Sergio ha detto “no”. Ecco perché Salvini al Viminale non ci va

Il Capo dello Stato da tempo fa da argine all’iperattività di Matteo Salvini e in più occasioni lo ha rimesso a posto. L’idea Papeete a capo del ministero dell’Interno a Mattarella non va. E Matteo cercherà di capitalizzare con Meloni, chiedendo il Veneto

“Di nuovo con questa storia di Salvini che vuole il ministero degli Interni?”.  Se fosse la sceneggiatura  di un political drama, la battuta starebbe bene sulla bocca del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, turbato nelle sue letture pomeridiane da un attaché costretto a mostrargli il nuovo affondo dal congresso della Lega, stampato da un terminale di agenzia e consegnato su un piattino d’argento. Ecco, se non è andata esattamente così, è lecito immaginare che poco ci manchi, visti i trascorsi tra il titolare del Colle e il Capitano. Da quando Matteo rivestiva il ruolo di ministro degli Interni: un ministero che in punta di diritto (linguaggio in uso al Quirinale come il latino nell’antica Roma) sovrintende anche alla “tutela dei diritti civili, ivi compresi quelli delle confessioni religiose, di cittadinanza, immigrazione e asilo”. Funzione quest’ultima ricoperta dal Capitano durante il governo con i Cinquestelle in maniera a dir poco irrituale, dichiarando guerra all’immigrazione irregolare con ogni mezzo, compreso il blocco navale per le Ong del mare. Da cui ne sortì il processo Open Arms, finito con un’assoluzione piena, ma foriero di non poche tensioni con la magistratura, per niente gradite dal Presidente del Csm, alias Sergio Mattarella.

Sergio Mattarella

Salvini polemizza con Mattarella, su tutto

Per non dire degli incidenti di percorso più recenti: come quando nel febbraio 2024 le cariche della polizia colpirono i giovani manifestanti a Pisa e il capo dello Stato li difese: dicendo che “va tutelata la libertà di manifestare pubblicamente opinioni” e che “con i ragazzi i manganelli esprimono un fallimento”. Salvini non si tenne e replicò “giù le mani dalle nostre forze dell’ordine”. Cosa farebbe se tornasse al Viminale è un quesito che al Colle nessuno intende porsi. Perché il ministero degli Interni è un ministero di garanzia, che sovrintende alle elezioni e deve garantire il loro regolare svolgimento, che è responsabile dell’ordine pubblico e della sicurezza. Interpretata a modo suo da Salvini, tanto che il “decreto sicurezza” mondato la scorsa settimana dai giuristi del Quirinale sui punti più controversi, come il carcere alle madri di neonati e le sim telefoniche tolte ai giovani migranti, viene liquidato in malo modo by Andrea Crippa, vicesegretario del Carroccio, come “una legge edulcorata da Mattarella”.

E Mattarella blocca Salvini ogni volta che si avvicina al Viminale

Insomma, dire che non vi sia grande simpatia è un eufemismo: non è un mistero che il Presidente sia divenuto il ponte levatoio che si solleva ogni qualvolta dalle camicie verdi parte l’assedio verso il fortino del Viminale. Al Capitano non ne ha fatta passare nemmeno una, a cominciare da quel sogno svanito d’incanto: il miraggio di elezioni anticipate dopo la richiesta di pieni poteri del Papeete, forte di un 30 per cento nei sondaggi, fu smontato dalla nascita del Conte 2, favorito da una conversione più “spintanea” che spontanea di Nicola Zingaretti: più propenso a incassare da quella crisi del governo giallo-verde un dividendo elettorale per il Pd. Convinto invece dai buoni uffici del Quirinale a trangugiare un esecutivo giallo-rosso retto dallo stesso premier che aveva governato con la Lega.

Il secondo colpo tre anni dopo, quando nel 2022 Giorgia Meloni non riuscì a far apporre a Mattarella la firma in calce al decreto di nomina di Matteo Salvini al Viminale, perché imputato appunto nel processo Open Arms. Del resto, lo stesso Salvini lo scorso settembre ha ricordato la sua mancata nomina di inizio legislatura al Viminale con una battuta tagliente, “qualcuno ha preferito così, non Giorgia”, in cui si riferiva non a Tajani o ad altro ma a qualcuno più in alto. Ma che oggi questa pretesa di tornare al Viminale sia vissuta come un risarcimento del toto subito lo fa capire bene il suo vicesegretario Claudio Durigon quando ripete da tre giorni che “Salvini ha subito un’ingiustizia e va risarcito”.

E’ evidente che i leghisti sperano di superare il deficit di consensi rispetto ai tempi d’oro tornando a gestire la politica dal Viminale, enorme fonte di potere. Così come è evidente che il prefetto Matteo Piantedosi, in quota leghista, sia pronto al passo indietro, ma non di lato per essere lanciato nel rodeo elettorale in Campania. Certamente, dire che Piantedosi stia facendo bene il ministro ma che va comunque sostituito non rafforza l’attuale titolare del dicastero.

Matteo Salvini

Se non il Viminale almeno il Veneto

Ma non è questo dettaglio a frenare il Capitano. Per Salvini è d’obbligo mettere alle corde Giorgia Meloni: pur sapendo che la premier potrà mettersi al riparo dagli attacchi rifugiandosi dietro il ponte levatoio del Presidente della repubblica. Il motivo di questo affondo è duplice: stare sulla scena mediatica e vantare un credito da riscuotere su altri terreni di trattativa: come quello delle candidature alle regionali, in cui il Veneto vuole essere gestito sempre dalla Lega.

Salvini, picchio guastatore

Ora, di sicuro la voglia di regalare un patrimonio aggiuntivo di potere politico all’alleato che scalpita ogni giorno per qualcosa, latita nelle sinapsi della premier. Tanto che dalle sue parti nessuno accredita la tesi che il buon Matteo possa assurgere allo scranno più ambito fin dai tempi della Dc, quando gli Interni venivano reclamati dalla corrente vincente al congresso. Anche se non entusiasma certo la capa del governo doversela vedere con una sorta di picchio guastatore che martella ossessivamente il tronco dalla base. Perché sa cosa significhi dover fare da paciere due volte alla settimana tra il Patriota scontento e l’azzurro Tajani.

Peggio ancora però entrare in collisione con il Colle, in una coabitazione tra Palazzo Chigi e Quirinale che potrebbe diventare ancora più problematica di quella del biennio 1986-1988 in Francia, tra il presidente socialista François Mitterand e il suo avversario politico Jacques Chirac, quando si sprecavano le tensioni per le ripetute richieste di nominare ministri troppo legati alla destra estremista, tutte puntualmente rifiutate da Mitterand con grande disappunto del primo ministro Chirac. 

Carlo Bertini

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