Ho seguito la conferenza stampa di fine anno del presidente del Consiglio Mario Draghi e ho avuto un “cattivo pensiero” e poi anche conferma (pleonastica, in quanto da tempo comunemente accertata) delle difficoltà e fors’anche della debolezza in cui si dibatte la stampa, intesa come categoria di giornalisti, sia impegnati nella carta stampata, sia nel web e Tv varie.
Insomma, la stampa non gode di una salute di ferro. E non lo si dice soltanto per la parte che riguarda l’accesso alla professione, la sua formazione e in definitiva il lavoro da svolgere nelle varie redazioni dove, accanto a posizioni virtuose, invidiabili eccellenze, non mancano rapporti dequalificati e persino sfruttamento. Oggi persino più di prima, in una situazione di stallo che si protrae da sin troppo tempo per non doversene preoccupare.
Non è comunque nostro intendimento soffermarci in questa sede su questi temi, che comportano analisi, lavoro e relazioni. E tuttavia il ‘’cattivo pensiero’’ non ci ha abbandonato durante l’ascolto della conferenza stampa di Mario Draghi. Osservando la timidezza nel formulare le domande, che in alcuni casi non potevano definirsi nemmeno tali, tanta era la condiscendenza, la remissività, il timore reverenziale di fare un qualche sgarbo. Non erano soltanto buone maniere forse dovute alla circostanza, ma c’era qualcosa di non detto, di volutamente trascurato.
Per non parlare, poi, dell’incredibile spettacolo degli applausi ripetuti, e corali, da parte dei giornalisti presenti all’indirizzo del potere, in quella occasione impersonato da un personaggio come Mario Draghi! Consapevoli della negativa impressione che i cittadini avrebbero potuto ricavare, i rappresentanti della categoria dei giornalisti hanno cercato di mettere una pezza, non sappiamo quanto efficace: non erano applausi al potere (sic!) ma semplici applausi di auguri natalizi. Ma gli auguri si fanno una volta, non si ripetono, con gli applausi (!) quasi a ogni risposta!
Insomma, una sorta di passerella, dove comunque spiccava il ruolo del presidente del Consiglio, sempre a suo agio, ma dove anche si confermava l’impressione del passo ridotto di certa stampa, senza il nerbo necessario, simil – notarile, da sembrare più o meno vicina al potere e alle sue opportunità. A questo punto, la questione dirimente sarebbe quella di sapere ( è mai possibile?) se rispetto al potere, di qualsiasi tipo, fosse politico o economico, questo spazio si sia allargato o ristretto.
La risposta, non scontata, ce l’ha data lo stesso presidente dell’Ordine nazionale dei giornalisti Carlo Bartoli (nell’intervista rilasciata al direttore di questa rivista, beemagazine) ed è stata netta e, per quanto ci riguarda, attesa, nel dire che “ certamente questo spazio si è ristretto, sia per la crisi di modello economico tipica del sistema editoriale tradizionale, sia per l’aggressiva consapevolezza dei centri di potere di riuscire a condizionare i tempi, i modi e le forme dell’informazione, anche attraverso l’uso chirurgico dei social media”. Affermazione tanto più importante in considerazione della carica ricoperta e per averlo detto senza infingimenti.
Ovviamente, con questo non si vuol dire che il giornalista deve partire sempre lancia in resta, ma anche che non deve compiacere, dare l’impressione di essere lì per caso e scegliere dal mazzo la prima idea che gli passa per la testa. Ed è il caso di certa stampa autoreferenziale che, sì, ha la sua postazione, ma che non è rivolta a vantaggio del cosiddetto bene comune. Perché, poi, di questo passo, si arriva anche a depotenziarsi, sia nel rapporto con i lettori che cominceranno col disamorarsi e sospettare, sia con quel “potere” (definizione un po’ all’ingrosso) che da parte di quella stampa dovrebbe essere quantomeno sollecitato.
Niente di drammatico, forse, rispetto a tante altre e difficili situazioni, ma non dovremmo accontentarci della relatività di questo raffronto, delle dichiarazioni di parte, certo interessate, che svalutano la questione e dicono persino che non c’è nulla da obiettare.
Non è così.
L’ultimo ‘’Rapporto indipendente’’ dice invece che la libertà di stampa (anche in Italia!) si è fortemente compressa e anzi i giornalisti (immaginate un po’!) paradossalmente oggi rischiano di essere visti come eversori, personaggi incolpati di procurato allarme e di mettere in pericolo le stesse istituzioni! (è quanto si profila con le nuove disposizioni in materia di processo penale, quando il giornalista potrebbe essere chiamato a rivelare la fonte delle sue notizie).
E, comunque, per restare al nostro Paese, passi indietro ne sono stati certamente fatti. A cominciare dalla carta stampata, che quantomeno a partire dagli anni ’90 ha subito una progressiva contrazione in termini di copie vendute ma, è chiaro, ci si riferisce soprattutto al suo peso specifico, alla capacità di incidere. In seguito le cose non sono certo migliorate. Ma giornalisti coraggiosi (non si dovrebbe nemmeno chiamarli così!) ci sono sempre stati, con inchieste che hanno lasciato il segno nella storia del Paese. In passato come oggi e pagando di persona.
Non bisogna mai dimenticare il tributo di sangue di tanti giornalisti nell’infausta stagione del terrorismo e non solo. Impressiona che ancor oggi alcuni di loro lavorino sotto scorta, minacciati dalla criminalità organizzata, per aver semplicemente raccontato i fatti; non immaginavano nemmeno che occorresse coraggio per fare il loro mestiere.
Ma è un problema che lo si scopre un po’ dappertutto ed è lungo l’elenco dei Paesi dove la libertà di stampa è messa in pericolo. L’Italia è uno di questi, piazzata oggi al 41mo posto (peggio di Corea del Sud, Slovacchia e Burkina Faso e lontana anni luce da Norvegia o Australia). Riflettiamo, però: l’Italia non è forse uno dei sette-otto Paesi più industrializzati del mondo?).
Ma non si tratta soltanto di questo.
L’altro pericolo è certamente quello di rendere il giornalismo, per così dire, inefficace e pleonastico, incapace di interpretare i bisogni del Paese. Situazione nella quale la democrazia si svuota e, non sembri un’esagerazione, resta in balìa di spinte reazionarie.
Lo vediamo in tanti Paesi del mondo, dove dittature e tante cosiddette “democrature” ( democrazie ma in realtà dittature) vedono nei giornalisti i loro nemici giurati. Per questo li mettono in galera e lì li fanno marcire. L’elenco è davvero lungo per contenerlo in questa pagina. Ci “limitiamo” all’Egitto (vedi casi Regeni e Zaki), alla Russia cui piace eliminare senza tante storie giornalisti e politici, alla Turchia dove Erdogan non sopporta nessuna voce critica e spalanca le sue orride prigioni ad avvocati, artisti, politici e ovviamente giornalisti, i suoi prediletti.
Così come è capitato a tanti artisti che combattono la pesante oppressione. Drammatica la vicenda del gruppo musicale Yorum, del quale tre artisti sono morti per lo sciopero della fame, il terzo Ibrahim Gokcek, dopo 323 giorni! (di recente il gruppo, riformatosi, è venuto in Italia, per alcune tappe concordate, per poi recarsi direttamente a Lecce e Martano, e ringraziare della solidarietà ricevuta).
Non sono, queste, divagazioni sul tema, avendo affastellato vari argomenti con al centro comunque l’attività del giornalista e del suo stare al mondo. E l’intervista a Draghi ci ha dato il modo per “ripassare” la lezione. Si tratta di un compito delicato, utile, anzi fondamentale per la crescita della società in cui opera. Ma il giornalista non può fare tutto da solo; deve essere anche l’opinione pubblica, con la sua attenzione, ad assicurargli il bacino di utenza lontano da tentazioni e derive nel segno della condiscendenza, della complicità o, peggio, del servilismo.
Quando si superano questi rischi, si vede bene che la stampa coglie nel segno, come pure ha fatto in grandi inchieste, legate al malaffare e all’eversione, raccontando la storia di questo Paese. Ecco perché ciascuno di noi potrebbe darle una mano e sostenerla. Se ne avvantaggerà il Paese e la stessa democrazia.
*Pubblicista, analista politico