8 settembre 1943. E Hitler si prese il Nordest. Un pezzo d’Italia quasi annesso al Reich

Dopo l’articolo dello storico Carmelo Pasimeni, con alcune interessanti annotazioni sul ruolo che ebbe la città di Brindisi, quale capitale del Regno del Sud, pubblichiamo un rapporto focalizzato sul Nord Est. Questo è il racconto dettagliato di ciò che accadde poco prima e dopo l’8 Settembre, con tutta la sequela di scontri, assassini, compresa la vicenda delle foibe

Ogni anno si ricorda l’armistizio dell’8 settembre 1943, ma pochi rammentano o mettono a fuoco che i tedeschi, dopo la caduta del fascismo e la rottura dell’alleanza, cercarono da subito di impadronirsi di un pezzo d’Italia. Pochi si chiedono come accadde e perché, ancor meno sanno come si sono comportati i soldati italiani lasciati da soli ed in assenza di ordini a fronteggiare le forze molto spesso preponderanti dell’esercito tedesco.

Per dare una risposta a queste domande bisogna premettere che la tragedia dell’8 settembre ha travolto tutta l’Italia e l’esercito italiano su tutti i fronti, ma con situazioni molto differenziate.

 I precedenti

Nella primavera / estate del 1943 le forze dell’ Asse avevano subito una serie di rovesci militari, a cominciare dalla fine della guerra in Africa (12 maggio) e dallo sbarco americano in Sicilia (9 – 10 luglio).

Con la caduta del fascismo, il 25 luglio successivo, l’Italia era stata subito occupata da truppe tedesche e quindi con l’armistizio di Cassibile tra governo Badoglio e gli Alleati la situazione era completamente mutata. Il conflitto si era trasferito nell’ Italia occupata dove la guerra era ben lungi dal finire.

 

 Vediamo cosa accadde sul confine del Nordest.

  1. L’ alba della resistenza – La battaglia di Tarvisio

La battaglia di Tarvisio nella notte dell’ armistizio.ùPochi sanno che la Resistenza all’ occupante è cominciata a Tarvisio proprio nella notte tra l’ 8 e il 9 settembre 1943, subito dopo l’ annuncio dell’ armistizio. Nonostante la mancata collaborazione degli alti comandi gli italiani, poco armati e in numero ridotto, seppero reagire e combattere valorosamente meritandosi l’onore delle armi.

L’ antefatto.

Venerdì 6 agosto 1943 a Tarvisio si svolse un incontro tra Guariglia, ministro degli Esteri italiano, ed il suo omologo del Reich, Von Ribbentrop, I due ministri erano accompagnati dai rispettivi capi di stato maggiore Ambrosio e Keitel. I tedeschi arrivarono armati fino ai denti su un treno blindato, mentre gli italiani su un treno normale con una delegazione in prevalenza civile, seguita da un drappello di carabinieri.

(NOTA Ivanoe Bonomi, Diario di un anno. 2 giugno 1943 – 10 giugno 1944, Castelvecchi ed., 2014, prima ed. 1947)

Ivanoe Bonomi, di cui quest’ anno cade il centocinquantesimo della nascita, nel suo Diario di un anno ci ha lasciato una descrizione dell’ incontro vivida e precisa:

“La delegazione tedesca, cappeggiata da Ribbentrop e da Keitel si è mostrata subito arrogante ed ostile. Ha rimproverato al Governo Badoglio di essere sorto sulle rovine del fascismo e facendo arrestare Mussolini, l’amico di Hitler. Ciò non poteva essere tollerato senza precise dichiarazioni ed esplicite assicurazioni. Che se le une e le altre fossero apparse insufficienti, era intenzione tedesca di punire il Governo italiano e di ristabilire l’ordine turbato. Già alcune divisioni erano scese in Italia (da cui una distaccata da Hitler dal fronte russo di Orel ed inviata, in tutta fretta, a … vendicare il suo amico) e tali divisioni potevano convertire il loro proposito difensivo contro la temuta invasione anglo-americana in un proposito offensivo contro il Governo Badoglio e contro l’antifascismo italiano.

Naturalmente il Guariglia ha replicato rivendicando all’Italia – alleata e non subordinata della Germania – il diritto di risolvere i suoi problemi interni. Il rovesciamento del regime fascista era un problema interno, e la Germania non ha alcun legittimo diritto di immischiarsi in una vertenza che non la riguarda. La Germania e l’Italia sono legate da un patto di alleanza in una guerra che è diventata comune. Il Patto non è rotto, il patto sussiste, la guerra comune continua. Al di fuori dell’alleanza e della condotta della guerra, la Germania non ha nulla da chiedere all’Italia.”

I colloqui di Tarvisio proseguirono in un’atmosfera di dubbio e di diffidenza, ed alla fine le delegazioni, lasciandosi, si confermarono la fiducia. In realtà l’incontro segnò la fine di ogni forma di collaborazione.

Pochi giorni dopo gli italiani firmarono l’armistizio mentre i tedeschi portarono a termine l’operazione Alarico, nome in codice di un piano elaborato fin dal maggio 1943 su ordine personale di Hitler e volto a prendere il controllo della penisola nel caso in cui l’ Italia avesse abbandonato lo schieramento delle Potenze dell’Asse. Il nome “Alarico” era ispirato al re visigoto Alarico I, che saccheggiò Roma nel 410, e tale piano ebbe poi piena attuazione nel settembre 1943 con il nuovo nome operazione Achse ( Asse, in tedesco).

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A Tarvisio, la notte dell’ armistizio.

Al di qua delle Alpi tutto inizia alla caserma Italia di Tarvisio la sera dell’8 settembre, dove erano di stanza 300 “Guardie alla Frontiera” (GaF) a presidiare con mezzi molto scarsi la statale Pontebbana da eventuali atti di sabotaggio, vigilando anche sulla sicurezza dei valichi di Coccau-Porticina e Ratace. Le Guardie disponevano solo di fucili e di un paio di mitragliatrici, dato che l’ artiglieria pesante era stata destinata alle operazioni della campagna di Jugoslavia.

I tedeschi invece erano armatissimi e presenti in forze, a cominciare da un battaglione di SS a Camporosso ed un intero reggimento a Ugovizza; oltre a loro nella vicina piana di Arnoldstiein erano acquartierate diverse divisioni in transito.

Appena sentito alla radio l’ambiguo proclama di Badoglio il comandante del presidio tenente colonnello Giovanni Jon si rese conto che il rischio di un attacco tedesco si faceva molto concreto. Vista la mala parata Jon ordinò di far rientrare tutti i soldati e di riunirli nel cortile della caserma, dove nel silenzio generale spiegò loro che in caso di attacco degli ex alleati avrebbero dovuto resistere.

Dato che la caserma non aveva linea telefonica autonoma il comandante cercò di avere rinforzi da Udine tramite il centralino civile sito nella piazza di Tarvisio, presidiato dal plotone antiparacadutisti aggregato alla GaF; al posto telefonico quel giorno prestava servizio una decisa ragazza di Cormons di nome Luigia Picech che, consapevole del pericolo, aveva sostituito la più giovane sorella Rosa.

Nonostante le sue insistenze Jon non ebbe risposte soddisfacenti dai comandi. Dopo una breve ispezione all’ esterno per rendersi conto della situazione il tenente colonnello tentò ancora di chiamare il comandante del XXIV Corpo d’Armata gen. Zannini, che era andato a dormire con l’ordine di non essere disturbato; il suo capo di S.M., col. Corniani, promise il suo interessamento ma senza garantire nulla.

Nella latitanza dei comandi italiani Jon imparti le disposizioni per la difesa della caserma, affidata al comandante di complemento Bruno Michelotto, per poi chiamare il suo pari grado col. Brand, comandante delle ‘Waffen SS’ della Val Canale. Brand rispose di non assumere nessuna iniziativa senza il suo benestare e poco dopo le 2 giunse per telefono l’ultimatum tedesco: un’ora di tempo per consegnare le armi. Venne respinto. Allo scadere del termine, alle 3 del 9 settembre, giunse all’ingresso un side car con un ufficiale tedesco per intimare la resa immediata. Inutile dire che anche in questo caso la risposta fu negativa.

I tedeschi attaccarono subito la caserma dove gli italiani si erano asserragliati, spazzandola con le mitragliere da 20 pollici a 4 canne ed impedendo ogni movimento; Jon riuscì a ricontattare il comando del XXIV Corpo a Udine, ma anche stavolta senza ottenere alcuna risposta.

L’ altro obbiettivo dell’ attacco era il centralino in piazza a Tarvisio, difeso da un plotone di fucilieri antiparacadutisti. I tedeschi lo colpirono con un colpo di cannone demolendo una parete del locale, dove la giovane Luigia continuava a lavorare pur ferita ad una mano ed alla testa, nonchè da una scheggia di mortaio nel piede. Gli ‘antiparà’, stretti sempre più da vicino, contrattaccarono ma furono tutti abbattuti.

Lo scontro, duro e cruento, durò sei ore e si concluse alle 9.15 del mattino, quando il presidio italiano sparò l’ ultima cartuccia e chiese la resa, poi concessa con l’onore delle armi. Caddero 25 uomini della Gaf ed altri quattro morirono in ospedale per le ferite riportate; 32 i feriti. Ben superiore il numero delle vittime tedesche, almeno 80.

Le 95 GaF superstiti furono deportate in Germania; tra di loro anche il comandante Michelotto, poi decorato con la medaglia d’argento al valor militare. Stesso riconoscimento verrà assegnato alla valorosissima Picech, salvata dall’ amico di famiglia Hans Planger, fiduciario del Terzo Reich a Tarvisio, che la fece fuggire nascondendola in un carro di fieno. Luigia Piceh sarà la prima donna della resistenza a ricevere la medaglia d’Argento al Valor Militare. Oggi una via la ricorda a Tarvisio.

Nel 1980, davanti alla Caserma Italia, fu apposta una lapide con l’ iscrizione “Ai nostri gloriosi caduti primi liberatori della patria martoriata.”

NOTA un’ ampia descrizione dei fatti si ritrova in L’ alba della Resistenza : quei 300 eroi delle Guardia di frontiera, a Tarvisio, anno 2007, pubblicato in Rivista ANA.

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L’alba della Resistenza: quei 300 eroi della Guardie di frontiera, a Tarvisio

  1. La battaglia di Gorizia In seguito al perentorio ordine di resa impartito dagli ex alleati tedeschi dopo l’ 8 settembre le truppe italiane, abbandonate a loro stesse, si erano dovute arrangiare. A Gorizia quanto rimaneva del Regio Esercito si era unito ad una brigata operaia monfalconese comandata da Camillo Donda e Ferdinando Marega e ad un gruppo di partigiani sloveni. Fin dal pomeriggio del 10 settembre gruppi di operai erano convenuti alle Cave di Selz, poco lontano da Ronchi. Erano ancora vestiti in abiti da lavoro ma già armati per resistere all’ occupante. Iniziava così la battaglia di Gorizia.

I partigiani

Gli insorti (tra cui Vinicio Fontanot, noto oppositore del regime, la giovanissima staffetta Ondina Peteani e Antonio Tambarin, futuro senatore socialista e sindaco e di Ronchi dei Legionari) si erano dati il nome di Brigata Proletaria. Una volta riuniti alle cave si misero immediatamente in marcia e tentarono di raggiungere Gorizia prima dei tedeschi, che però erano arrivati in città quasi subito per occuparla nei due giorni successivi.

A questo punto i partigiani ripiegarono sulla linea Merna – Valvoiciana occupando a loro volta l’aeroporto militare e le due stazioni ferroviarie bloccando così le comunicazioni tra quella zona ed il Carso, dove erano stanziato i partigiani sloveni della “Compagnia d’Assalto” di Stojan Furlan, un personaggio molto interessante ma poco studiato.

Stojan Furlan era un ex seminarista dal cognome friulanissimo, uomo di confine mezzo italiano e mezzo sloveno, di religione cattolica ma anche di fede comunista. Combattente coraggioso, il giovane Furlan cadrà pochi mesi dopo, il 10 dicembre 1943, ad Ossegliano in val di Vipacco in uno scontro con i nazifascisti.

I tedeschi​

I tedeschi, dopo duri scontri durati per giorni, si impadronirono di una delle due stazioni cittadine perdendo però l’aeroporto distrutto a causa degli combattimenti. Per riuscire ad aver ragione della tenace resistenza dei partigiani l’esercito tedesco dovette far ricorso a forze speciali e mettere in campo i grossi calibri. Nei giorni successivi, infatti, la 24° Panzer-Division del 2° Panzerkorp-SS quasi al completo e la 71ª divisione di fanteria contrattaccarono cacciando i partigiani dall’ ultima roccaforte di Merna, ma ciò avvenne solo il 26 settembre 1943.

In quei giorni, traguardando sviluppi politici e anche possibili cambiamenti della linea di confine, il Comitato di Liberazione nazionale con una decisione molto controversa aveva proclamato l’annessione della Venezia Giulia alla Slovenia.

3.Il disastro di Pola

A Pola la vicenda dello sbandamento e della caduta è emblematica e quasi incredibile. Nel grande porto militare, infatti, c’era una piazzaforte munitissima con quasi 40 mila soldati, dei quali 20 mila di presidio e gli altri in ritirata dal fronte balcanico. Erano tutti italiani e bene armati, tranne un piccolo gruppo di sommergibilisti tedeschi.

Subito dopo la notizia dell’armistizio il locale Comitato antifascista aveva organizzato una manifestazione di protesta al grido di «Fuori i tedeschi da Pola». Secondo gli accordi l’oratore ufficiale doveva essere il prof. Nicola De Simone, napoletano ed esponente comunista, appena ritornato in città dal confino. La folla in attesa nei dintorni della piazza del Mercato era stata più volte dispersa da carabinieri, poliziotti e militari del battaglione “San Marco”, assieme a sottufficiali della Scuola della marina da guerra italiana comandati dal capitano dei carabinieri Casini.

Questi militari – caso non unico dopo la caduta del fascismo –avevano aperto il fuoco sulla popolazione civile lascando sul campo Carlo Zuppini e il marinaio Giuliano Cicognani, sottocapo di Marina, oltre a Giuseppe Zattila, perseguitato politico già condannato dal Tribunale speciale a 14 anni di carcere in quanto membro del Partito comunista. Una decina i feriti.

Azioni di questo tipo rientravano in uno schema repressivo preciso deciso dagli alti vertici militari ed in particolare dal noto criminale di guerra generale Roatta che dopo l’insediamento del governo Badoglio era rimasto Capo di stato maggiore dell’esercito. Nel difficile periodo tra caduta del regime ed armistizio, detto dei 45 giorni, le manifestazioni popolari antifasciste vennero brutalmente stroncate sulla base a cosiddetta “circolare Roatta” che ordinava alle forze armate e alle forze dell’ordine di intervenire anche con la forza.

«…poco sangue versato inizialmente risparmia fiumi di sangue in seguito. Perciò ogni movimento deve essere inesorabilmente stroncato in origine… muovendo contro gruppi di individui che perturbino ordine o non si attengano prescrizioni autorità militare, si proceda in formazione di combattimento e si faccia fuoco a distanza, anche con mortai e artiglieria senza preavviso di sorta, come se si procedesse contro truppe nemiche.»

(La circolare diffusa da Roatta[13])

Ed infatti negli scontri verificatisi tra il 25 luglio ed il primo agosto 1943 ci furono ben 93 morti e 536 feriti, oltre a 2.276 arresti.

Dopo la repressione delle proteste la Regia Marina si stava organizzando per lasciare la piazzaforte di Pola. Proprio la mattina del 9, nelle primissime ore, le navi italiane abbandonarono il porto.

Un articolo pubblicato qualche anno fa sull’ Arena di Pola (NOTA 9 settembre 1943; l’ Italia abbandona Pola) riferisce che le prime a partire furono le unità della Divisione Navi Scuola Colombo, Vespucci e Palinuro, sulle quali erano imbarcati gli Allievi Ufficiali di complemento dell’Accademia Navale trasferita a Pola (isole Brioni) da Livorno per motivi di sicurezza, poi la corazzata Giulio Cesare che uscì dal porto coi cannoni da 381 puntati su Scoglio Olivi (la base dei sommergibili dove erano alla fonda alcune unità tedesche) e successivamente l’incrociatore Pompeo Magno, il cacciatorpediniere Sagittario, le corvette Urania e la poi famosissima Baionetta che dai giorni successivi avrebbe goduto di vastissima notorietà. Fin delle prime ore del 9 settembre, infatti, la Baionetta aveva ricevuto disposizioni di recarsi immediatamente a Pescara per imbarcare a Ortona il re e la Corte, in fuga verso Brindisi con i massimi livelli militari!

Seguivano la torpediniera Insidioso, i sommergibili Serpente, Pisani e Mameli, la cisterna Verbano, la motonave Eridania, il naviglio leggero (dragamine, MAS, rimorchiatori) ma anche ogni imbarcazione che potesse raggiungere la sponda opposta.

I pochissimi tedeschi presenti in città, cioè circa duecento sommergibilisti, si preparavano – loro! – a resistere.

Lo abbiamo già detto, ma solo per fare un paragone: in quel momento in città c’ erano circa ventimila uomini (italiani) di presidio e quasi altrettanti soldati di ritorno dalla guerra nei Balcani. Vista la mala parata i tedeschi piazzarono alcune mitragliatrici prelevate dai sommergibili all’ estremità del ponte in ferro che unisce l’isola Scoglio Olivi alla terraferma, e rimasero in attesa.

Il primo reparto tedesco che giunse a Pola la sera dell’11 settembre fu uno squadrone di cavalleria motorizzata comandato dal capitano Weggand. Assieme a loro era il capitano di corvetta Umberto Bardelli, mediatore tra l’ufficiale tedesco e l’ammiraglio di divisione Strazzeri, comandante la piazzaforte marittima di Pola. Subito dopo giungeva il maggiore delle SS Hertlein, che assumeva subito il comando, ed al quale l’ammiraglio Strazzeri firmò la resa consegnando la piazzaforte e quasi quarantamila soldati senza colpo ferire. Addio a Pola.

  1. Zone di operazioni OZAV & OZAK
    Già dal luglio 1943 Berlino conosceva le intenzioni di Badoglio e si era posto il problema di occupare il Brennero e Tarvisio per tenere aperti i collegamenti con il fronte meridionale italiano, oltre a blindare l’Istria per impedire un eventuale sbarco angloamericano.

Hitler in persona, con un’ordinanza del 10 settembre 1943, creò le zone di operazioni OZAV, Alpen Vorland (province di Trento, Bolzano e Belluno) ed OZAK, Adriatisches Kùstenland (Friuli, Venezia Giulia, Istria e la allora provincia italiana di Lubiana), ponendo a capo di quest’ultima proposito un civile e non un militare. La scelta cadde sul politico nazista Friedrich Rainer, un notaio carinziano.

  1. Adriatisches Kùstenland: italiani, friulani, sloveni
    Il nome ex austroungarico di Adriatisches Kùstenland era stato attribuito ai territori del confine orientale in una prospettiva decisamente anti italiana ed annessionistica, da perseguirsi silenziosamente e solo in via di fatto: non c’ era stata alcuna formalizzazione per non creare tensioni con la Repubblica Sociale Italiana. Il ricostituito partito fascista repubblicano si era reso conto delle intenzioni tedesche, lamentandosi con lo stesso Mussolini dell’impossibilità di svolgere qualunque attività politica nelle province di Udine, Gorizia e Trieste. Le proteste dell’ex duce con Berlino caddero nel nulla. Il disegno tedesco era articolato e perseguito con determinazione. Friedrich Rainer, a fine luglio 1943, scrisse a Hitler una lettera relativa alla futura annessione del Friuli Venezia Giulia. Il suo obiettivo era creare la divisione dei vari gruppi etnici, anche con la creazione di scuole e di stampa slovene in funzione antitaliana. In quest’ottica i friulani erano considerati un gruppo etnico a se’ stante, autonomo e germanizzabile, quindi non italiano.

  1. Adriatisches Kùstenland. L’apparato amministrativo
    Un altro passo del commissario Reiner fu quello di nominare dei consiglieri amministrativi tedeschi per controllare i prefetti italiani, creando inoltre una speciale polizia economica per sorvegliare il mercato nero.
    Sul fronte della repressione venne creato il Tribunale Speciale di Sicurezza pubblica, che giudicava in unico grado crimini quali l’ostilità all’occupante tedesco, la collaborazione con il nemico ed il sabotaggio.
    Le fattispecie di reato erano piuttosto generiche, la mano molto pesante e le eventuali domande di grazia potevano essere esaminate solo dallo stesso Rainer, tanto per sbrigare una formalità.​

Questa specie di condominio italotedesco creò una serie di grossi problemi pratici, ad esempio in tema di reclutamento delle classi di leva. I giovani richiamati (i non molti che si presentavano) potevano essere destinati a milizie tedesche (principalmente Wehrmacht od SS ), alla guardia civica (una difesa territoriale presente specialmente a Trieste) e solo verso la fine del conflitto ci fu la possibilità di essere arruolati nell’esercito della RSI, come era stato insistentemente richiesto, ma solo su base volontaria.

  1. Vendette, massacri e foibe.
    Nei giorni immediatamente successivi all’ armistizio le truppe tedesche presero il controllo di Trieste, quindi di Pola e subito dopo di Fiume. Il resto della Venezia Giulia, dopo il collasso del Regno d’ Italia, restava abbandonato a se stesso.

Nella confusione del momento i partigiani sloveni occuparono quasi tutta la regione senza incontrare resistenza, mantenendo le loro posizioni per quasi un mese. Come già avvenuto durante la battaglia di Gorizia per la Venezia Giulia, il 13 settembre 1943 a Pisino il Consiglio di liberazione popolare per l’Istria proclamò l’annessione – unilaterale – dell’Istria alla Croazia. Due settimane dopo, il 29 settembre 1943, fu istituito il Comitato esecutivo provvisorio di liberazione dell’Istria.

Nella cupa atmosfera di odi e di vendette derivante dalla sanguinosa occupazione nazifascista della Jugoslavia vennero istituiti quasi immediatamente dei tribunali popolari diretti ed ispirati dalle forze partigiane che facevano riferimento ai Comitati popolari di liberazione. Tali tribunali, in pochi giorni, pronunciarono numerose condanne a morte, in numero di centinaia. Tra le vittime ci furono in primis esponenti del regime fascista ormai caduto e funzionari del Regno d’ Italia, ma anche soggetti non direttamente politicizzati e scelti probabilmente per motivi etnici, quali alcuni personaggi noti della comunità italiana. Oltre a questi vennero colpiti persino alcuni esponenti antifascisti, ma non comunisti, considerati ostili alla futura Jugoslavia che si andava affermando grazie alle vittorie militari di forze partigiane egemonizzate dal partito comunista.

In tale ottica vien ricordato il noto caso di Rovigno dove il locale Comitato rivoluzionario stilò una lista con i nomi di esponenti fascisti, tra i quali però venivano fatti rientrare elementi estranei al PNF e altri nomi che non ricoprivano cariche pubbliche. Una volta arrestati essi vennero tradotti a Pisino dove vennero passati per le armi assieme, va detto, ad altri personaggi tra i quali alcuni croati.

Secondo un antico uso locale molti dei condannati vennero gettati nelle doline o inghiottitoi per farli sparire (detti popolarmente foibe). Nelle località costiere, in momenti diversi, risultano anche casi di sparizioni e di annegamenti. La vicenda è tragica e molto complessa e richiederebbe da sola una trattazione ben più ampia. Limitiamoci a ricordare che nel solo 1943 tali forme di persecuzione e di giustizia sommaria senza possibilità di una vera difesa avrebbero provocato 6 – 700 vittime, mentre il loro numero complessivo si aggirerebbe, secondo le stime via via elaborate, tra le 5 e le 10.000 od addirittura, secondo altri, sulle 15.000.

  1. Odilo Globocnik, la Risiera e l’ operazione Ataman
    Un’ altra eminenza nera dell’ AK era Odilo Globocnik, nato cittadino austro – ungarico a Trieste nel 1904 da famiglia sloveno tedesca e quindi conoscitore delle questioni di confine. Globocnik, citato nel romanzo ucronico Fatherland di Robert Harris, era un criminale di guerra delle SS ben noto come ” boia di Lublino”, città polacca dove si era reso responsabile dello sterminio di circa 1,5 milioni di ebrei.

Uno dei suoi primi atti a Trieste fu la costruzione della Risiera, unico campo di sterminio nazista presente sul territorio italiano, dove vennero massacrate migliaia di vittime. Si tratta di uno degli episodi meno ricordati della storia triestina, una vicenda terribile oggetto di costante rimozione. Globocnik, quale comandante superiore delle SS e della polizia di Trieste, organizzò anche l’operazione Ataman. Si trattava dell’insediamento dei cosacchi (militari e civili) nell’ Alto Friuli, dove nel frattempo era stata proclamata la Repubblica Partigiana della Carnia.

Almeno 22.000, forse 25.000 cosacchi (9.000 soldati, 6.000 “vecchi”, 4.000 “familiari” e 3.000 “bambini”), oltre a 4.000 “caucasici” (2.000 soldati ed altrettanti familiari) vennero trasferiti a bordo di treni merci e furono impiegati in funziona antipartigiana, come era già avvenuto in Jugoslavia. Caduta in ottobre la zona libera della Carnia i nuovi arrivati stabilirono la “Kosakenland in Norditalien” organizzandosi secondo la loro cultura e le loro tradizioni, dando anche ad alcuni paesi nomi russi (Alesso fu ribattezzata in Novočerkassk, Trasaghis in Novorossijsk, Cavazzo in Krasnodar).

  1. Cenni sulla resistenza in Carnia. Fermo Solari, Mario Lizzero e Giacinto Calligaris.

Nella Carnia occupata da tedeschi e cosacchi operavano varie formazioni partigiane bianche e rosse (garibaldine) oltre a quelle azioniste. L’ esponente più importante dell’azionismo friulano fu Fermo Solari, un imprenditore originario di Prato Carnico molto coraggioso che già prima dell’armistizio aveva lasciato i propri affari per dedicarsi a tempo pieno all’attività cospirativa. Solari, che in quel momento aveva già 43 anni, partì in bicicletta l’11 settembre 1943 da Udine per Canebola, un paese di montagna al di là della Forcella di Sant’Antonio, dove erano già raccolti più di cento partigiani della prima formazione Garibaldi Friuli comandata da Giacinto Calligaris. Commissario politico era Mario Lizzero, futuro senatore comunista.

Come ricorda il prof. Tiziano Sguazzero, studioso del socialismo e dell’azionismo friulani, Solari raggiunse Carlo Comessatti (Spartaco) del P.d’A. ( Partito d’Azione) che aveva assunto il comando del battaglione «Giustizia e Libertà», costituitosi a Subit, a ridosso delle Prealpi Giulie, verso la metà di settembre del 1943. Il battaglione era formato da una trentina di partigiani, per la maggior parte ex ufficiali di complemento. Solari divenne commissario di questa formazione, che poi si trasferì a Forame di Attimis per attuare azioni di sabotaggio alla ferrovia Pontebbana. I colpi inferti al nemico furono nel 1943 numerosi e fortunati, tra questi va ricordato un attacco a una galleria della ferrovia Pontebbana tra il 29 novembre e il 1° dicembre 1943.

Successivamente i partigiani azionisti, scioltasi la formazione GL, dettero vita insieme ad altre componenti della Resistenza non garibaldina (ai militari, al clero cattolico, al cattolicesimo laico) alla «Osoppo», patrocinata dalla Dc e dal PdA e con l’adesione del Psi (deliberazione del CLN Provinciale di Udine, 25 novembre 1943). Pur essendo una tra le formazioni autonome della Resistenza, essa vide progressivamente crescere l’influenza esercitata da esponenti della Dc.
Gli azionisti sostennero l’opportunità di giungere a un comando unico Garibaldi-Osoppo per dare al movimento partigiano una unità nazionale ma non nazionalistica, democratica e antitedesca ma non antislava e anticomunista.

Nel dopoguerra, dopo lo scioglimento del Partito d’ Azione, Fermo Solari assieme a Riccardo Lombardi e ad altri esponenti della resistenza sarebbe confluito nelle file socialiste. Visto il forte sostegno di cui godeva Solari nel 1958 sarebbe stato eletto trionfalmente nelle liste socialiste sia alla camera che al senato, optando per quest’ ultimo.

  1. Repressione antipartigiana. Kùbler, le rappresaglie e Risiera di san Sabba
    Il problema principale dell’ OZAK restava il controllo del territorio e la pressione militare partigiana con le numerose azioni condotte contro i militari tedeschi. In questa difficile situazione Rainer dovette dare spazio al generale Ludwig Kùbler, nominato responsabile militare dell’AK dallo stesso Hitler. Kùbler, tedesco e non austriaco, era uomo di pochi scrupoli che aveva già avuto l’incarico della repressione antipartigiana in Bielorussia, portata avanti con metodi estremamente decisi e sanguinari. L’ intenzione era di fare lo stesso nella zona di confine.

A titolo di esempio il 2 aprile 1944 una bomba ad orologeria in un cinema di Opicina aveva causato la morte di 7 militari germanici. Il giorno successivo fu compiuta una brutale rappresaglia e al poligono di tiro di Opicina i tedeschi fucilarono 71 ostaggi estratti a sorte tra i detenuti del carcere di Trieste.

Il 6 aprile 1944 i corpi dei martiri vennero bruciati nel nuovo forno crematorio della Risiera di San Sabba, che venne così collaudato e fu poi utilizzato sino alla fine del conflitto per l’ incenerimento di oltre 3500 vittime (secondo altri ben di più, arrivando a contarne 5000).

Pochi giorni dopo, il 23 aprile 1944, i tedeschi impiccarono nell’ atrio del palazzo Rittmeyer (che ospitava il Soldatenheim di via Ghega ) ben 51 ostaggi, ancora scelti a caso tra i detenuti del carcere triestino Coroneo. Si trattò di una rappresaglia per un attentato che nello stesso edificio aveva causato la morte di soli 5 militari, vendicati con legge draconiana.

Ma ancora non bastava. Il 18 maggio, sempre come rappresaglia per un attacco a un campo di lavoro dell’Organizzazione Todt, furono impiccati altri 11 ostaggi. A titolo di ulteriore intimidazione, nei mesi successivi, i tedeschi incendiarono il paese di Caresana (2 ottobre 1943) e, nell’agosto 1944, Ceroglie, Malchina, Medeazza e Visogliano.

  1. La ritirata tedesca e la fine dell’ AK

Alla vigilia della ritirata, nella notte tra il 29 e 30 aprile 1945, per evitare di lasciare prove imbarazzanti un gruppo di soldati tedeschi fece saltare in aria il forno crematorio che sorgeva nel cortile della Risiera, lasciando però sul muro un segno chiarissimo ed ancor oggi ben visibile.

Con la ritirata dell’esercito tedesco finì anche la storia dell’AK.

Globocnik seguì le forze germaniche in fuga e si nascose prima in Carinzia e poi sul Weissensse, un lago austriaco, dove il 31 maggio 1945, assieme ad altri militari, si uccise con una capsula di cianuro per sfuggire alla cattura. Anche Friedrich Rainer cercherà rifugio nella zona del Weissensee, ma dopo breve latitanza venne arrestato da truppe britanniche e trasferito a Norimberga dove al processo contro i gerarchi nazisti fu costretto a testimoniare contro 24 imputati, tra cui Arthur Seyss – Inquart. Estradato in Yugoslavia il 13 maggio 1947, venne deferito ad una corte militare che lo processò e condannò a morte per crimini contro l’umanità. L’ esecuzione ebbe luogo il 19 luglio 1947. Lo stesso accadde a Ludwig Kubler, processato con Rainer ed impiccato un mese dopo, il 18 agosto.

  1. Il processo ai boia della Risiera.

La risiera di san Sabba diventò subito un tema di cui non parlare.

Dopo un silenzio di decenni l’ ex campo di sterminio venne proclamato monumento nazionale solo nel 1965 grazie ad un decreto del presidente Giuseppe Saragat.

Dieci anni dopo, nel 1975, un programma televisivo riportò l’argomento alla ribalta dandogli notorietà nazionale. Per quanto possa sembrare incredibile il processo ai boia della Risiera fu celebrato soltanto nel 1976. Le ragioni sono diverse, ma quella principale è che a Trieste l’ argomento fu circondato da una atmosfera di forte imbarazzo e di generale omertà per tutti gli anni del dopoguerra e anche molto dopo. Alla fine i condannati furono soltanto due.

Hans Dietrich Allers, il primo, era un avvocato e militare delle SS arrivato a Trieste come Comandante dell’Einsatzkommando Reinhard in sostituzione di Christian Wirth, ucciso dai partigiani. Allers era ben noto come organizzatore del programma T4 per lo sterminio dei disabili in Germania e per aver partecipato in Polonia alla repressione antipartigiana, a cui si dedicò attivamente anche a Trieste.

Il secondo era il sottufficiale Joseph Oberhauser, famoso per l’attività svolta nel Lager di Belzec (Polonia) quale membro dell’Einsatzkommando Reinhard. Era addetto all’ eliminazione di ebrei, ma in precedenza anche lui si era impegnato nel programma per l’eutanasia dei disabili (Aktion T4). A Trieste Oberhauser divenne comandante della Risiera di San Sabba in sostituzione di Gottlieb Hering.

Questi due aguzzini, accusati di omicidio plurimo, furono processati tra il febbraio e l’estate del 1976 a Trieste. Allers era appena morto, mentre Oberhauser fu condannato ma senza conseguenze pratiche sulla base degli accordi italo-tedeschi che permettevano l’estradizione solamente per crimini commessi dopo il 1948.

In sostanza uno degli imputati era deceduto e l’altro, latitante, si guardò bene dal passare il confine. E fu la fine della storia, in un’atmosfera di generale impunità.

Gianluca Ruotolo – Giornalista

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