Il difficile mestiere del giudice e la Costituzione

La riflessione di un alto magistrato, forte di una robusta coscienza storica, sulla evoluzione della figura del giudice dopo l’avvento della Costituzione, il fallimento dell’epurazione e l’arrivo di nuove leve di magistrati nati con la Repubblica.

È stato lungo, e travagliato, il percorso di attuazione della Costituzione. Un percorso ancora ben lontano dal traguardo. Che, forse, non sarà mai raggiunto, se solo si pensa ai ripetuti tentativi di riforma, che tendono allo stravolgimento della Carta licenziata dalla Costituente nel 1948.

Si pensi, per esempio, alla Giustizia. La Costituzione attualmente in vigore (art. 104) declina uno Statuto di autonomia e indipendenza “da ogni altro potere” della Magistratura, laddove, invece, da parte di certa politica – e da un’opinione politica di parte, opportunamente veicolata da una Stampa altrettanto di parte – si continua a sostenere che la Magistratura non costituirebbe, “tecnicamente”, un potere  dello Stato e si fa di tutto per limitarne autonomia e indipendenza: depongono in tal senso i progetti di riforma sulla separazione delle carriere (il cui scopo neppure tanto nascosto è quello di poter controllare il P.M.), la conseguente divisione del CSM con aumento della componente laica, infine l’introduzione dell’Alta Corte disciplinare per i magistrati. Un progetto di riforma che viene da lontano, essendo già previsto dal Piano di rinascita democratica stilato dalla P2 di Licio Gelli, il quale – a sua volta – era consustanziale ai vari tentativi di eversione (golpe Borghese, Piano Solo, la c.d. “strategia della tensione”) che hanno scandito la Storia della Repubblica fra la metà degli anni Sessanta e i primi anni Ottanta del secolo scorso.

La Costituzione è stata mal digerita dalla classe politica e dal ceto dirigente

Michele Ainis

Tutto nasce dal fatto che la nostra Legge fondamentale, dopo gli iniziali entusiasmi per la sua approvazione, è stata mal digerita dalla classe politica e dal ceto dirigente; come scrive Michele Ainis, non si è mai trasfusa in “sangue e linfa della società italiana”. Così, paradossalmente, l’incapacità della politica di mettere a profitto il lascito dei Costituenti, ha finito per porre sul banco degli accusati proprio la Costituzione, i suoi valori, le sue qualità generatrici. Non sapendo – o non volendo – applicarla, la nostra classe politica, senza grandi distinzioni, ha ascritto il malfuzionamento delle Istituzioni – dovuto a cause tutte diverse dalla Costituzione – ad un suo preteso vizio d’origine, il consociativismo, espressione con la quale si è “bollato” proprio lo spirito che animò i lavori della Costituente e che si caratterizzò in termini di concordia discors, frutto dell’afflato unificatore prodotto dalla Resistenza al nazi-fascismo.

Le resistenze alla nuova Carta si manifestarono sin da subito.

Piero Calamandrei

Del resto, se la classe politica al governo del Paese nell’immediato dopoguerra era quella che aveva sconfitto il nazi-fascismo, al vertice della Pubblica Amministrazione – compresa la Giustizia – erano rimasti invece gli stessi uomini che si erano formati durante il fascismo.

Come scrisse Piero Calamandrei, il periodo dal 48 al 53 “passerà alla storia come il quinquennio dell’inadempimento costituzionale” e si tratterà di “un inadempimento voluto … doloso”.

“L’epurazione mancata”

Per quanto riguarda la Giustizia, in particolare, nella fase di passaggio alla democrazia, molti magistrati furono inizialmente sottoposti ad un procedimento epurativo, per verificare se fossero in grado di servire le nuove istituzioni democratiche. Ma – come ricordano Antonella Meniconi e Guido Neppi Modona nel libro “L’epurazione mancata” – a parte qualche sporadica rimozione nei confronti di quelli che si erano maggiormente compromessi col Regime, non si registrò alcun vero ricambio, registrandosi una sostanziale continuità tra fascismo e post fascismo: ciò determinò, ovviamente,  una forte resistenza all’applicazione dei principi costituzionali – chiaramente antifascisti – che si protrasse sino ai primi anni Sessanta.

La grande sfida dell’Italia democratica, con riferimento alla giustizia, si giocava tutta sull’autonomia e indipendenza della Magistratura, in applicazione – finalmente reale e concreta – del principio illuminista della “separazione dei poteri”. In perfetta antitesi rispetto a quanto era accaduto durante il fascismo (e, ancora prima, in epoca liberale), in cui il potere giudiziario era, a dir poco, appiattito sul potere legislativo ed esecutivo, soprattutto in quella zona grigia in cui la giustizia incontra la politica.

Si spiegano così i ritardi della politica a rendere operativi la Corte Costituzionale – organo importantissimo per la funzione di garanzia e terzietà quanto al rispetto dei principi costituzionali – ed il Consiglio Superiore della Magistratura, destinato a garantire l’indipendenza e l’autonomia del potere giudiziario. Come pure le difficoltà a riconoscere alle donne l’accesso alla Magistratura (che avverrà solo nel 1963, grazie all’abrogazione di una legge del 1919), una perdurante gerarchizzazione dell’ordine giudiziario (con la divisione fra “alta” e “bassa” magistratura), la tendenza della Suprema Corte (in cui, per ragioni anagrafiche, sedevano magistrati entrati in carriera durante il fascismo) a “cancellare o indebolire il carattere antifascista delle origini della Repubblica… utilizzando in modo arbitrario norme dell’amnistia scritte in modo ambiguo e confuso” (Flores-Franzinelli in “Conflitto di poteri” – Il Saggiatore), infine talune decisioni (processo Graziani, delitto Rosselli, Strage di Portella della Ginestra) in cui a prevalere sembrano essere più le ragioni della politica che quelle della Giustizia.

Le cose iniziano a cambiare a metà degli anni Sessanta, grazie soprattutto alla nuova leva di magistrati, entrati in servizio in età repubblicana. Importantissimo, sotto tale punto di vista, fu il Congresso nazionale dell’ANM tenutosi a Gardone nel 1965. Nella mozione finale, approvata all’unanimità, si sostenne infatti la necessità per il giudice di interpretare le leggi in conformità ai principi costituzionali, applicando direttamente la Costituzione – quando tecnicamente possibile – e rimettendo la questione alla Corte Costituzionale nell’impossibilità di una interpretazione “adeguatrice”.

Tale “visione” ha trovato immediato riscontro nella giurisprudenza della Corte Costituzionale (e, oggi, anche in quella delle Corti Europee) costituendo ormai jus receptum che il giudice, di fronte a più possibili interpretazioni, debba scegliere anzitutto quella “costituzionalmente orientata”, escludendo quindi che egli possa sollevare una questione di costituzionalità al solo scopo di richiedere alla Corte la soluzione di un mero dubbio interpretativo, o di far prevalere un’interpretazione della legge rispetto ad un’altra. Ancor più nello specifico, la Consulta ha escluso che una legge possa essere denunciata e dichiarata incostituzionale solo perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali, dal momento che una tale pronuncia può intervenire solo quando è impossibile darne interpretazioni costituzionalmente conformi.

Questa vera e propria rivoluzione copernicana si riflette necessariamente sul ruolo del magistrato, il quale, proprio a causa di questo nuovo rapporto con la legge, deve necessariamente uscire dalla turris eburnea in cui taluno lo voleva (e lo vorrebbe ancora) confinato – quella di essere mera “bocca della legge”, fautore di una interpretazione esclusivamente letterale delle norme – per diventare, invece, protagonista attento e sensibile rispetto a tutto ciò che intorno a lui si determina o si trasforma; con rilevanti ricadute nel mondo dell’economia e del lavoro o nella sfera più spiccatamente “politica” (non “partitica”).

Era quanto, già all’indomani dell’entrata in vigore della Costituzione, propugnava Piero Calamandrei che proprio nella Costituzione indicava il fondamento di una “nuova teoria dell’interpretazione delle leggi”, fondata, appunto, sul diffuso controllo di costituzionalità.

La rivoluzione apportata dalla Costituzione, con la previsione della sua superiorità gerarchica rispetto alle altre fonti, ha posto dei limiti invalicabili al legislatore ordinario (pena il giudizio di incostituzionalità), con la conseguenza che, a differenza del periodo precedente (liberale o, a fortiori, fascista) orientato per l’assoluta prevalenza del momento “politico” della formazione del diritto, oggi risulta decisiva soprattutto l’attuazione dei principi costituzionali.

Ecco allora che si parla di “crisi della legge”, pur se è illusorio pensare ad un primato assoluto della legge, se solo si pensa, da un lato, al pluralismo ordinamentale e delle fonti, dall’altro alla possibile lacunosità dei testi normativi. Come acutamente ebbe a rilevare Livio Paladin, l’entrata in vigore della Costituzione ha vanificato “l’idea di un sistema normativo bello e fatto … preesistente al momento interpretativo”, sostituendolo con un “sistema in movimento, soggetto a continue evoluzioni”, come è naturale, del resto, che sia, dal momento che la legge non sempre è in sintonia con l’evolversi del costume e della società, ma talvolta arranca, si attarda fino a sclerotizzarsi.

Peraltro, privilegiare l’interpretazione costituzionalmente orientata non significa svalutare la portata del testo normativo, ma solo non avere, rispetto al dato letterale, un atteggiamento supino, posto che il giudice è anche il “custode” dei diritti fondamentali del cittadino (il “potere dei senza potere”, richiamando una celebre opera di Vaclav Havel), rispetto alla cui tutela si registrerebbe un clamoroso arretramento se solo si negasse la possibilità di una lettura delle norme in senso conforme a Costituzione. Si pensi, per esempio, alle pronunce dei giudici in materia di bio-etica (o meglio di bio-diritto: i casi Welby, Englaro, le sentenze in materia di stepchild adoption), o, ancora, le pronunce in materia di immigrazione, determinate dall’applicazione, oltre che dei principi costituzionali, della normativa internazionale; e così via.

Si consideri, fra l’altro, che al giudice italiano è preclusa una pronuncia di “non liquet” (istituto del diritto romano che consentiva l’omessa pronuncia: n.d.r.), sicchè nei casi citati una interpretazione letterale della norma, senza tenere in conto i principi fondamentali contenuti in Costituzione, si sarebbe tradotta – e si tradurrebbe – in una mortificazione dei diritti del cittadino.

Questo nuovo ruolo del giudice – insieme a determinate iniziative processuali per reati contro la pubblica amministrazione, che hanno visto come imputati importanti uomini politici (si pensi alla stagione di “Mani pulite”) –  ha determinato, soprattutto negli ultimi anni, la reazione, spesso scomposta, della classe politica (non tutta), la quale, piuttosto che avviare una pacata riflessione sulla necessità di un armonico confronto su questi temi (a cominciare da una “scrittura” delle leggi che sia conforme a Costituzione e ai principi contenuti nella Convenzione Europea per i diritti dell’uomo), ha scelto la strada della contrapposizione frontale, da un lato rivendicando (apoditticamente) il primato della politica, dall’altro lasciandosi andare ad una continua campagna di delegittimazione della magistratura nel suo complesso, sostenuta da una parte della stampa che piuttosto che essere il “cane da guardia della democrazia” ha scelto di essere il puntello della maggioranza (di volta in volta) al governo. Per carità di patria evito di fare esempi. Ricordo solo che in questi giorni la Giunta dell’ANM ha scelto di querelare un giornalista che ha definito la magistratura “cancro da estirpare”.

La politica mal tollera i “pesi e contrappesi” previsti dalla Costituzione per evitare le degenerazioni, sempre possibili, del potere esecutivo e se, a parole, afferma di voler garantire l’indipendenza dell’ordine giudiziario o di Istituzioni come la Corte Costituzionale, di fatto opera per un loro ridimensionamento giustificato dalla necessità che non vengano frapposti “lacci e lacciuoli” (espressione cara a Berlusconi) all’azione di governo. Si tratta, peraltro, di un fenomeno non solo italiano, ma comune a molti Stati europei e agli stessi Stati Uniti d’America.

Come ricordava Donatella Stasio (La Stampa del 12.9.24) in Italia “l’offensiva anti-giudici si è sviluppata in tre mosse: la prima di esse è il logoramento della fiducia dei cittadini nella giustizia indipendente” (C’è troppa insicurezza? colpa dei giudici che non applicano come dovrebbero le leggi esistenti. Le carceri sono sovraffollate? colpa dei giudici che mettono dentro le persone con troppa facilità. Quel tale è evaso dai domiciliari? colpa dei giudici che non l’hanno mandato in carcere. La giustizia civile è lenta? colpa dei giudici che sono fannulloni e non scrivono sentenze. Troppe assoluzioni? colpa dei P.M. che non sanno sostenere l’accusa e degli stessi giudici che non sono in grado di trovare la verità. E via di questo passo).

A tutto ciò, recentemente, si sono aggiunte da parte di certa stampa (e di certa politica che le ha fatte proprie) accuse di immaginari “complotti” da parte delle “toghe”, volti a mutare l’assetto politico (si tratta, a mio modo di vedere, delle accuse più gravi, perché indicano la magistratura come eversiva dell’ordine democratico), senza che di ciò sia stata fornita la benché minima prova.

Per non parlare delle accuse che, in questi giorni, importantissimi esponenti di Governo e delle Istituzioni hanno rivolto ai magistrati della Procura di Palermo, colpevoli di … “interpretare le norme” (sic). E cosa dovrebbero fare, di grazia? Applicare la legge – sempre e comunque – secondo i desiderata del Governo?

Da ultimo, vanno ricordate alcune delle riforme in cantiere, il cui fine ultimo è quello di ridurre la magistratura a mero organo burocratico, così da riportarla all’ovile, se non come durante il periodo fascista, almeno come i primi anni della repubblica.

L’ideale perseguito è quello di un giudice burocrate, che sta al suo posto e “non disturba il manovratore”, non già il modello di giudice voluto dalla Costituzione.

Scriveva Piero Calamandrei che il pericolo per il magistrato, non va individuato nella “rara corruzione penale” o nelle “simpatie politiche”, solitamente assenti o ininfluenti, ma in un male ben più subdolo, costituito dal “lento esaurirsi delle coscienze, che le rende acquiescenti e rassegnate: una crescente pigrizia morale, che sempre più preferisce alla soluzione giusta quella accomodante, perché non turba il quieto vivere e perché l’intransigenza costa troppa fatica”. La peggiore sciagura che può capitare a un magistrato – concludeva Calamandrei – “è quella di ammalarsi del terribile morbo dei burocrati che si chiama conformismo. È … il terrore della propria indipendenza, una specie di ossessione, che non attende le raccomandazioni esterne, ma le previene”.

È proprio ciò che taluno vorrebbe! Peccato che, per questo “qualcuno”, ci siano dei magistrati che burocrati non sono e non intendono essere.

 

Roberto TanisiMagistrato. Già presidente di Tribunale e di Corte d’Appello

Spigolature di mezza estate di un alto magistrato

La Russa e il riflesso pavloviano Lo scienziato russo Ivan Pavlov, ai primi del novecento, per dimostrare l’esistenza del riflesso Read more

Carcere e suicidi: una soluzione va trovata!

Quando, lo scorso 24 maggio, è andato in scena, a Taviano (Lecce), lo spettacolo “Storie sbagliate” – una dolente riflessione Read more

Democrazia a rischio?

“Assolutismo? Siamo in democrazia, il popolo vota, il popolo vince. Non faccio filosofia, ma politica. Semmai qui c’è il problema Read more

Separare le carriere dei magistrati? Un boomerang dagli effetti imprevedibili per la democrazia

Passato il bailamme elettorale, si tornerà a dover fare i conti con le riforme istituzionali in itinere: quella del c.d. Read more

Tags: , , ,
Articolo successivo
Lo “Stato virtuale” di Enrico Letta e la “clausola della libertà preferita”
Articolo precedente
Premier elettivo, Lauricella: nessun pregiudizio ma riforma ibrida non priva di rischi

Menu