La storia dell’integrazione europea, dal Secondo dopo-guerra ad oggi, può essere suddivisa in tre grandi periodi.
Il primo, quello che potrebbe definirsi “del classicismo”, va dai suoi esordi fino alla firma dei Trattati di Roma che, nel 1957, inaugurano il Mercato Comune. É la fase in cui le contrapposizioni ideali – in particolare quella tra quanti avrebbero voluto un’Europa federale, quanti l’avrebbero preferita “confederata” e chi invece, legato ad altre soprannazionalità, avrebbe preferito non averla affatto – si presentano in forma, per così dire, “pura”.
Ad essa segue una fase nella quale lo scontro tra queste opzioni cede decisamente il passo al pragmatismo dei funzionari. Questi, capeggiati da Jean Monnet, ritengono che l’Europa possa costruirsi a prescindere dalla politica, riferendosi alle necessità imposte dai fatti concreti. La loro ricetta, in fondo, è semplice: dato un problema che non può trovare soluzione in ambito nazionale, i Paesi coinvolti nel processo d’integrazione s’impegnano a trasferire a un’entità sovranazionale il minimo di sovranità necessaria affinché esso possa trovare una soluzione.
Da qui si sarebbe poi ripartiti per risolvere un problema un po’ più complesso, sicché il trasferimento della sovranità dall’ambito nazionale a quello sovranazionale sarebbe derivato da un processo continuo, graduale e progressivo. In questa fase, la contrapposizione tra i sostenitori dell’Europa federale e quelli dell’Europa delle nazioni non viene meno ma si svolge un po’ più sotto traccia. Entrambi gli schieramenti riconoscono che l’Europa dei funzionari (da qui il termine “funzionalismo”) sia una realtà della quale non si possa più fare a meno; per questo, piuttosto che avversarla, provano a portarla dalla loro parte. In questo periodo, pur tra alti e bassi, il processo d’integrazione va comunque avanti: si allarga, si approfondisce, si perfeziona persino in ambito istituzionale. Finché la storia non propone una grande accelerazione.
La caduta del Muro e la necessità di integrare i Paesi liberati dal giogo sovietico, aprono la terza fase della storia dell’integrazione, quella nella quale attualmente ci troviamo. L’Europa si trova a confrontarsi con i processi di globalizzazione. In questo periodo il ritmo della storia impone spesso all’Europa di assumere decisioni senza la necessaria ponderazione e una conseguente sedimentazione dei giudizi. Anche per questo, oggi ci troviamo di fronte a squilibri e asimmetrie più evidenti rispetto a quelle del passato. Tra queste, la più importante risiede certamente nella distanza tra il grado d’integrazione raggiunto in ambito economico e quello, ancora insufficiente, dell’ambito politico. Tale squilibrio rimanda a un altro, che l’allargamento all’area dei Balcani potrebbe presto ancor più accentuare: quello tra il numero crescente dei Paesi che partecipano all’Unione e gli strumenti a disposizione per governarne la conseguente complessità.
Tutto ciò contribuisce ad alimentare una sensazione, che negli ultimi decenni si è impossessata di una parte delle opinioni pubbliche: che l’Europa di oggi abbia bisogno di sempre maggiori cessioni di sovranità da parte degli Stati nazionali, ma che tale sovranità, piuttosto che essere recepita a un livello più alto da un nucleo di potere politico condiviso, una volta fuoruscita dall’ambito nazionale finisca in gran parte per evaporare, creando spazi nei quali si inseriscono poteri irresponsabili, non legittimati da alcun processo democratico.
Viene così a stabilirsi un paradosso: proprio nella fase in cui la complessità impostaci dalla globalizzazione rende più evidente la necessità di processi sovranazionali per poter esercitare, non solo a parole, la sovranità anche in ambito nazionale (quanto accaduto col Covid-19 e poi con la guerra russo-ucraina dovrebbe aver chiuso ogni discorso al riguardo), le opinioni pubbliche europee vengono attratte da una falsa nozione, quella del “sovranismo”, come mai era accaduto in passato.
La sovranità: è questo il convitato di pietra dal quale debbono partire coloro i quali – pur non contenti di questa Europa -, sanno che ad essa non c’è alternativa. E ciò impone di mettere all’ordine del giorno il problema politico dell’integrazione, affrontando di petto – e non per vie traverse come si è fatto da ultimo con il Trattato di Lisbona – la riforma delle istituzioni necessarie a governare la complessità del tempo presente e a ripianare, almeno in parte, lo iato esistente con il processo d’integrazione in ambito economico.
Ci troviamo a dover affrontare un periodo difficile della storia del mondo. Il cosiddetto “populismo” non è affatto superato e non batte in ritirata. Nel 2024 le elezioni europee e, ancor più, le presidenziali americane rappresentano occasioni nelle quali esso potrebbe con prepotenza tirar fuori la testa. Per contrastarlo è necessario, tra l’altro, attribuire all’idea d’Europa non soltanto delle ragioni ma anche, e ancor prima, un cuore e un’anima. Quanti vorranno cimentarsi questo compito, però, dovranno innanzitutto darsi gli strumenti e i mezzi per poterlo assolvere
Gaetano Quagliariello – Presidente della Fondazione Magna Carta