Federico Fubini, vicedirettore ad personam del “Corriere della Sera”, è inviato ed editorialista di politica internazionale, economia e finanza. Già corrispondente da Bruxelles, è autore di inchieste, analisi e commenti. Il suo ultimo libro è “L’oro e la patria. Storia di Niccolò Introna eroe dimenticato” (Mondadori). Con Bee Magazine analizza il rapporto sulla competitività dell’Ue appena presentato da Mario Draghi.
Il Rapporto Draghi evidenzia in quasi 400 pagine il gap di competitività dell’economia rispetto a Usa e Cina, concentrandosi su tre macro-settori: innovazione, industria e transizione ecologica, difesa e sicurezza. Partiamo dal primo: la nostra tecnologia è così indietro?
Già da diversi anni si è notato un calo di competitività. A partire dal 2017-18 tra le prime venti aziende tecnologiche mondiali rientra una sola europea: l’industria olandese Asml che produce macchinari per componenti dei semiconduttori. Anche la tedesca Sap che produce software gestionale è uscita dal ranking, scavalcata dalla concorrenza statunitense.
Un segnale sottovalutato?
Questa situazione già visibile è diventata palese e innegabile con la pandemia. Quando il brevetto europeo che ha dato origine ai vaccini contro il covid è stato sviluppato qui solo dalla Pfizer: le grandi aziende farmaceutiche europee non sono state in grado di rispondere alla sfida. Questo è stato il secondo grande shock dopo l’uscita dalle classifiche dell’élite tecnologica. Non solo: con la guerra in Ucraina, Asml ha perso quote di mercato perché Washington le ha chiesto di sospendere le forniture in Cina, dove esporta circa il 30% della produzione, a pena di perdere lo sbocco nordamericano. In sostanza, le ha imposto una scelta: noi o loro.
Questa perdita di competitività si è manifestata anche in altri campi?
Certo, nel digitale, nell’intelligenza artificiale. E’ un problema diffuso: Draghi, con la sua sensibilità ed esperienza, ha visto che l’Europa e l’Italia sono rimaste indietro e ha lanciato l’allarme.
Sulla decarbonizzazione non va meglio: come si può finanziare una spesa enorme – il report quantifica quella annua complessiva in 800 miliardi, pari a due Piani Marshall – quando sistemi e approvvigionamenti energetici sono così diversi fra Stato e Stato?
Draghi ha fatto un’osservazione interessante che rappresenta anche una critica alla scorsa Commissione Von der Leyen. In sostanza, che il Green Deal è stato concepito in modo incoerente, stabilendo il 2035 come deadline per il passaggio alle auto elettriche senza prevedere uno sforzo parallelo per adeguare le infrastrutture e le colonnine di ricarica. Così come non c’è stato adeguato impegno nella produzione di energia pulita e di batterie. Queste incongruenze nella strategia hanno fatto sì che la transizione apparisse contro le imprese anziché a favore. Poi c’è un altro dato che è rimasto per ora fuori dal dibattito italiano.
Quale?
Draghi ha detto con chiarezza che una parte importante della decarbonizzazione si fa con le rinnovabili. Non le ha tolte dal tavolo, nonostante i sussidi Usa dell’Inflation Act o il quasi monopolio cinese nella produzione di pale eoliche e pannelli solari. Il punto è che in Europa, sebbene la quota di rinnovabili cresca, non c’è stato il disaccoppiamento del prezzo dell’energia elettrica da quello del gas (il decoupling, ndr). Perciò i costi delle bollette europee sono più alti che altrove e in Italia superano la media Ue. L’ex premier ha ammonito contro le posizioni di rendita e i mercati “catturati”: sono raccomandazioni che valgono anche per il nostro Paese.
L’Italia sta facendo abbastanza sulla transizione ecologica?
Gli ultimi decreti del governo hanno posto ostacoli alla produzione di energia rinnovabile puntando piuttosto sul nucleare di ultima generazione. Non sono contro, ma il nucleare è una scommessa che all’inizio ha costi medio-alti e servirà alle prossime generazioni perché non andrà a regime prima di 15 anni.
La difesa comune è un tema incandescente, che tocca nervi sensibili. Di un esercito unico si parla dal Dopoguerra senza risultati concreti. Sarà possbile “cambiare postura” avviando progetti e commesse integrati?
Il report avanza un’ipotesi importante: la rinuncia al diritto di veto dei singoli Stati in una serie di materie, tra cui la politica estera. Ed è difficile ottimizzare la difesa, che è strettamente legata al rapporto con gli altri Paesi, senza coordinare l’azione politica internazionale. Non è plausibile che chi ha più risorse le metta in comune se rimane vulnerabile al veto di chi ha meno risorse. Su questo tema il governo non ha una posizione ufficiale, ma FdI, il partito della premier, è favorevole invece a mantenere il diritto di veto.
Il tema del veto è uno dei freni a mano per l’Europa disegnata da Draghi. Ma c’è anche il tema dei costi, enormi, a cui lei ha accennato. I Paesi “frugali”, Germania in testa, non saltano di gioia all’idea di nuovo debito comune.
800 miliardi di euro sono il 5% del Pil europeo, forse qualcosina in meno. Draghi non specifica quale parte proverrebbe da risorse private e quale da soldi pubblici. E’ una cifra elevata ma non inconcepibile. Dal Duemila alla pandemia proprio la Germania ha ridotto gli investimenti del 3% rispetto alla media degli anni Ottanta: se li avesse mantenuti invariati avrebbe speso altri 2400 miliardi. Insomma, parliamo di cifre forti ma possibili.
C’è una domanda politica che si fanno tutti: è possibile realizzare il piano Draghi senza Draghi? O in assenza di un incarico a Supermario resterà un bell’esercizio di retorica?
Non è un piano di facile realizzazione, ma Draghi non ha l’ambizione di ricoprire ruoli in Europa, anche perché non ce ne sono di vacanti adatti a lui. E’ rilassato sull’argomento. Per il resto, pensiamo a quante volte è stata respinta l’idea del Recovery Fund prima di essere accettata, o quella della Bce come prestatore di ultima istanza considerata inaccettabile fino a pochi giorni prima del “whatever it takes”.
Quindi c’è speranza che l’”agonia” dell’Europa non sia già irreversibile?
La differenza rispetto al passato è che quelle decisioni sono state sempre prese in momenti di crisi acuta, mentre oggi c’è uno scenario di minaccia e difficoltà ma non di crisi conclamata.
Con due due guerre in corso, nessuno si sente sereno.
Ma il Pil non sta scendendo del 5% né ci si chiede se il mese prossimo ci sarà ancora la moneta unica. L’economia cresce poco ma cresce, e siamo vicini alla piena occupazione. Certo, una crisi potrebbe arrivare il 5 novembre: se alla Casa Bianca venisse eletto Donald Trump che mettesse dazi all’Europa e ritirasse le garanzie Usa nella Nato. Allora certo che la situazione potrebbe cambiare drasticamente.
Federica Fantozzi – Giornalista