Alla fine, le commissioni parlamentari hanno dato via libera alla nomina di Raffaele Fitto alla Commissione europea, dopo che per lui si erano spesi anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e gli ex premier Romano Prodi e Mario Monti. Per voi è una buona notizia?
Partiamo da un punto. Non è mai stato messo in discussione il fatto che l’Italia indicasse un commissario esponente di FdI, che a luglio non ha votato la presidente Ursula Von der Leyen e che ha una posizione alternativa alla “maggioranza Ursula” dell’ultima legislatura. E nemmeno che rispetto ad altre possibili indicazioni da parte di Giorgia Meloni, Fitto, da ex europarlamentare, conosca le istituzioni europee. Inoltre, ha fatto un’audizione discreta, migliore di altri commissari.
Infatti, avevate detto che vi riservavate di ascoltarlo in audizione. Eppure, la capogruppo dei socialisti Iratxe Garcia Perez ha messo per iscritto il vostro no, salvo fare retromarcia. Qual è il punto politico?
La contestazione dei Socialisti & Democratici, ma anche di Liberali e Verdi, si focalizza sull’inopportunità della vicepresidenza esecutiva, ovvero sulla scelta o meno di includere nella governance europea una forza – l’Ecr – che ha una posizione marcatamente contraria al Green Deal, alla riforma dei Trattati, alla difesa dello Stato di diritto. In sostanza, al programma votato a luglio.
Nel frattempo però è intervenuto un game-changer: la vittoria di Donald Trump negli Usa. Vede il rischio di una politica del “doppio forno” che sposti a destra l’azione della Commissione?
In questo scenario di voto a pacchetto mi rassicura che Nicola Procaccini, co-presidente dei Conservatori, e il capodelegazione di FdI Carlo Fidanza abbiano detto di aver votato Fitto e non il programma. Adesso però la palla passa in mano a Von der Leyen. Abbiamo fatto un accordo scritto in cui le tre forze senza cui non è possibile alcuna maggioranza né a sinistra né a destra – Ppe, S&D, Renew – si impegnano a mantenere questa impostazione. Non arretrare sulla transizione verde, non abbandonare la difesa dei diritti, sostenere la riforma dei Trattati per un’Ue più integrata. La presidente, che chiede il nostro voto in assemblea, chiarisca che questo programma rimane e che non ha cambiato linea. Serve chiarezza.
Lo stallo sulle nomine è stato causato dall’irrigidimento dei popolari spagnoli contro la vicepremier di Madrid Tersa Ribera. È stata una manovra per mandare in crisi il governo Sanchez?
Certo, il Ppe spagnolo ha cercato di usare le audizioni per colpire Sanchez e quindi per fini di politica nazionale. Ma il Ppe non poteva permettersi di bocciare la candidata socialista più importante perché avrebbe portato al no compatto di tutti i nostri 138 voti. Dunque, quella del Ppe spagnolo era una forzatura che avrebbe destabilizzato il quadro e che ha portato ad uno scontro con i loro stessi colleghi.
Garcia Perez non poteva evitare di mettere per iscritto un no che si sarebbe dovuta rimangiare? Vi ha messo in difficoltà come delegazione italiana?
I Verdi non si sono già sfilati dopo la nomina di Fitto?
No, non è così. I Verdi italiani hanno preso posizione per il no, ma i Verdi europei valuteranno dopo aver incontrato, martedì, la presidente. Sarà un momento decisivo: Von der Leyen dovrà assumersi impegni chiari e dovrà convincerli.
Mercoledì 27 ci sarà il voto finale all’Europarlamento sulla Commissione. Ci sono già le defezioni annunciate dei socialisti tedeschi e francesi e di molti liberali francesi. Von der Leyen rischia?
Secondo il mio pronostico, no. Ha già dimostrato di sapere fare le scelte giuste, penso al Green deal, al Next Generation Ue, alla fase Covid e alla guerra in Ucraina. La difficoltà sono iniziate quando, ad esempio sull’immigrazione, ha aperto alla destra. Sono fiducioso che abbia imparato e che chiarirà l’impianto politico della sua Commissione. Non abbiamo bisogno di discorsi nazionalistici: le idee di Marion Le Pen, del Pis e dell’ultradestra rumena, partiti che appartengono alla forza politica europea di Giorgia Meloni, sono sbagliate e dannose. Uso un paradosso. Diciamo “Europe First” per essere uniti, avere un ruolo e una voce, evitando di diventare marginali rispetto a Usa e Cina.
Trump è stato appena eletto e ha già fatto la sua squadra, comprese le sostituzioni dopo le bocciature. Von der Leyen è stata votata a luglio e ancora non siamo certi che governerà davvero. Non sono anzitutto le tempistiche a condannare l’Ue alla marginalità?
Sono molto d’accordo. È importante che nel programma sia contenuto il sostegno esplicito alla riforma dei trattati: è un passo cruciale. Il parlamento ha varato una proposta per un’Europa più integrata e con meno veti, adesso devono esprimersi i governi nazionali. Purtroppo mancano leader capaci di dare una spinta al processo delle riforme che è in stallo dal fallimento della Costituzione Ue.
Per l’Europa è l’ultima chiamata?
Sì, altrimenti il rischio è quello evocato da Mario Draghi: l’Ue regredirà a semplice mercato o, nel peggiore dei casi, si disgregherà.
Federica Fantozzi – Giornalista