Verso le europee, presidente GFE: superare l’approccio inter governativo. Modificare i trattati e arrivare a una struttura di tipo federale

Il federalismo europeo è un sogno che non è mai tramontato. La presidente dei Giovani Federalisti Europei Sara Bertolli ha parlato dell’attualità di questo progetto e di quali difficoltà dovrà affrontare l’Ue per dare vita agli Stati Uniti d’Europa.

Oggi il federalismo sembra davvero lontano come è possibile raggiungerlo?

L’attuale Unione Europea sembra, a prima vista, molto lontana da un assetto federale, ma se poi andiamo a guardare bene molte competenze sovrane sono già state delegate all’Unione, una tra tutte la moneta unica.

È anche vero però che un’unione monetaria senza un’unione fiscale è molto debole. Così come, se ci pensiamo, esiste una corte di giustizia a livello europeo (CGUE) che ha il potere di sanzionare gli Stati membri, e che quindi si pone al di sopra degli Stati. Oppure, ancora, esiste un Alto rappresentante per la Politica estera e di sicurezza, nonostante il voto su questa materia sia ancora ad unanimità all’interno del Consiglio e quindi tutte le decisioni in ambito PESC e PSDC sono sottoposte a decisioni puramente intergovernative.

Ancora, come ultimo esempio, pensiamo alle elezioni europee: esiste già una competizione tra i partiti per ottenere il potere a livello europeo. Questo per dire che, in potenza, esistono già elementi federali, tuttavia è necessario che si superi l’approccio intergovernativo, modificando i trattati, per arrivare a una struttura compiuta propria di uno Stato federale.

Quali sono gli esempi che possono ispirare un progetto simile a quello degli Stati Uniti d’Europa?

Penso che ogni federazione abbia un percorso diverso perché ha una storia differente.Gli Stati Uniti d’America non possono rappresentare un esempio per ovvie ragioni, ossia la guerra civile, la Germania nemmeno perché i Land non hanno mai avuto la struttura di Stati nazionali, come quelli europei, e nemmeno la Svizzera per la stessa ragione tedesca.

Quindi, sicuramente esistono delle buone pratiche a cui fare riferimento negli esempi di federazioni che abbiamo a livello mondiale, tuttavia credo che possa essere molto più utile guardare a quei modelli per evitare di replicare le storture a livello istituzionale e sociale che hanno creato.

Come si concilierebbe il federalismo con i parlamenti locali? La paura di molti è che scompaiano gli Stati

Il federalismo, come organizzazione del potere, si basa su un principio molto semplice quello della sussidiarietà, ossia quello che stabilisce che le decisioni debbano essere prese al giusto livello di governo.                                                                                                                                                        L’idea finale non è quella di creare un super Stato europeo che amministri 500 milioni di persone e 27 paesi, ma di creare una struttura che sia in grado di rispondere ai problemi dei cittadini e delle cittadine in modo adeguato: se è una questione risolvibile a livello locale, ci penserà il Comune, se a livello nazionale, sarà competenza del parlamento in questione, e se invece il problema è a livello continentale, sarà compito delle istituzioni europee, dotate di strumenti adeguati (budget federale), fornire la risposta necessaria.

Il pil di alcune macroaree in Europa è molto basso rispetto ad altre. Il gap economico è uno dei principali ostacoli…

La questione delle disparità economiche è da sempre al centro del dibattito europeo, tant’è che gli Stati membri contribuiscono al budget dell’UE in base alla propria ricchezza, “più sono ricchi e più pagano”, e ricevono fondi sulla base della necessità di sviluppo de paese. Per cui, un paese come la Polonia è il primo “percettore netto” tra gli Stati membri, ossia riceve in termini di fondi molto di più (circa 9 milioni e mezzo) rispetto a quelli che usa per finanziare il budget dell’Ue. Viceversa, la Germania è il primo contributore netto europeo perché il gap tra contributo al budget europeo e fondi è intorno a 13 mila milioni.

La logica sottostante è quella di far sì che tutti gli Stati membri raggiungano un livello di sviluppo adeguato e simile.

Tema difesa: perché si esita ancora tanto su un esercito europeo? Sarà uno strumento che integrerà la Nato o permetterà all’Europa di guardare oltre l’Alleanza Atlantica dopo 80 anni?

In realtà la prima proposta di un esercito europeo risale agli anni ‘50 quando, sotto spinta francese e italiana, fu presentato nel 1952 ai parlamenti nazionali il trattato sulla Comunità europea di difesa (CED), all’interno del quale era stato inserito un articolo, l’art.38, fortemente voluto da Altiero Spinelli che aveva convinto De Gasperi della necessità dell’istituzione di una comunità politica che affiancasse la difesa e che fosse responsabile dell’operato dell’esercito.

La creazione di un potere politico responsabile era la condizione necessaria e imprescindibile per l’istituzione di un potere militare e anche di un potere in politica estera. Questo trattato fallì, a causa del voto contrario della Francia e da allora non c’è più stata alcuna azione così decisa verso la creazione di un esercito europeo.

Tuttavia, da molti anni ci sono dei programmi di integrazione a livello sia di produzione industriale bellica che a livello di esercitazioni.

Il ritorno delle guerre in Europa ci pone davanti l’urgenza di una politica estera davvero comune che renda l’UE un attore credibile e un attore di pace. Altrettanto urgente è la necessità di un esercito comune europeo, che possa essere uno stabilizzatore.

La spada insieme allo scettro, nella rappresentazione del Leviatano, rappresenta il caposaldo del potere sovrano, per questo gli Stati membri sono restii nel condividere gli eserciti nazionali per creare un esercito europeo. Come sarà il futuro esercito penso sia una decisione politica di campo che non spetta a noi dire, bensì ai partiti.

Venti anni fa si parlava di Costituzione europea: è arrivato il momento di riprovarci? 

Assolutamente sì. Il Parlamento europeo a novembre ha approvato la proposta della Commissione Affari Costituzionali del Parlamento che, nel suo testo originale, rappresentava un progetto molto ambizioso e che aveva un’impronta fortemente federalista. Quel progetto è stato ridimensionato ma ha ancora elementi interessanti, come il superamento dell’unanimità in Consiglio. Per attuare queste riforme è necessario riformare i Trattati e aprire quindi il cantiere europeo.

La questione dell’apertura della Convenzione per la riforma dei Trattati è importante che sia messa all’ordine del giorno del Consiglio europeo di marzo, perché, al momento, la procedura all’art.48 del Trattato sull’Unione europea sembra la più percorribile. Con l’apertura di questa Convenzione si decide quale Europa vogliamo per il futuro: se viene aperto il processo di riforma dei Trattati, che porterà poi a un nuovo Trattato (anche perché è da quasi 20 anni che non abbiamo modificato i trattati esistenti), significa che c’è la volontà di procedere verso una maggiore integrazione, al contrario ci troveremmo davanti all’ennesimo ritardo istituzionale che rappresenterà un’ulteriore battuta d’arresto.

Oggi ci sono Paesi che nonostante l’adesione all’Ue violano delle norme fondamentali, riferimento chiaro all’Ungheria e al caso Salis. Qual è la vostra posizione a riguardo?   

Non è ammissibile che all’interno dell’Unione ci siano violazioni dei principi e dei valori democratici alla base dello Stato di diritto.

Dal 2006 aderiamo alla campagna “Democracy under Pressure” promossa dalla JEF Europe, l’associazione federalista giovanile a livello europeo di cui facciamo parte. Dal 18 al 25 marzo accendiamo la luce sulle violazioni dello Stato di diritto in Europa (e non solo) e sul rispetto dei diritti e delle libertà dei cittadini e delle cittadine europee. E lo facciamo attraverso sit-in in piazza, flash mob, conferenze, campagne social e anche illuminando di rosso i monumenti simbolo di alcune città.

Quest’anno abbiamo deciso di collegare la campagna alla riforma dell’art.7 TUE che è quello che stabilisce le modalità di azione dell’Unione laddove uno Stato membro violi i principi contenuti all’art.2 TUE, ossia i principi cardine dello Stato di diritto. Alla luce anche del recente caso di Ilaria Salis, la riforma di quell’articolo fortemente intergovernativo – perché per “punire” lo Stato che viola serve l’unanimità degli altri Paesi membri – è urgentissima e quella proposta di riforma è contenuta proprio nel testo approvato dal Parlamento europeo a partire dalla proposta AFCO. Quindi serve prima di tutto riformare i Trattati per superare i limiti dell’attuale assetto intergovernativo anche in ambito di tutela dello Stato di diritto.

Le prossime elezioni europee potrebbero vedere un trionfo dei sovranisti: come è possibile che all’interno dell’Ue esistano forze che vogliono una revisione così radicale

Le forze sovraniste acquisiscono sempre più consenso perché di fronte a problemi globali (cambiamenti climatici, disuguaglianze, progresso tecnologico, migrazioni, ecc), ai quali nessuno al momento riesce a dare delle risposte efficaci, i sovranisti forniscono un’immagine di un passato che non c’è mai stato – una retrotopia avrebbe detto Bauman – ma che è comunque più confortante di un futuro completamente oscuro.

 

 

 

Si pensi, ad esempio, alla lotta ai cambiamenti climatici. Perché i sovranisti li negano? Perché è più semplice oscurare il problema, girarsi dall’altra parte, piuttosto che ammettere i limiti dello Stato nazionale nell’affrontare la questione e quindi affermare che è necessario un potere sovranazionale che abbia i mezzi e le competenze per poter mettere in atto politiche efficaci nel contrasto a questo fenomeno che è ormai irreversibile.

La questione principale è che, finché non ci saranno istituzioni a livello continentale e a livello mondiale che possano dare risposte alle grandi crisi che affliggono il genere umano, i sovranismi e i populismi trionferanno ovunque – si guardi agli Stati Uniti con Trump, all’Argentina, all’India, all’Unione europea.

Ucraina in Europa: come andrà a finire questo processo?                                                                 

Innanzitutto è fondamentale che si giunga quanto prima alla fine del conflitto e ad una pace giusta per il popolo ucraino, anche perché poi l’Ucraina dovrà essere aiutata nel processo di ricostruzione, sia economico ma anche democratico, per poter poi entrare nell’UE.

Di sicuro l’ingresso dell’Ucraina, e dei paesi dei Balcani Occidentali, ci pone davanti la questione della modifica dei Trattati: si dovranno rinegoziare i posti in Parlamento europeo, il numero dei Commissari europei, e più di tutto sarà centrale la questione del superamento del voto ad unanimità. Pensare, infatti, di avere un’Unione a 30 o più Stati con i trattati esistenti pone un enorme problema di governance che porterebbe al tracollo di tutto l’impianto istituzionale.

Quindi, in parallelo o anche in anticipo rispetto all’allargamento serve superare l’intergovernativismo, che dà il potere di decidere sulle materie più importanti agli Stati nazionali in ultima istanza, e quindi superare il diritto di veto.

 

Francesco FatoneGiornalista

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