Terra Santa luogo d’incontro tra le tre religioni

Convegno in Vaticano. Con i cardinali Filoni e Ravasi, un imam, una rabbina e il vescovo di Nazareth

Mentre palestinesi e israeliani si scambiano i saluti con il piombo ciascuno rivendicando il possesso della Terra Santa, in un convegno organizzato dal Centro Studi Federico II e dal Gran Magistero dell’Ordine equestre del Santo Sepolcro – ambientato nella splendida cornice di Palazzo della Rovere a Roma, e moderato in modo impeccabile da Elena Dini – illustri rappresentanti delle tre religioni del Libro si mettono seduti intorno a un tavolo per discutere di pace e fratellanza: “La Terra Santa luogo di incontro” è il titolo emblematico di una missione quasi impossibile, ma solo per chi quel Libro non lo conosce a fondo.

 

Cardinale Fernando Filoni

 

C’è che in quella splendida città di nome Gerusalemme tutte e tre le fedi monoteiste hanno una pietra simbolica su cui fondare il proprio credo: il Muro del pianto per gli ebrei, la cupola dorata della moschea d’Omar per i musulmani e la Basilica del Santo Sepolcro per i cristiani. Parrebbe abbastanza – come in effetti è accaduto e accade – per contendersi Sion al grido di ‘Dio lo vuole’ o ‘Allahu Akbar’.

Eppure – spiega il cardinale Gianfranco Ravasi con una memoria di ferro che può avere solo chi ancora scrive a penna i suoi pensieri e schiarisce i concetti camminando – la Bibbia cita Gerusalemme 656 volte e lancia un continuo appello a ritrovare l’unità nella molteplicità. Basti pensare – dice Ravasi con l’acume da raffinato biblista – al Salmo 87 che descrive le nazioni mentre danzano e cantano rivolti a Sion.

 

Cardinale Gianfranco Ravasi

 

Tutti i punti cardinali della terra, pur nella loro diversità, sentono di appartenere a un’unica matrice: c’è Rahab, cioè l’Egitto, la grande potenza occidentale, e c’è Babele, la grande potenza orientale babilonese; c’è Tiro, la potenza commerciale del nord, c’è la Filistea (o Palestina) che è l’area centrale, e l’Etiopia che rappresenta il profondo sud.

Ciascuno va verso l’altro senza rinunciare neanche per sbaglio alla propria identità: è il significato della parola incontro (costituito dalla preposizione in e dall’avverbio contro).

Rabbina Tamara Elad Appelbaum

Un monito forte per chi fa dello scontro l’unica relazione possibile tra fedi diverse contro il buon senso, la fede e persino l’etimologia. Gerusalemme – afferma in punto di scritture la rabbina Tamara Elad Appelbaum- è un nome al plurale che indica come le porte dell’Eden non possano essere aperte al singolare. La casa di Dio è uno spazio creato per essere condiviso da molti. Le parole del rabbino Nachman di Breslov nel XVIII secolo sono di inestimabile bellezza: «L’essenza della medicina consiste nel mettere insieme erbe diverse. Infatti tutte le cure si ottengono quando si prende un’erba e successivamente un’altra. E una volta che queste vengono mescolate insieme, si ottiene una cura. Perché mettere insieme ha la forza di curare».

La storia è ricca di esempi che sanno trasformare la predica in pratica, sfuggendo a qualsiasi tentazione diabolica: inseguire quello che separa, aderire a quello che divide.

Basti guardare a San Francesco che sceglie di partire per la terra Santa senza le armi. Il poverello di Assisi – il cardinal Fernando Filoni ne traccia un profilo sublime – si mette contro l’idea di crociata per seguire quella di evangelizzazione. In direzione ostinata e contraria alle gerarchie ecclesiastiche del tempo, non vuole conquistare ma toccare i luoghi santi di Cristo. Ai suoi frati raccomanda di essere soggetti a ogni creatura e non polemizzare mai con i saraceni. Da secoli i francescani custodiscono così i luoghi sacri: fedeli agli insegnamenti del fondatore, in pace e senza violenza.

E senza violenza ma con un capolavoro diplomatico – dice ancora il cardinale Filoni –  Federico II, colto imperatore svevo che in pieno medioevo sa già di rinascimento, ottiene la corona della città Santa senza alcuno spargimento di sangue ma con la forza del dialogo.

Imam Nader Akkad

A Gerusalemme come nel Mar Mediterraneo costruire ponti, anziché muri, paga. Dopo ottocento anni da quelli eventi – ricorda l’imam Nader Akkad, della Moschea di Roma – papa Francesco e il Grande Imam di al-Azhar Ahmad al-Tayyib siglano il 4 febbraio 2019 il documento sulla fratellanza umana noto anche come Dichiarazione di Abu Dhabi, un accordo che in poche pagine mette fine allo spirito di crociata: l’uomo deve essere in comunione con Dio, con l’ambiente e con qualsiasi altro uomo. Sono i semi che germoglieranno in ‘Fratelli tutti’, l’enciclica del dialogo e della fratellanza universale. Pare davvero, come dice Akkad, che possa trionfare (non solo nell’Europa fortezza) la diplomazia della misericordia sotto la spinta di idee e di esistenze che diventano testimonianza nel grande flusso della storia.

È quello che è accaduto a monsignor Rafic Nahra, vescovo di Nazareth e vice Patriarca latino. C’è che questo uomo di Dio, nato in Egitto ma cresciuto in Libano, ha la sfortuna di conoscere il volto truce della Religione per gli eccessi dei veri fan club dell’Altissimo. Siamo a Beirut nel 1975, al tempo della guerra civile: ebrei, musulmani e cristiani si massacrano dimenticandosi la comune discendenza da Abramo. L’appartenenza religiosa separa anche gli amici, e non solo fisicamente. Nahra se ne va a Parigi, senza più nulla da spartire con palestinesi e ebrei. Poi nel 1987 entra in seminario, nel 1991 si laurea in Teologia e nel 1994 consegue il Master in Sacra Scrittura all’Istituto biblico di Roma.

 

Monsignor Rafic Nahra, vescovo di Nazareth

 

Nell’ambito dei suoi studi, gli viene data l’opportunità di andare a Gerusalemme. Nahra tentenna, non ha voglia. Il suo è un ostacolo serio, di natura politica. C’è chi capisce la sua esitazione e gli regala un libro – il dolore dell’assenza – che parla dei rapporti religiosi e di quanto gli ebrei abbiano sofferto nella storia a causa dei cristiani. Il sacerdote si mette in discussione e pensa che è ingiusto far soffrire qualcuno per il suo credo e trova il coraggio di partire.

Si mette in viaggio contro i suoi stessi pregiudizi scoprendo che esistevano al di là del mare gesuiti che amavano gli ebrei ma soffrivano per le ingiustizie subite dai palestinesi. Si accorge – siamo al tempo degli accordi di Oslo – che se metti trenta ebrei vicino ci sono trentuno opinioni, e che molti di loro avevano disgusto per la politica di Israele della segregazione e dei raid missilistici.

La storia è dannatamente più complessa di uno schema e persino di una bandiera ma è bella: perché insegna che qualche volta l’amore può prevalere sull’odio, non solo sui libri ma anche nella realtà. Nahra inizia a guardare con occhi diversi quello che è accaduto nel suo Libano: non più attraverso la lente guerresca del ‘noi contro loro’. I cristiani avevano ucciso musulmani ed ebrei innocenti esattamente come gli altri avevano ucciso cristiani innocenti.

Solo dal dolore subito e riconosciuto anche sul volto del prossimo, può nascere l’amore. Ecco allora che Gerusalemme – la città martire cui Dio diede dieci misure di dolore e una la lasciò al resto del mondo – diventa la chiave dell’intera umanità per fare ritorno a casa: ritornare gli uni agli altri, ritornare a Dio, ritornare all’Eden. Il nome ebraico significa infatti ricerca della pace e declina il suo tempo al futuro.

La strada non è semplice, e non basta neanche mettersi in cammino. Tocca sapere stare sul sentiero secondo la massima di Giovanni XXIII che Mario Nanni, direttore di questo giornale e presidente del Comitato scientifico del Centro Studi Federico II, ha voluto regalare alla platea come fosse una bussola contro ogni fondamentalismo politico o esistenziale. «Se incontri un viandante non chiedergli da dove viene, domandagli dove sta andando».

 

Andrea Persiligiornalista

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