“I fatti sono noti. Durante i festeggiamenti della Varia di Palmi dell’anno 1925, si verificò una gazzarra, orchestrata da esponenti fascisti, i quali intendevano che il trasporto del Carro Sacro avvenisse (per monopolizzare la manifestazione) al canto di “Giovinezza” invece che alla tradizionale marcetta del maestro Jonata. Per gli antifascisti presenti ciò fu considerato una aperta provocazione. Ne nacque una rissa furibonda in cui ci scappò il morto: un giovane fascista di nome Rocco Gerocarni”.
Tutto quello che leggerete in queste righe è frutto di una lettura attenta e meticolosa di un libro, “Il debito. Leonida Repaci nella storia“, edito da Laruffa, scritto da un vecchio sindacalista palmese, Natale Pace, in cui si ricostruisce magistralmente bene la vicenda tragica della Varia del 1925.
La Varia di Palmi è una delle processioni della pietà popolare più famose del Sud, è una “macchina sacra” alla stregua della Macchina di Santa Rosa che si celebra il 3 settembre di ogni anno a Viterbo, che viene portata in giro per il paese da oltre 200 portatori in segno di devozione verso la Madonna. Quell’anno, il 26 agosto 1925, a Palmi si registrò alla fine della processione una rissa in piazza, e il bilancio fu pesante. Un uomo viene ucciso per strada.
Alla conclusione della processione del Carro Sacro per il centro cittadino di Palmi di quell’anno, il grande scrittore Leonida Repaci venne arrestato e trattato come un delinquente comune. Solo la presenza di Albertina, la donna che diventerà poi il grande amore della sua vita, e le sue lettere, furono essenziali per lui a ritrovare nel tempo la serenità perduta.
Avete letto bene, Leonida Repaci venne arrestato e per sette lunghi mesi tenuto “in attesa di giudizio”.
Ma c’è di più, il più famoso scrittore italiano calabrese del secolo scorso, che passerà alla storia per aver dato vita poi, tanti anni dopo, al celebre Premio letterario Viareggio, venne accusato di omicidio e sbattuto in galera per sette lunghi mesi insieme ad altri 32 palmesi, tra questi anche i suoi tre fratelli Gaetano, Francesco e Giuseppe e due cognati, tutti come lui assolutamente innocenti.
Oggi grideremmo allo scandalo. Diremmo che è una storia di malagiustizia, una delle mille storie di malagiustizia di tutti i tempi, e a cui ormai ci siamo anche purtroppo abituati. Storia certamente di soprusi eccellenti, di libertà negate, e di diritti civili vergognosamente calpestati, ma non vogliamo rinfocolare qui vecchie polemiche, che i giovani d’oggi soprattutto non conoscono, e che non servirebbero più a nessuno.
Restiamo al racconto che ci fa Natale Pace.
“Repaci fu arrestato e processato come sobillatore e promotore della rissa e indiziato come assassino della vittima. Ma, dopo sette mesi di carcere preventivo, si ebbe la scarcerazione con una sentenza di assoluzione per mancanza di prove, mentre i fratelli e i cognati furono scarcerati perché ritenuti innocenti con formula piena. Era pure accaduto che due testimoni, tra cui un prete, si erano nel frattempo suicidati perché succubi di una forzatura a testimoniare contro Repaci. Ottenuta la libertà, Repaci si incontra con la madre, la quale, morente, lo esorta ad abbandonare le vie della politica ed allontanarsi da Palmi per sempre, al fine di salvarsi da rappresaglie. Repaci cede al desiderio materno e restituisce la tessera del partito comunista: un gesto, questo, che agli occhi dei dirigenti si configurava come un vero e proprio baratto della fede politica con la contropartita della libertà, perpetrato con alti personaggi del regime trionfante”.
Nonostante ciò, sua madre, che per lui assunse il nome di Donna Maria del Patire, dopo pochi mesi morì vinta dai tanti dolori patiti negli ultimi anni.
Il regime organizza l’arresto di Leonida Repaci in maniera plateale, perché tutti potessero vedere e semmai godere di quell’arresto. Soprattutto, perché la città e i palmesi capissero chi comandasse davvero.
“Il trasferimento alle carceri palmesi avviene in pompa magna, attraverso un percorso più lungo del normale. Il corteo si ferma prima all’Aranciara (oggi piazza Pentimalli – monumento a Cilea), poi per corso Garibaldi, corso Ten. Aldo Barbaro e piazza Amatrice (oggi Amendola), il sospetto assassino del Gerocarni viene finalmente fatto entrare in galera”.
Il carcere peggiore, per il grande scrittore. Questo lo aspetta a Palmi.
“Rèpaci carcerato. Davvero stupende e dense di pathos – scrive Natale Pace-le pagine che egli ci ha lasciato di questa sua triste esperienza. I compagni del carcere di Palmi, la camerata n.5, il romantico rapporto con uno ‘ndranghetista, Giovannino Campanella, temutissimo dalle guardie e dagli altri carcerati, che conosce di fama Leonida per avergli parlato di lui, in galera ovviamente, due degli attentatori del Diana, Aguggini e Boldrini, al cui processo, nel 1921, Repaci, su incarico di Gramsci, difese uno degli accusati Ustori, e lo fece assolvere”.
Sarà lo stesso Leonida Rèpaci, tanti anni dopo, nel suo libro “La Carne Inquieta” a descrivere la realtà trovata una volta chiusosi alle spalle il cancello del carcere.
“La cella, che era chiusa da una robusta cancellata e da una porta di rincalzo, prendeva aria e chiarore da una lunetta scavata tra parete e soffitto, alla quale la luce arrivava da una tramoggia del muro esterno della prigione, distante dalla prima parecchie braccia. L’aria della cella era viziatissima, sentiva la cimice e il pugino lontano un miglio…”.
Una volta invece riconosciuto innocente – spiega Francesco Fiumara nella prefazione che fa al saggio di Natale Pace – nasce da qui un nuovo Rèpaci.
“Un Rèpaci sposato interamente all’arte narrativa e all’attività culturale. Nelle pagine di Pace questa vicenda trova ampio svolgimento in una serrata analisi della situazione, in cui cuore e sentimento la vincono sulle ragioni della politica, che avrebbe preferito l’eroe tetragono ad ogni avversità, inflessibile e spietato al richiamo degli affetti, fossero anche quelli di una madre morente….Il dramma dell’uomo Repaci, che si tormenta come in un tunnel senza uscita: la sua scarcerazione, mentre altri suoi compagni restano in prigione e uno dei quali, Rocco Pugliese, condannato a ventiquattro anni perché da giovane segretario del partito comunista palmese era ritenuto dal regime il vero capo dei sovversivi, viene bastonato e ucciso in cella”.
Ma dove venne rinchiuso Leonida Repaci? In quale carcere? Il racconto che ne fa Natale Pace è dettagliatissimo e segue le vicende dello scrittore palmese ora dopo ora, giorno dopo giorno, mese dopo mese.
“Leonida vive l’esperienza del carcere di Palmi per sette lunghissimi mesi, tra il settembre 1925 e il marzo 1926. Le imputazioni a suo carico sono tali da abbattere un colosso: omicidio premeditato, quattro mancati omicidi, complotto contro lo Stato, istigazione alla guerra civile, costituzione di bande armate, associazione a delinquere con qualifica di capo. Roba da ergastolo”.
Sette mesi dopo arriva finalmente il processo.
“La difesa di Rèpaci in istruttoria viene affidata: all’avv. Politi, palmese, a cui viene assegnato l’incarico di curare i falsi testimoni per ottenerne la ritrattazione e la ricerca dei testi a favore; al sen. Fulci che preparerà la prefazione alla bellissima autodifesa, che Leonida stesso ha voluto incaricarsi di presentare; a Giuseppe Casalinuovo, delicato poeta e avvocato di Catanzaro e all’avv. Giampà, anch’egli catanzarese che seguiranno l’istruttoria alla Sezione di Accusa di Catanzaro. Segue invece dall’esterno il processo, rendendosi oltremodo utile con una serie di iniziative politiche, artistiche e culturali, l’avv. Gigi Caldara, già vice di Leonida Rèpaci, per la pagina di critica drammatica dell’Unità. A lui si deve, per esempio, la collettiva dichiarazione di solidarietà e stima degli uomini di cultura milanese.
È evidente che “Il debito” di cui parla Natale Pace è molto più ampio di quanto in realtà non si immagini.
“Il mio rapporto con Rèpaci non ha tempo. Lui ormai è morto da tanto, io prima o poi. Posso però affermare che buona parte della mia esistenza, buona parte del mio essere quel che sono, come sono, molte delle infinite, indescrivibili emozioni che mi suscita ancora leggere una poesia o guardare un quadro, ogni più remota parte di me è segnata dall’essere io stato, per un certo tratto della mia strada, amico di Leonida e Albertina. Io sono materia impastata dalle mani dell’ultimo dei Rupe, ma lui, probabilmente, nemmeno questo sa, come non saprà mai lo spirito che mi spinge a scrivere quanto sto scrivendo di lui, per lui, nella speranza di saldare una parte, la mia parte di debito che Palmi e i palmesi hanno nei suoi confronti”.
Non finirò mai di dire grazie a Natale Pace per avermi permesso di avere il suo libro in tempi velocissimi, così come non finirò mai di pensare che il Leonida Rèpaci che c’è in questo libro è molto più vero e molto più intimo di quanto non si possa leggere da qualunque altra parte del mondo.
“Vorrei la mia tomba qui alla Pietrosa, in un anfratto tra gli ulivi… Là Repaci da vivo/si è già scelto la tomba/cui un gigantesco ulivo/offrirà la sua ombra/non morto ma dormiente/in roccia di granito/rupe dentro la rupe/vedrà passare i secoli/senza farsi svegliare…Quando verrete a visitarmi, dopo, vi prego portatemi solo un garofano rosso!”.
Palmi e Leonida, Leonida e la Varia, Leonida e Palmi, Leonida e la Calabria, un rapporto iniziale di amore infinito e di immensa gratitudine, ma che dopo le vicende della Varia del 1925 diventano motivo di frattura e di lacerazioni violente. Dopo quel 30 agosto del ’25 Palmi non sarà mai più Palmi per lui. Sarà “Palme”, sarà “Gralimi” o “Sarmura” . E i palmesi saranno i terrazzani.
Natale Pace ripropone nel suo saggio la confessione disarmante e carismatica del grande Rèpaci.
“Il mio risentimento contro il paese natale mi spinse a non nominarlo più nei miei libri. Il mio primo romanzo, L’ultimo Cireneo, nella derivazione fisica ideologica e sociale dei protagonisti, e nella parte finale, era ambientato a Palmi (Palma). Nel mio secondo romanzo, La Carne inquieta, Palmi diventò Gràlimi (lacrime). Nel mio terzo romanzo I Fratelli Rupe, Palmi diventò Sarmura, che significa acqua salata, dal latino sal e mùria, e questo nome mi augurerei che restasse“.
E quando ormai da vecchio il grande Repaci torna a Palmi per chiudere il capitolo ultimo della sua vita di successi internazionali dichiara apertamente di aver ritrovato finalmente qui nella sua casa le emozioni di un tempo.
“Quando dico che non c’è sulla terra luogo più bello della Pietrosa, bisogna credermi. Io sono uno dei pochi che hanno avuto la fortuna di girare il mondo. Sono stato in California, alle Hawaii, al Giappone, in Cina, in Malesia, in India; ho visto coi miei occhi i paradisi di Monterey, di Honolulu, di Hong-Kong, di Singapore, di Ceylon: ebbene la Pietrosa li vince tutti. Li vince perché realizza quel tipo di bellezza che dice Baudelaire: una bellezza di cui la gravità è la “illustre compagna”. Illustre poiché c’è dentro non solo il senso della storia, ma quello di un’alta fatica umana. Qualche anno fa questo mi sfuggiva. Ricordo che ritornando dall’Oriente, la mia Calabria vista dalle murate del President Garfield mi parve meschina. Ora mi batto il petto e chiedo perdono agli spiriti magni della mia terra…”.
-Natale, sbaglio o lei è profondamente innamorato di Leonida Repaci?
“La invito a leggere quello che Repaci scrive una volta ritornato a Palmi, e dentro troverà la magia della sua vita e delle sue eterne malinconie. Leonida ad un certo punto della sua vita scrive queste cose: “É ritornato mio questo sconfinato spazio turchino in cui fisso gli occhi ridivenuti bambini, dopo tanto naufragare in essi di cieli notturni; è mio questo acuto profumo di scogliera che vince il chiuso ardore della vita e i fiati amari dei garofani selvatici sparsi tra i massi; è mia questa flora sottomarina che fa sembrar le rocce donne con i capelli sparsi sulle nude spalle; son mie queste farfalle bianche che volano sul pelo dell’acqua lasciando una piccola scia candida tra i barbagli dell’onda nel sole; son miei questi schiocchi argentini, simili a risate di sirene invisibili, tra i grondali; son miei questi ansiti cupi che crea il risucchio tra le voragini; son mie le lucertoline che prendono il sole sulla gobba degli scogli; è mia, infine, la libertà di muovermi come un dio pagano in uno scenario portentoso sotto l’occhio di una natura benigna, alla quale le infinite fecondazioni non han tolto la castità dell’offerta”.
Come si può rimanere insensibili di fronte a tanta religione per la propria terra? Qui parliamo di Palmi, parliamo della Pietrosa, parliamo della città della Varia.
“E’ un libro la Pietrosa/ che i giovani dovranno leggere/dalla prima all’ultima pagina/per capire come e perché/Leonida e Albertina Repaci/non si son dati tregua/negli anni/per dare alla Pietrosa/in una dimensione di cultura/una lezione di vita e di speranza…”.
Bellissima la ricostruzione che Natale Pace fa del “giorno nero” della Varia del 1925.
“L’eco dello sparo scuote i fianchi del S.Elia, scende i calanchi che dal Tracciolino si calano giù fino a inabissarsi nelle viscere marine di Cavaianculla. Il giorno nero si presenta alla gente di Palmi con subdole sembianze di luminosità. Dopo giorni e giorni di pioggia che hanno preoccupato i mastri carpentieri e i responsabili della festa, la domenica del 30 si presenta con il cielo terso come solo certe domeniche agostane in Calabria sanno dare. Ingannevole e infida la giornata apre ai terrazzani di Palmi-Sarmura-Palma-Gralimi e alle migliaia di fedeli che hanno programmato di “andare alla festa” false immagini di serenità. Non un filo di vento smuove le palme e gli ulivi. Il mare tenuto a bada dal terrano sonnecchia, liscio come olio, rilasciando la visione di un immenso specchio violaceo. La montagna, a prim’alba, stiracchia le sue forme, sciacqua il viso, lava i denti e si scuote di dosso tutte le creature del bosco per un risveglio che, pur ripetendosi ogni mattina, mette piccoli brividi addosso di piacere. La famiglia Repaci apre gli occhi al colpo di cannone e sorride felice. Il giorno della Varia rappresenta l’occasione che tutti cercavano, la scusa, il motivo a cui nessuno potesse derogare, per riunirsi con i piedi sotto lo stesso tavolo”.
Ma perché il regime fascista tende a Repaci un agguato di questo tipo? Perché caricargli la colpa di un delitto mai commesso?
Repaci – spiega Natale Pace nel suo libro – descrive in maniera molto convincente, le motivazioni dei disordini di quella sera e ci offre un quadro politico complessivo e locale importante.
“I discorsi provocatori dell’imboscata fascista a Palmi debbono essere storicamente inseriti nella ripresa in tutta la penisola dell’estremismo farinacciano arrivato alla conquista della segreteria del Partito e nel quadro del superamento della crisi di Mussolini dopo il delitto Matteotti. Senza questa premessa, i fascisti di Palmi che, fino a quel momento se n’erano stati buoni buoni, contenti di imbrancare qualche elemento raccogliticcio nelle loro file, mai avrebbero osato sfidare il cosiddetto <sovversivismo> di Palmi che, forte di qualità e di numero, teneva tutte le sue posizioni in attesa ancora fiduciosa di quella svolta che, neppure il massacro di Matteotti, con l’indignazione suscitata nel popolo italiano, e la vana protesta aventiniana, era riuscito ad attenuare”.
Chi l’avrebbe mai immaginato? Palmi città sovversiva.
“Sempre per spiegare l’insorgenza provocatoria del fascismo di Palmi e le direzioni in cui si mosse per colpire alla testa i suoi avversari politici – scrive Leonida Repaci nella sua famosissima autodifesa- diremo che la cittadina, sorta ai piedi del Sant’Elia, era soprannominata la <roccaforte rossa della Calabria> perché l’apostolato e l’insegnamento di Mariano Repaci, Alfredo De Marco, Francesco Lo Sardo, aveva seminato per lunghi anni i principi del socialismo, creando tra le masse contadine, tra gli artigiani, tra i professionisti, tra gli studenti, tra gli impiegati, i nuovi quadri provinciali di un’Italia socialista e democratica che, purtroppo, non venne mai instaurata per l’incapacità dei dirigenti supremi del Partito a sfruttare in senso rivoluzionario la crisi del cosiddetto <periodo rosso> culminato nell’occupazione delle fabbriche.“.
Una pagina amara per la storia di Rèpaci, ma una pagina triste anche per la storia della Varia. Natale Pace non ha nessun dubbio.
“Dall’eccidio di Palmi, lo scrittore palmese uscirà segnato e per tutta la vita; egli porterà addosso quelle giornate terribili come una seconda pelle, un vestito tutto intessuto di rancore verso i suoi paesani, di odio acerrimo contro le falsità, di volontà di risalire la china e riportarsi sulla strada dell’arte e delle lettere che stava così bene percorrendo prima: in questo ne uscirà complessivamente esaltato e risaltato”.
-Anche il processo contro Rèpaci fu un evento nazionale?
“Il processo ha avuto grande risonanza negli ambienti letterari e politici (forse più in quelli letterari perché Leonida a Milano era notissimo negli ambienti giornalistici e teatrali. Tre anni dopo, nella Versilia bene, frequentata in estate dagli uomini di cultura più importanti, da Primo Conti a Pirandello, da Marta Abba a Camillo Pilotto, da Pea a Bontempelli, a Colantuoni a Salsa, a Dina Galli, a Fregoli a Ermete Zacconi a Lorenzo Viani, fonderà il premio Viareggio e nello stesso anno sposerà Albertina; subito tre anni dopo ancora gli sarà assegnato il Bagutta per il primo volume della Storia dei Rupe. Inoltre, la ferita del ’25 Leonida la utilizzerà come esperienza di vita e come spunto per molti dei suoi scritti e contribuirà in positivo ad arricchire la storia della letteratura italiana di alcune opere tra le più belle ed emozionanti del novecento, ponendolo tra i più grandi scrittori calabresi di ogni tempo, insieme ad Alvaro”.
La stessa autodifesa al processo, trentanove pagine dense di pathos, coinvolgenti emotivamente, con ampi richiami socio culturali- conclude Natale Pace- “pur rimanendo perfettamente dentro i canoni processuali e del diritto, rappresenta, a mio parere, una pagina di letteratura degna di essere annoverata tra le composizioni canoniche dell’opera di Leonida Repaci”.
Un inno alla libertà di pensiero, un manifesto sulla democrazia, la condanna contro ogni forma di autoritarismo e di violenza. Ma anche l’esaltazione della storia della città di Palmi e di un grande palmese come Leonida Rèpaci.
Pino Nano – Già caporedattore centrale della Rai, storico del costume e delle tradizioni della Calabria.