Tra i due litiganti Meloni gode. Ecco perché il governo non cadrà

Simul stabunt, simul cadent. Matteo Salvini e Antonio Tajani litigano ogni giorno su tutto, ma, lo dicono i numeri, sono legati mani e piedi. Tajani non ha intenzione di sfasciare la coalizione. E Calenda turba i sonni solo di Schlein

Metti un martedì qualunque a Montecitorio. Quattro “vasche” in Transatlantico, un po’ di chiacchierate bipartisan e ti fai l’idea precisa e inossidabile che questo governo non cadrà. Mai, fino al 2027. Mettici poi due numeri e due “raggionamendi” – come li chiamava Ciriaco De Mita – su e giù per il red carpet (il segretario Dc li faceva rigorosamente sotto braccio, strusciando i piedi ad ogni falcata) e la tesi prende forma senza subordinate: le tensioni e i litigi sui dazi e sull’Europa tra i due vicepremier, possono portare ad un solo esito. La stabilità. Il destino dell’uno è legato a quello dell’altro. “Simul stabunt, vel simul cadent”, è il caso di dire, come avvertì papa Pio XI a proposito di Patti Lateranensi e Concordato (espressione poi storpiata in “simul cadunt” dal ministro Claudio Martelli nel 1988, subito ripreso in aula dal latinista Natta: “Cadent, Martelli, cadent!”). Ovvero, se Salvini sta con Trump e conto l’Europa, Tajani fa il pompiere, “Io non voglio fare la guerra a nessuno”. Dunque i due sono destinati a sopportarsi a vicenda, in un clima di scontro perenne, ma senza sbocchi.

Matteo Salvini

Il voto sarebbe una rovina per Salvini

E per corroborare la tesi, ecco due dati: se facesse cadere il governo, la Lega non riporterebbe lo stesso numero di parlamentari, oggi ha circa il 18 per cento degli scranni a fronte di un 9 per cento scarso di consensi nei sondaggi, perché nel 2022 gli furono concesse più candidature di quanto fosse dovuto sulla carta. Se oggi Salvini facesse il bis del Papeete, quando nel 2019 fece cadere il governo giallo-verde sperando di riandare a votare, tornerebbe nelle Camere con un ben magro bottino. Lo ammettono le stesse camicie verdi in camera caritatis: “Noi – spiega Igor Iezzi, uno dei colonnelli di peso, lumbard doc – siamo riusciti la volta scorsa a portare tanti deputati perché siamo stati premiati nelle candidature di coalizione, grazie a questa legge elettorale che premia le forze minori”. Stesso dicasi per Forza Italia. Ergo, la legge elettorale non si cambierà, perché sta bene a tutti i piccoli e medi partiti, e premia la tesi di Enrico Cuccia che “le azioni si pesano, non si contano”: ovvero i voti dei partiti sotto il 10 per cento servono a fare massa per vincere le elezioni e ottenere il premio di maggioranza. Pesano eccome, più del loro numero algebrico. Ma dipende sempre dalla benevolenza di chi dà le carte nella coalizione.

Ma se Matteo Salvini rompesse le righe dove andrebbe a finire?

Allora la domanda che segue dunque è: Giorgia accetterebbe di fare di nuovo un’alleanza elettorale con la forza che l’avesse fatta uscire da Palazzo Chigi anzitempo? I più smaliziati dicono sì, “perché il centrodestra trova sempre il modo per ricompattarsi”. I più realisti si chiedono “ma se Matteo rompesse le righe, dove andrebbe poi a sbattere?”. Pertanto, Salvini sta drammatizzando i suoi slogan perché ha un congresso alle porte questo week end, ma alla Lega in ogni caso non converrebbe mai provocare una crisi di governo: sarebbe un suicidio e Salvini perderebbe la segreteria se volesse forzare la mano. Vale la pena citare il caso di Fausto Bertinotti: quando fece cadere Prodi, nel 2001 non venne più ammesso nella coalizione dall’Ulivo guidato da Rutelli, che perse il match contro il Cavaliere. Poi però Rifondazione comunista venne reintegrata nel centrosinistra nel 2006, tanto che Romano Prodi vinse per la seconda volta. Salvo esserne espulsa nel 2008 quando provocò la seconda caduta di Prodi insieme a Clemente Mastella. E infatti nel 2008 Walter Veltroni perse le elezioni contro Silvio Berlusconi e il polo delle Libertà. Quindi Salvini non ha alcun interesse a confermare lo stigma di sfasciacarrozze che gli ha appioppato Tajani.

Antonio Tajani

Al netto delle illazioni Tajani non sfascerà la coalizione di Governo. Ecco perché

Il quale, tra un supplì e un arancino al burro trangugiati alla buvette di Montecitorio, sgombra il campo dai residui dubbi che possono riguardare Forza Italia (gira voce da mesi che i fratelli Berlusconi siano stanchi di stare con i sovranisti e con una destra anti-diritti). Quando a proposito di urne gli si chiede della legge elettorale, risponde secco “io sono per il proporzionale”: facendo drizzare le orecchie ai giornalisti, perché sarebbe come dire che gli azzurri vogliano tenersi le mani libere. Per poter fare “la politica dei due forni” a urne chiuse e decidere con chi fare un governo.  Ma poi il presidente di Forza Italia chiarisce subito: “Un proporzionale… con premio di coalizione però”. Ahhhh, vabbé, allora siamo punto e a capo. Coalizione vuol dire restare legati mani e piedi a Fdi e Lega.

Carlo Calenda

Il perturbante Calenda agita solo Elly Schlein

Secondo dato cruciale che conferma la tenuta a prova di bomba del governo Meloni: la paura di questo centrodestra è di perdere contro un’ammucchiata di centrosinistra messa su per scalzare la Meloni, perché i sondaggi mostrano che tutti insieme i nemici vincono. E quindi meglio stare insieme turandosi il naso altri due anni, che andare incontro ad una sconfitta nelle urne. Ecco perché la sortita di Carlo Calenda sul manipolo di “volenterosi” da mettere in piedi con Forza Italia, pezzi di Pd e centristi vari, ha sollevato un polverone: a destra ha tolto il sonno a Maurizio Lupi, che con i suoi moderati racimola sì e no un 2 per cento, ben contendibile dal consenso che sulla carta ha il partito di Calenda.

E sta provocando grattacapi anche a Tajani, costretto a choarire che “se Calenda vuole venire da questa parte bene, ma noi non ci spostiamo dal centrodestra”. A sinistra invece, il timore è che “senza i voti di Carlo si rischia di perdere”, ammettono i più sinceri tra i dem, visto che se si arrivasse al fotofinish, basterebbe un due per cento per fare la differenza. Insomma, “senza Calenda si perdono le elezioni”, è il refrain a destra e a sinistra. “Anche senza Conte e i 5stelle si perde”, è il fantasma che agita Elly Schlein. Ma questa è un’altra storia.

Carlo Bertini

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