Ida Magli, della cui nascita il 5 gennaio è ricorso il centenario, oltre che una figura di spicco dell’antropologia culturale italiana è stata una brillante polemista. Le sue scelte potevano piacere o no, ma dimostravano una non comune capacità di cogliere il fulcro di un problema. La sua evoluzione politica ricorda per certi aspetti quella di un’altra grande protofemminista italiana, Oriana Fallaci, con la comune denunzia del pericolo costituito soprattutto per le donne dall’islamizzazione della società occidentale. A questo aggiungeva negli ultimi anni della sua vita un vibrante euroscetticismo, espresso nel suo pamphlet pubblicato nel 1987 e intitolato Contro l’Europa.
Chi scrive ebbe l’occasione di incontrarla nel maggio del 1988 nell’ambito di un convegno patrocinato dall’assessorato alla Cultura della Regione Lombardia e ricorda ancora la stretta di mano esile ma ferma di quella combattiva settuagenaria che aveva iniziato i suoi studi frequentando i corsi di pianoforte al Conservatorio di Santa Cecilia.
Morì il 26 febbraio 2016, una settimana dopo Umberto Eco, la cui scomparsa monopolizzava ancora i “coccodrilli”; anche per questo, forse, le terze pagine non le attribuirono l’importanza che avrebbe meritato.
Troppe donne, il male oscuro della scuola
Il piacere di esprimere con chiarezza le sue opinioni non l’abbandonò sino agli ultimi anni e infatti il 27 febbraio di dieci anni fa, un anno prima di morire, pubblicò sul “Giornale” un intervento che fece scalpore, sin dal titolo: “Troppe donne, il male oscuro della scuola”.
La Magli individuava nella femminilizzazione dell’insegnamento un pericolo in quanto privava fanciulli e adolescenti di una figura maschile di riferimento negli anni fondamentali della crescita.
Inoltre denunciava il paradosso per cui una cultura creata dagli uomini (“Socrate era maschio, Omero era maschio, Virgilio era maschio, Galileo era maschio, Leonardo era maschio…”) viene trasmessa in prevalenza da donne: maggioranza schiacciante nella scuola dell’infanzia e primaria, ma netta anche nelle scuole medie e superiori, a parte alcune discipline tecniche e scientifiche.
Da tale situazione secondo l’antropologa sarebbero derivate due conseguenze: una carenza nella formazione culturale dei giovani maschi, in quanto “non si può insegnare bene quello che non si è creato”, e una sorta di ripulsa da parte di questi, una volta divenuti adulti, nei confronti della figura femminile, sotto forma di reazione alla“autorità assoluta” conferita alle donne dal sistema educativo.
L’intervento della Magli, incline alla generalizzazione, come ogni articolo di giornale, suscitò prevedibili contestazioni, sulla carta stampata e sul web. La più arguta fu un post dal titolo “se ci stuprano, la colpa è della maestra”.
Discutibile senz’altro è fra le tesi espresse nell’intervento l’affermazione che le donne non siano titolate per insegnare una cultura maschile, che ricorda la pretesa che a scrivere la storia del mondo femminile o delle minoranze sia autorizzato solo chi ne fa parte.
Eppure dietro la provocazione della Magli sussiste un fondo di verità che l’evoluzione della società italiana nell’ultimo decennio non fa che confermare, anzi in certi casi ribadisce.
In molti alunni provenienti da altre culture, per esempio, l’idea di trovarsi sotto l’autorità di una donna può suscitare insofferenza o addirittura pulsioni di rivolta: chi nasce in una famiglia davvero patriarcale difficilmente accetterà il “matriarcato” didattico.
Anche la realtà fotografata dalla antropologa non è sostanzialmente cambiata dal 2015.
La situazione attuale
Nell’anno scolastico 2022-2023 l’81,5 per cento degli insegnanti era di sesso femminile, con un comprensibile 99 per cento nella scuola per l’infanzia, il 96 per cento nella primaria, e una netta prevalenza anche alle medie e alle superiori, soprattutto fra gli insegnanti di sostegno.
La prevalenza della componente femminile sussiste, anche se in minor misura, pure fra i dirigenti scolastici, tanto che, applicando una sorta di “quote blu” al posto delle quote rosa, si è affermato il criterio di dare la precedenza ai maschi nei concorsi a preside, a parità di punteggio.
È interessante notare però come anche molte femministe, sia pure per motivi diversi e in certi casi opposti rispetto alle argomentazioni della Magli, giudichino oggi un fatto negativo la prevalenza numerica delle donne nella scuola, anche nei licei.
Tale prevalenza non è più letta come una conferma della crescita culturale e sociale ma come la dimostrazione che le donne siano indotte a occupare nell’ambito lavorativo posizioni poco remunerative, col miraggio di un maggior tempo libero da dedicare alla famiglia, confermando il loro ruolo “ancillare”.
Viene fatto notare inoltre come nell’ambito universitario fra i professori ordinari prevalgano nettamente i maschi, anche se la sostanziale parità di genere fra i ricercatori lascia pensare che in un prossimo futuro tale rapporto venga meno o si ribalti, come avviene già nella Magistratura.
L’evoluzione del sistema educativo
Eccessi vittimistici a parte, il discorso è comunque complesso e richiede quanto meno un approfondimento storico. Se già in età umbertina le maestre costituivano la maggioranza, l’accesso all’insegnamento nelle scuole medie e negli istituti di istruzione secondaria superiore è stato percepito a lungo come una promozione culturale e sociale delle donne; anzi una delle critiche più severe mosse alla politica scolastica del regime è stato di avere precluso alle professoresse l’insegnamento nel triennio dei licei di materie altamente formative, come storia e filosofia.
Tutto il contrario di quanto avveniva in Francia, dove non esistevano discriminazioni di questo genere e anzi una Simone de Beauvoir poté accedere alla cattedra di filosofia un anno prima del suo storico compagno Sartre, che era stato bocciato al severissimo esame per agrégé.
Giovanni Gentile aveva oltre tutto introdotto un singolare ordine di studi, il liceo femminile, che non prevedeva sbocchi professionali, per cui si rivelò, come aveva previsto Giuseppe Prezzolini, un fallimento. Il vero e proprio liceo femminile sarebbe finito per divenire l’istituto magistrale, per altro riqualificato culturalmente rispetto alla vecchia scuola normale, di cui prendeva il posto e in cui aveva studiato anche il giovane Mussolini.
Risultato di questa preclusione fu l’avvento di una razza di professoresse di quarta e quinta ginnasio, bravissime e severissime, che occupavano una delle cattedre più totalizzanti della scuola italiana: diciotto ore in una sola classe, comprendenti italiano, latino, greco, storia, geografia, con effetti traumatici per gli alunni che non si trovassero bene con l’insegnante, cosa che può benissimo capitare.
Con la caduta del regime i divieti caddero ed ebbe inizio una lenta femminilizzazione anche dell’insegnamento liceale e più in generale del triennio degli istituti tecnici e professionali.
Cominciarono a manifestarsi però anche alcuni fenomeni di più ampia portata, che gradualmente ridimensionarono quella che poteva essere considerata una conquista.
In primo luogo, l’istituto magistrale continuò ad avere durata quadriennale. In realtà l’ultimo ministro dell’Educazione Nazionale del regime fascista, Carlo Alberto Biggini, aveva voluto che assumesse durata quinquennale, nella convinzione, non erronea, che seguire la crescita intellettuale e morale di un fanciullo richieda una preparazione almeno pari a quella richiesta per fare il perito industriale o il ragioniere.
Dopo la guerra la modifica fu abolita, un po’ per preconcetta diffidenza nei confronti di tutto quello che aveva fatto il fascismo, un po’ perché molti istituti magistrali erano gestiti da suore e la durata accresciuta del corso aveva comportato un calo delle iscrizioni, con relativo danno economico per gli ordini religiosi.
Di conseguenza le magistrali, pubbliche o private, continuarono a licenziare in quattro anni maestre e maestri che, se volevano proseguire gli studi, potevano iscriversi solo alle facoltà di magistero, finendo così per sfornare aspiranti docenti delle scuole medie e superiori.
Questo comportò il dirottamento verso studi letterari di giovani donne che avrebbero magari preferito intraprendere studi scientifici, con un’abnorme femminilizzazione del corpo insegnante, non più solo alle elementari.
In un primo tempo, questo surplus di laureati svolse un positivo ruolo di supplenza. La scolarizzazione di massa prodotta dal varo della scuola media unificata nel 1962, dal baby boom postbellico e dal miglioramento delle capacità di spesa delle famiglie comportava un accresciuto e a volte drammatico fabbisogno di insegnanti. Poteva così capitare che laureande in giurisprudenza fossero chiamate a insegnare inglese o che, non bastando i diplomati dell’Isef, venissero assunti semplici diplomati, passati in ruolo dopo un breve corso estivo.
A partire dagli anni Settanta, però, col rapido aumento del numero dei laureati, incominciarono a manifestarsi i primi fenomeni di disoccupazione intellettuale fra i laureati in Lettere e in Magistero, che la classe dirigente affrontò nel peggiore dei modi. Da un lato bloccò i concorsi per l’insegnamento (dal 1975 al 1983 non ne furono mai banditi), limitandosi a sanare la posizione di chi già insegnava e creando un’abnorme massa di precari; dall’altro, nelle scuole medie, introdusse nuove figure di docenti con compiti più di assistenza che di insegnamento, che avrebbero potuto essere svolti da un bidello: sorveglianza degli scolari durante la mensa, vigilanza pre-scuola.
Cominciava quel progressivo svilimento del ruolo dell’insegnante che ha raggiunto il culmine ai nostri giorni. Una nota comica e intrattenitrice televisiva, che in gioventù fece la professoressa alle medie, raccontò che, quando appunto prestava servizio durante la mensa, lei e le colleghe erano abituate a tagliare la carne agli alunni: un comportamento più da “tata” che da insegnante, oltre tutto diseducativo, perché a undici anni un ragazzino dovrebbe aver imparato a stare a tavola senza bisogno di aiuto.
Nel frattempo, intanto, le docenti “all’antica”, quelle che magari per insegnare Lettere al “ginnasio inferiore” di un tempo avevano dovuto svolgere al concorso un tema in latino, erano oggetto di un attacco frontale con la pubblicazione della “lettera a una professoressa”. Il pamphlet, formalmente scritto da alcuni ragazzi della scuola di Barbiana coordinati da don Lorenzo Milani, uscì nel 1967.
La questione salariale
La sua influenza sulla didattica cominciò a divenire pervasiva dieci anni dopo, quando di fatto ispirò la riforma della scuola media riformata, che fra l’altro sopprimeva l’insegnamento del latino. Insieme a una critica veemente nei confronti del carattere classista della scuola italiana, introduceva un argomento polemico che avrebbe conosciuto larga e durevole fortuna presso diverse sponde politiche: l’accusa rivolta agli (e naturalmente alle) insegnanti di lavorare troppo poco in rapporto allo stipendio percepito. Riferendosi al padre di un alunno bocciato, l’autore (o gli autori, se si deve credere all’artificio letterario), scriveva:
“Lui che prende 300 lire l’ora, a voi ve ne dà 4300. Ed è disposto a darvene anche di più purché facciate un orario un po’ più decente. Lui lavora 2150 ore l’anno, voi 522 (gli esami non ve li conto, non sono scuola). Lo stipendio netto di un insegnante delle medie inferiori va da un minimo di 1.223.000 lire l’anno (1ª. classe di stipendio nessuno scatto) a un massimo di 3.311.000 (4ª. classe di stipendio 17° scatto). L’orario di cattedra va da un minimo di 468 ore l’anno (lingua straniera e matematica) a un massimo di 540. Minimo stipendio con massimo d’ore eguale 2264 lire l’ora. Minimo d’ore con massimo di stipendio 7074 lire l’ora.”
Colpiscono in questo passaggio la superficialità e, spiace dirlo, per un religioso, l’acredine del raffronto fra lo stipendio degli insegnanti e il salario operaio. È molto discutibile la scelta di valutare l’impegno dei docenti sulla base della mera presenza in cattedra, senza contare che ogni lezione presupporrebbe un’adeguata preparazione, che una professoressa comincia a guadagnare uno stipendio dopo anni e anni di studi e di precariato, senza contare l’impegno negli esami (che don Milani si rifiuta di prendere in considerazione perché “non sono scuola”), nei consigli di classe e nell’aggiornamento
Colpisce però come dal 1967 a oggi lo stipendio reale di un insegnante di scuola media abbia visto eroso il suo potere d’acquisto. Le 3.311.000 lire nette che costituivano lo stipendio annuo di un docente a fine carriera equivalgono ai 39.541,78 euro di oggi, secondo il rivalutatore Istat, ovvero a 3.041 euro mensili (oltre ovviamente alla tredicesima). Oggi si va in pensione col massimo con duemila euro.
Dati come questi smentiscono almeno in parte la tesi che addebita la modestia degli stipendi dei docenti alla femminilizzazione dell’insegnamento. Nelle scuole medie degli anni Sessanta le donne erano già la maggioranza: altrimenti la Lettera a una professoressa don Milani l’avrebbe intitolata Lettera a un professore. Le retribuzioni però erano più elevate. Semmai, potrebbe avere una sua logica il ragionamento inverso: sono i bassi stipendi a far sì che l’insegnamento sia stato preferito dalle donne, perché, potendo contare sul maggior reddito del marito, possono permettersi il lusso di accettare una remunerazione sempre meno gratificante.
Anche l’opinione che il “posto” nella scuola sia gradito alle donne perché le famose diciotto ore di cattedra consentono di dedicarsi alla famiglia può avere avuto una sua validità in passato, ma oggi ne ha molta di meno. Fra oneri burocratici, registri elettronici da compilare dopo la fine della lezione e con propri mezzi, magari perché a scuola “manca il campo”, riunioni pomeridiane sempre più frequenti, età pensionabile sempre più posticipata, la scuola non è più il rifugio per chi intenda conciliare lavoro e famiglia. Lo dimostra il nutrito numero di docenti che chiedono di essere distaccati negli uffici scolastici regionali o provinciali, accettando un orario di servizio impiegatizio. Questioni motivazionali a parte, trentasei ore spalmate su cinque giorni, con la garanzia del sabato libero, con un orario continuativo e il diritto ai buoni pasto, possono essere preferibili a diciotto ore con diversi “buchi”, riunioni pomeridiane che obbligano al rientro – rovinose per chi abita lontano dalla scuola in cui insegna, – per tacere dei problemi di disciplina e dei rapporti spesso problematici con le famiglie.
I motivi
In realtà, dietro i bassi stipendi degli insegnanti sussistono altri motivi. Uno è il ridimensionamento delle differenze salariali fra lavoro manuale e lavoro intellettuale, che in certi casi si è tradotto in un ribaltamento a favore del primo. L’altro è stato la regolamentazione del diritto di sciopero, che ha vanificato per gli insegnanti l’unico strumento efficace, perché, con la sua sola minaccia, quasi mai mantenuta, costringeva comunque a trattare la controparte, ovvero i partiti di governo, preoccupati per un’agitazione sindacale che minacciava le vacanze e ritardava lo stesso espletamento degli esami di Stato. Non a caso il declino della professione docente sotto il profilo salariale e normativo, con la privatizzazione del rapporto di lavoro, ha avuto inizio nel 1992, quando il blocco degli scrutini fu posto fuori legge e per bloccare le trattative bastò un intervento del presidente della Confindustria Sergio Pininfarina, che, con argomenti analoghi a quelli di don Milani, sostenne che gli insegnanti per il lavoro svolto erano già pagati bene.
A rendere difficile assicurare agli insegnanti stipendi adeguati sussiste però un altro fattore, al quale nessun governo è in grado di ovviare: il loro elevatissimo numero. Secondo i dati ministeriali, nell’anno scolastico 2023-24 in servizio nelle scuole statali c’erano 943.000 docenti. Nel 2024 il numero dei magistrati (esclusi quelli onorari, pagati per altro a cottimo, con retribuzioni esigue) era di 9.300 unità, il 56 per cento delle quali di sesso femminile. È evidente che aumentare di diecimilaeuro lo stipendio dei giudici sarebbe meno oneroso per le casse pubbliche che aumentare di cento quello dei professori.
Anche per questo il ruolo di ministro dell’Istruzione – con o senza Merito – è uno dei più ingrati, a prescindere dalle appartenenze politiche.
È onesto aggiungere che responsabile di questa situazione non è soltanto la demografia. Anzi, sotto un certo profilo, il calo della natalità a partire dagli anni Novanta avrebbe potuto rendere possibile una diminuzione del numero dei docenti, con la possibilità di aumentare gli stipendi pro capite.
Questo non è avvenuto, per motivi facilmente comprensibili. La disoccupazione intellettuale, endemica a partire dalla metà degli anni Settanta, la difficoltà di gestire seri concorsi, la conseguente crescita del precariato e la pressione dei sindacati per ottenere periodiche sanatorie hanno fatto la loro parte.
Ma a tutto questo occorre aggiungere che la scuola pubblica è stata onerata di compiti in molti casi psico-socio-sanitari, di integrazione, di inclusione, di mediazione culturale che hanno finito per motivare una crescita degli organici, come dimostra l’elevatissimo numero, circa 200.000, di insegnanti di sostegno. È la logica conclusione di un percorso cominciato nel 1977 con l’abolizione delle classi differenziali e allargatosi con l’andare degli anni, un po’ per i problemi legati all’immigrazione, un po’ per una certa tendenza a “medicalizzare” disturbi un tempo sottovalutati, un po’ perché la crisi dell’istituto familiare ha effettivamente accresciuto le criticità psicologiche in un numero imprevedibile di studenti.
Le criticità
Se non può essere considerata la vera responsabile dei bassi stipendi degli insegnanti, la “femminilizzazione” della classe docente comporta comunque alcune criticità. Non si tratta di carenze di tipo didattico (come insinuava la Maglie) né culturale. È noto come le studentesse raggiungano risultati migliori dei coetanei e l’esperienza insegna che la maggior parte delle docenti impartisce un insegnamento più sistematico – non solo nelle materie scientifiche – e mette spesso maggior entusiasmo nel suo lavoro, che non avverte, come accade a molti colleghi maschi, come un ripiego se non come, in molti istituti tecnici e professionali, un ponte verso la pensione con cui integrare i guadagni della libera professione.
Al di là della routine, una professoressa può essere capace d’infondere amore per la disciplina almeno quanto un collega; magari anche di più, con alunni maschi. Giorgio Albertazzi, nei fuori programma al termine di molti spettacoli, declamava Dante ricordando come la sua passione per il sommo poeta derivasse dalle lezioni della professoressa di Lettere al ginnasioinferiore, per cui per la verità si era preso una “cotta”.
C’è tuttavia un dato di fatto, e qui è difficile dare torto all’antropologa Maglie: i giovani hanno bisogno di figure di riferimento maschili perché in molti casi vivono in un contesto familiare sempre più “matriarcale”. In una società in cui quasi metà dei matrimoni si concludono con un divorzio e il 90 per cento dei bambini viene affidato alla madre, che resta padrona del domicilio familiare, poter contare su una figura di riferimento maschile, se non alle elementari o alle medie almeno alle superiori, può costituire una legittima esigenza.
Occorre aggiungere che l’egemonia femminile nella scuola di oggi non si limita a un fattore numerico, ma si allarga, almeno ai livelli superiori, a un ambitoqualitativo. Un caso limite è costituito dalla traccia per l’ambito artistico-letterario prevista per gli esami di Stato del 2016. Sotto il titolo “Il rapporto padre-figlio nelle arti e nella letteratura del Novecento” venivano proposti e in certo qual modo imposti testi in cui il genitore era presentato come, nel migliore dei casi, un avversario. Si spaziava dalla celebre lettera al padre di Kafka a “Mio padre è stato per me l’assassino” di Saba, passando per un passaggio di Con gli occhi chiusi del grande Federigo Tozzi. Mancava però una lirica come “Padre, se anche tu non fossi il mio” di Camillo Sbarbaro, che fuori dal coro potesse mostrare la genuinità dell’amore fra un figlio e chi gli aveva dato la vita. Un tempo era presente in tutte le antologie, compresa la splendida Il cerchio d’oro, di Guido Di Pino, su cui si sono formate generazioni. Oggi in pochi la ricordano. Ma è anche per mancanza di poesie come questa che si formano generazioni senza padri.
Enrico Nistri – saggista