fonti che ha nutrito il trattamento del film trovava posto un’osservazione critica di un attore mancato diventato uno dei più noti poeti e scrittori del Novecento, Aldo Palazzeschi:
“Era tale la forza scenica di questa attrice che gli attori, una volta nella sua orbita, eccitati dalla persona e dal suo movimento, agivano e la seguivano senza accorgersene e senza bisogno di provare: come viveva lei sulla scena, l’altro veniva trascinato a vivere di conseguenza”.
Questa Duse vamp, che irretisce i colleghi che recitano la parte senza fare le prove, ritorna nell’immagine che dell’artista si legge in un libro che è stato un viatico per Bergamasco autrice di versi poetici fin dagli anni della Scuola del Piccolo Teatro. Per il canzoniere rielaborato e pubblicato da Bergamasco due anni fa per La Nave di Teseo con il titolo Il quaderno, è stato importante l’influsso delle ombrose prose poetiche fatte uscire da Rainer Maria Rilke nel 1910 col titolo I quaderni di Malte Laurids Brigge, dopo che a Parigi la sua immaginazione aveva acquisito facoltà oniriche grazie alla frequentazione dello studio di statuaria di Auguste Rodin e della pittura di Paul Cézanne. In questa vicenda tutto si tiene: Rodin ammirò e incontrò Duse, che viveva come aveva tentato di vivere la disgraziata giovane compagna dell’artista, la talentuosa scultrice Camille Claudel (sorella di Paul, uno degli intellettuali interlocutori privilegiati nell’epistolario di Duse); la scultrice, al contrario dell’attrice, pagò scelte professionali e private simili con la progressiva degradazione del suo aspetto fisico e con la reclusione a quarantanove anni in manicomio, dal quale uscì solo da morta.
Nel 1904 Rilke aveva perfino pensato per la Duse La principessa Bianca, che potè sottoporre all’attrice solo nel 1912 a Venezia. Un lungo passo di I quaderni di Malte Laurids Brigge scritto dopo il 1908 trasfigura proprio la biografia e il carattere della recitazione della Duse e, verso la conclusione, conferma il referto di Palazzeschi in una prosa poetica eccellente per una lettura scenica (che infatti ho inserito nella drammaturgia Dialogo con Sonia Bergamasco sui classici per uno degli incontri dell’Accademia dell’Arcadia che si terrà a Roma alla Biblioteca Angelica il 16 febbraio 2025, con trasmissione in streaming sul canale dell’Accademia):
“Ai tuoi compagni di scena veniva meno il coraggio; come se li avessero rinchiusi con una pantera, strisciavano lungo le quinte e dicevano le battute previste solo per non irritarti. Ma tu li trascinavi avanti, li trattavi come se fossero veri”.


Diventata sicura navigante nell’epistolario diretto e indiretto della Duse (le lettere di d’Annunzio alla Duse precedenti il 1904 sono state distrutte per volontà dell’attrice), Bergamasco trova nella sua missiva favorita tra quelle scritte da Duse (indirizzata a d’Annunzio) il più eloquente autoritratto dell’attrice. La voce fuori campo di Bergamasco la recita poco dopo l’inizio di Duse. The Greatest:
“io sogno, sovente, sovente, assai sovente, quando ho l’anima in pena, o in gioia, sogno che cammino sull’acqua! – […] e… pensa stanotte appunto, mentre cercavo sonno e speranze, pel domani, ho sognato l’antico sogno dell’infanzia mia”.

Questa Duse che emerge dalla ricerca di Bergamasco non è “la pososa” (come la definì con sarcastica sufficienza il critico e giornalista adepto del fascismo Ugo Ojetti), ma una professionista completamente aderente al proprio mestiere, che preferisce le prove (l’arte nel suo farsi) agli applausi; è una donna coraggiosa, che riconobbe in un lavoro amato e a volte odiato la chiave della propria libertà, che per questo conobbe la solitudine ma che al suo mestiere non rinunciò mai davvero.
Bergamasco ha provato sulla propria carne che fare l’artista salva la vita (lo ha scritto lei stessa nelle note di regia del film). Come ogni intervento che salva la vita, essere un’artista richiede quotidianamente un’operazione di alta chirurgia su una ferita. Come Duse che rese il corpo strumento della mente, allo stesso modo Bergamasco è stata finora capace di concretizzare donne stratificate: sofferenti, che fanno soffrire, che commettono il male e fanno il bene come Martha, Mirandolina, Giulia, la Regina madre, Erminia. Alla fine di questa biografia autobiografica che è Duse. The Greatest, chi conosce il percorso che ha portato Bergamasco fin qui può dire di questa grande artista (come Adelaide Ristori disse di Duse vedendola recitare a ventisei anni in La principessa di Bagdad):
“esprimeva ciò che l’attrice deve provare, di camminare sui serpenti”….
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Floriana Conte – Professoressa associata di Storia dell’arte a UniFoggia e Socia corrispondente dell’Accademia dell’Arcadia.