Verso le europee / Valbruzzi: superare prima la debolezza politica dell’UE, poi riformare l’assetto istituzionale

L’intervista al politologo e docente di Scienza politica all'Università di Napoli Federico II Marco Valbruzzi, sull’odierno assetto istituzionale europeo, i suoi problemi attuali e le possibili riforme da realizzare. Sull’atteggiamento della Meloni: ha mostrato finora grande duttilità, ma dopo giugno i nodi verranno al pettine e dovrà fare delle scelte

Professor Valbruzzi, ci avviciniamo alle elezioni Europee e si riinizia a discutere della necessità di riformare l’assetto istituzionale europeo. Quanto è distante l’Europa odierna dall’idea che elaborarono e sognarono i “nostri padri costituenti”, in particolar modo quella federalista di De Gasperi e Spinelli, che entrambi svilupparono con convinzione, nella consapevolezza e con la volontà di distinguerla dalla strada funzionalista e confederale?

 

 

 

L’Unione Europea è un progetto politico, che si è costruito nel tempo e richiede continui interventi, mutamenti e adattamenti. È evidente, però, che oggi la spinta federalista di Spinelli si è spenta o si è fortemente indebolita. E neppure le molteplici crisi che abbiamo incrociato in questi ultimi decenni sono servite a ridare slancio al pensiero federalista europeo. Purtroppo, l’attuale governance dell’UE è ancora quasi completamente in mano ai capi di governo, che preferiscono adottare una logica di cooperazione intergovernativa o funzionalista, senza accorgersi che il gioco sta diventando a somma negativa per tutti gli Stati membri.

 

 

 

Però, gli ideali federalisti non torneranno a imporsi nel dibattito pubblico europeo, ammesso che ne esista uno, fin quando non troveranno leadership politiche all’altezza della sfida. È vero che quei leader con quegli ideali erano stati forgiati, letteralmente, nel fuoco delle due guerre mondiali e, quindi, sono difficilmente replicabili a tavolino. Ma le sfide che stiamo attraversando e quelle che si prospettano all’orizzonte richiedono leadership politiche altrettanto capaci, che oggi però sono a dir poco latitanti.

Ma che cosa non funziona in questa Europa oggi? È, secondo il suo punto di vista, un discorso meramente istituzionale e quindi legato alle riforme da realizzare, o è invece necessario un lavoro più profondo anche a livello culturale, data la diffidenza che “l’entità europea” genera ancor oggi tra una buona fetta dei cittadini dei 27 stati membri?

Intendiamoci: le istituzioni politiche, cioè il loro “disegno” e il loro funzionamento, contano. E ripensare l’assetto istituzionale dell’UE sarebbe un primo passo per uscire dal torpore che l’ha immobilizzata per troppi anni. Però, prima delle istituzioni politiche viene la politica o, meglio ancora, la volontà politica. Qui c’è il vero deficit dell’UE: un complesso edificio istituzionale che ha fatto e fa di tutto per evitare che il “conflitto politico” penetri al suo interno, preferendo tenerlo dentro i singoli confini nazionali oppure addomesticato dalle tecnoburocrazie. Ma così, senza vera conflittualità politica, ovviamente regolata e governata, non potrà mai nascere quella che lei chiama una “entità europea” in grado di scaldare gli animi e le menti dei suoi cittadini. Risolta – ma chissà come e quando – questa questione politica, poi verrà il tempo di discutere dei nuovi assetti istituzionali sovranazionali.

Secondo Lei, dunque, nonostante l’ondata sovranista che da oltre un decennio permane e non cessa di esistere, è possibile convincere i singoli stati ad accettare, su determinate questioni, limitazioni in tema di sovranità nazionale a favore di istituzioni appunto sovranazionali?

C’è una forza degli eventi che spinge nella direzione sovranazionale. Non solo perché le questioni più urgenti che devono essere affrontate (clima, migrazioni, trasformazioni/innovazioni tecnologiche, squilibri nelle relazioni internazionali, ecc.) si muovono su una scala internazionale. Ma, soprattutto, perché oggi gli attori politici più influenti a livello globale con i quali confrontarsi hanno un peso che va ben oltre quello dei nostri staterelli nazionali. Di fronte a questo scenario, noi europei abbiamo due scelte. Da un lato, difendere con le unghie e con i denti le nostre piccole sovranità nazionali, che però spesso si trovano – per usare la felice espressione del politologo irlandese Peter Mair – a “governare il vuoto” ovvero, come direi io, a “governare a vuoto”, cioè senza reale capacità di incidere sugli eventi. Dall’altro lato, mettere in condivisione le nostre sovranità per farne una maggiore, più efficace, più forte, in grado di rispondere alle grandi questioni del nostro tempo. Soltanto capendo che la condivisione della sovranità sovranazionale comporta un rafforzamento delle sovranità nazionali e non un loro svuotamento, potremmo fare un salto in avanti nella costruzione del progetto europeo. Detto con una battuta: oggi, il vero patriottismo sta nell’europeismo. Mentre il sovranismo ne rappresenta la negazione.

Lei è riuscito, in questi anni, a darsi una risposta sulle cause di questo eterno euroscetticismo? E quali sono, a Suo avviso, i fattori principali che lo alimentano anno dopo anno, nonostante ci sia stata la dimostrazione fornita durante la pandemia che un’Europa unita è in grado di uscire dalle crisi e dalle situazioni difficili?

Come dicevo, è l’assenza o, per essere meno drastici, la debolezza politica dell’UE che alimenta questo montante euroscetticismo. Siamo dentro un pericoloso circolo vizioso: gli Stati nazionali non hanno la forza di risolvere problemi che trascendono i loro confini, mentre l’UE non ha la legittimità o solidità politica per affrontare quei problemi. I primi scaricano la responsabilità sulla seconda, mentre la seconda resta immobile sperando che siano i primi a prendere qualche decisione. Ma in questo modo si risolve poco o nulla, come dimostra plasticamente la gestione della questione migratoria. È inevitabile che di fronte a questo perdurate immobilismo, gli elettori rispondano con (euro)scetticismo.

Torniamo alle riforme. Secondo Lei, quali sarebbero necessarie ed indispensabili oggi per dar forma ad un’Europa in grado di poter interloquire con le altre grandi potenze, al fine di poter finalmente dare una risposta alla celebre domanda posta da Kissinger (con quale figura politica si deve interloquire in Europa?), ma soprattutto per poter consentire all’Europa di fare un salto di qualità, oltre l’attuale configurazione economica e monetaria?

«Who do I call if I want to speak to Europe?»: insomma, con chi devo parlare se voglio interloquire con l’Unione Europea? Anche se si tratta di una citazione apocrifa, rende bene l’idea dell’incertezza del quadro istituzionale europeo in merito alla sede effettiva della decisione politica. Ancora oggi, nonostante i piccoli passi compiuti in questi decenni, non esiste un riferimento certo e univoco per parlare con l’Europa. E, di conseguenza, la cacofonia di voci europee finisce per renderci deboli agli occhi dei nostri interlocutori internazionali. Servirebbe dunque un salto di qualità istituzionale che però, come già detto, richiede un precedente salto di volontà politica, ad oggi ancora mancante. In parte, questa assenza di volontà deriva anche da un processo di allargamento dell’UE che ha danneggiato, cioè frenato e appesantito, il processo di approfondimento dell’integrazione europea. È arrivato il momento di ridisegnare l’architettura istituzionale dell’UE, mantenendo ciò che di positivo – ed è molto, e lo vediamo anche in seguito all’invasione russa dell’Ucraina – ha prodotto l’allargamento, ma allo stesso tempo mettendo nelle condizioni i paesi che reclamano «più Europa» o an ever closer union di poterla ottenere. Un’UE ripensata con una struttura a cerchi concentrici, a più velocità di integrazione sovranazionale, sarebbe un passo nella giusta direzione per farci trovare pronti quando Kissinger, dall’aldilà, vorrà parlare con l’Europa…

A proposito di ridisegnare l’architettura istituzionale dell’UE. Si parla perennemente di Stati Uniti d’Europa. Crede che sia davvero l’unica forma possibile?

No, non credo sia l’unica forma o riforma possibile. Certo, è quella che io auspico, perlomeno perché credo sia quella maggiormente in grado di confrontarsi con efficacia con i grandi problemi e i grandi attori del nostro tempo. Come possiamo competere su tutti i fronti caldi più rilevanti – dall’innovazione industriale-digitale ai mutamenti negli equilibri di potere internazionali – senza una forza politica capace di misurarsi, sullo stesso piano, con l’ascesa della Cina, dell’India, dei paesi arabi, per non parlare del colpo di coda imperialista che, per volontà di Putin, bussa tragicamente alle porte d’Europa?

Fra meno di sei mesi si andrà al voto. Secondo lei, quale sarà la “famiglia europea” che prevarrà? 

Dipende da che cosa intendiamo per “prevalere”. Se si tratta soltanto di prevalenza aritmetica, fotografata in un solo istante nel tempo, non ci sono dubbi che saranno i Popolari europei a continuare ad avere il boccino in mano, com’è avvenuto almeno da 25 anni a questa parte. Ovviamente, a tutto detrimento dei socialisti europei, che si trovano in un crescente stato di confusione e sottomissione. Però, se guardiamo a una prevalenza nel medio-lungo periodo, non possiamo non vedere la crescita – elezione dopo elezione – delle destre euroscettiche, sovraniste o neo-nazionaliste, peraltro divise al loro interno. Quindi, per rispondere alla sua domanda, paradossalmente la “famiglia europea” che a giugno crescerà di più sarà la “famiglia anti-europea”, cioè quell’insieme di sigle di partito che chiedono “meno Europa” o nessuna Europa. Dovremmo rammaricarcene o preoccuparci? Nient’affatto: la crescita della critica all’Unione Europea porterà, presto o tardi, a una reazione politica degli europeisti. Detto in altri termini: se l’UE si rafforzerà politicamente nei prossimi anni, lo farà grazie alle forze anti-europeiste e allo loro istanze critiche. Ex malo bonum.

Nel 2019 nel nostro Paese trionfò il sovranismo/euroscetticismo salviniano. Quest’anno andrà sicuramente in maniera diversa data la probabile vittoria di Giorgia Meloni, che se da un lato non ha mai nascosto l’idea di un’Europa delle Nazioni [anche se poi sarebbe curioso capire cosa intende davvero, NdA], dall’altro ha sempre tuonato contro “l’Europa delle banche”. Secondo Lei, quale sarà, in ottica elezioni, l’atteggiamento del presidente del Consiglio sui temi europei? Assisteremo ad una sua svolta europeista, vista anche la grande quantità di soldi del Pnrr che il nostro Paese ha ricevuto e che il governo sta gestendo e gestirà nei prossimi anni?

 

 

 

Giorgia Meloni ha dimostrato finora grande duttilità, muovendosi con abilità nella politica internazionale ma con meno efficacia in quella sovranazionale dell’UE. Fino ad oggi, il suo euroscetticismo si è nascosto sotto la coperta dell’alleanza atlantica (Nato), ma dopo giugno i nodi verranno al pettine e la posizione “di lotta e di governo” nel contesto europeo non sarà più possibile. In particolare, Meloni dovrà domandarsi che tipo di contributo vorrà dare alla formazione della prossima Commissione Europea e quale candidato/a alla Presidenza della Commissione vorrà sostenere. Entrerà a far parte della cosiddetta “maggioranza Ursula”, magari a sostegno di un remake della von der Leyen? Oppure, anche se giustificato con un malinteso patriottismo, si farà promotrice dell’ascesa al vertice Commissione del tecnico europeista per antonomasia, Mario Draghi? O, nell’alternativa più problematica, deciderà di non decidere, chiamandosi fuori dalla definizione degli assetti di potere europei? Questa è la prima, vera prova di maturità politica di Giorgia Meloni e dalla scelta tra le tre alternative dipenderà il suo futuro politico e, forse, anche la tenuta della sua maggioranza di governo.

 

 

 

Francesco SpartàFunzionario, Giornalista pubblicista e Teaching Assistant presso Luiss Guido Carli

 

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