Quando Donald Trump, nella notte della vittoria a Mar-a-Lago, ha ribadito la promessa elettorale di una nuova età dell’oro, non sapeva che il primo a beneficiarne sarebbe stato Giuseppe Conte. Fresco di piazza pacifista, pubblicamente abbracciato da Francesco Boccia, il navigato ambasciatore schleiniano nel campo post-grillino, magnanimo con i tormenti euro-atlantici del Pd, il leader pentastellato si trova in un’insperata posizione win win. Da un lato, capitalizza sapientemente la stanchezza dell’opinione pubblica per i tre anni di conflitto in Ucraina e la paura di una recessione che dopo il Covid, due guerre e il caro-energia, fa tremare le vene ai polsi. Dall’altro lato, evita critiche ai dazi super-aggressivi, annunciati, strombazzati, e ora sospesi per 90 giorni. Del resto non è compito di Conte, visto che non sta al governo e non intende né cavare le castagne dal fuoco a Giorgia Meloni né pregiudicare l’antico afflato che The Donald al suo primo mandato nutriva per l’allora premier “Giuseppi”. Non si sa mai.
Tra lealisti e riformisti il terzo festeggia

In meno di tre mesi dall’insediamento il presidente americano ha terremotato l’amministrazione Usa, l’ordine geopolitico mondiale, il commercio globalizzato, le Borse, e – si parva licet – le geometrie dell’opposizione in Italia. Così il Pd si incaglia nelle contraddizioni tra la linea più “movimentista” della segreteria e quella più “realista” della minoranza, che si spinge a sognare un bel dì Pina Picierno al Nazareno. Prima l’astensione a Strasburgo sul piano Rearm Europe (prudentemente ribattezzato Readiness 2030) con clamorosa spaccatura tra lealisti e riformisti, alla fine 11 a 10 per i primi, con il rischio per Schlein di finire sotto evitato grazie al ripensamento di Lucia Annunziata. Poi l’accrocchio del sì in Italia su una mozione che ne invoca il “radicale cambiamento” e contemporaneamente in Europa sulla relazione su difesa e sicurezza Ue che ingloba il fatidico piano Von der Leyen. Per orientarsi serve un enigmista, non un analista politico. Il prossimo rebus è atteso in Parlamento, la settimana che verrà, quando si voterà il testo M5S che stigmatizza la retorica bellicista europea, cucinato per risultare indigeribile ai Dem.
Il pantano largo
Tutta benzina nel motore di Conte che si scalda in direzione di Palazzo Chigi. Già perché il caos trumpiano – altro che età dell’oro, se ne sta accorgendo persino Elon Musk – rischia di far finire in soffitta una situazione che pochi mesi fa appariva cristallizzata, con il Pd quasi quindici punti sopra gli alleati-rivali e preminente nelle tornate locali (Emilia Romagna e Umbria). Alle Europee di giugno i Dem erano saliti dal 19% delle politiche al 24,1%, scippando il 9% di elettori ai grillini crollati dal 15,4% al 10%.
Momenti che andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia? Si vedrà. Di certo Conte – mai rassegnato a fare il junior partner dell’ipotetico campo largo – si sente pienamente in partita. Oltre che in piazza. All’”onda blu” pro Ventotene di Roma e poi dei sindaci di Bologna e Firenze si è contrapposto, con fair play solo apparente, il corteo ai Fori Imperiali “contro il riarmo europeo, fermiamoli”. C’erano Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni di Avs, Alex Zanotelli, Flavio Lotti della Tavola per la Pace, Barbara Spinelli figlia di Altiero, e “pezzi del nostro popolo” come nota con amarezza Andrea Orlando.

“Pace” sì. “Giusta”? Non importa
Accanto all’invocazione “pace” è scomparso l’aggettivo “giusta”, ma pazienza. Mentre Schlein è preda di tormenti più morettiani che amletici – andare o non andare, votare o non votare – Conte ostenta generosità: “Sono contento per la partecipazione Pd, da qui parte l’alternativa”. Del resto, se anche Matteo Renzi ha smesso di gloriarsi di aver mandato al governo Mario Draghi al posto del Conte Ter e riesumato il campo larghissimo, per l’Avvocato del Popolo è proprio un momento dorato.