Il fisco come leva per disegnare, plasmare e infine realizzare un’idea di società più giusta. Giacomo Matteotti non fu soltanto un politico di idee socialiste, un oculato amministratore locale, un sindacalista, un pacifista antimilitarista, un parlamentare capace di percepire il pericolo fascista prima degli altri che pagò con la vita la sua lungimiranza. Fu anche un giurista – con solide basi di diritto penale – prestato all’economia, e soprattutto al fisco.
Di quest’ultimo aspetto dell’uomo rapito e ucciso da una squadraccia di sgherri mussoliniani il 10 giugno 1924, poco si sa. A raccontarlo provvede adesso il libro La riforma tributaria. Il metodo Matteotti (Bologna University Press) di Francesco Tundo, professore di Diritto Tributario all’ateneo bolognese Alma Mater.
Presentato in Senato – con il responsabile Economia del Pd Antonio Misiani, il direttore dell’Agenzia delle Entrate Ernesto Ruffini, e lo storico Mauro Canali, autore de Il delitto Matteotti e curatore della mostra a Palazzo Braschi – il saggio spiega bene la visione moderna del prelievo fiscale secondo il deputato socialista. Che ben prima dell’arrivo della Costituzione aveva come cardini di una riforma – dunque qualcosa di organico, complessivo, razionale e coerente – i principi di equità, eguaglianza sostanziale e progressività. Insomma vedeva la leva fiscale come strumento di emancipazione sociale, di redistribuzione e di solidarietà. Puntava il dito contro i privilegi e le iniquità del primo Dopoguerra: dalle imposte sui consumi ad effetto regressivo su sale, grano, e tabacchi, fino ai dazi che avevano effetto distorsivo. Voleva un’imposta complessiva sul reddito che tenesse conto di tutta la ricchezza dell’individuo e della sua famiglia, superando l’imposizione frastagliata di quel periodo. Lavorava a un progetto di autonomia impositiva per i Comuni, agevolato dall’aver mosso i primi passi in politica proprio come consigliere comunale e provinciale e poi sindaco di piccole realtà.
Matteotti si rendeva conto che già all’epoca le imposte erano alte, e bisognava redistribuire piuttosto che innalzarle, eppure aveva chiari i rischi del populismo fiscale: “E’ dannoso additare all’odio del popolo le tasse, dobbiamo limitarci a dimostrare che sono mal distribuite ma… necessarie. Quando domandiamo che lo Stato intervenga su grandi lavori pubblici, istruzione, patrimonio artistico, mostriamo di reputare indispensabile l’esistenza di un tesoro statale collettivo. E siccome, dai tempi di Mosè in qua, né manna né oro cade più dal cielo, non potrà provenire che dalle tasche dei contribuenti”. Una pragmatica presa d’atto che oggi fa tornare alla mente le parole del ministro Tommaso Padoa Schioppa: “Le tasse sono bellissime”.
L’occasione del convegno a Palazzo Madama è scaturita dall’imminenza del centenario della morte di Matteotti. “L’attenzione per il tema tributario è uno degli aspetti che rendono Matteotti all’avanguardia non solo rispetto al suo tempo, ma alla sua stessa parte politica – ha detto Ruffini – Per lui il fisco è uno strumento per ridurre le differenze sociali, aiutare le fasce più deboli e si inserisce in una visione fondata sull’uguaglianza dei contribuenti, un concetto oggi scontato ma che all’epoca non lo era affatto. Non a caso alcune sue proposte e intuizioni hanno poi trovato posto nei principi fondativi della Costituzione o sono state introdotte nel nostro ordinamento».
Da Misiani è arrivata un’analisi calata anche nell’attualità: “Questo libro pone l’attenzione su un aspetto meno conosciuto ma cruciale del percorso di Matteotti – ha detto Misiani – la questione fiscale, l’impegno per una riforma nel senso della progressività, dell’autonomia fiscale dei comuni, per una maggiore giustizia sociale. Questi nodi politici si collocano in una stagione politica drammatica della storia d’Italia, a cavallo della prima guerra mondiale e nella fase segnata dalla crisi della classe dirigente liberale e dall’avvento del fascismo. Eppure sono, per tanti versi, straordinariamente attuali. Perché ad un secolo di distanza la questione di dotare l’Italia di un sistema di imposizione più giusto e razionale, rimane in larga parte irrisolta”.
Conclusione non dissimile da quella a cui è giunto l’autore: «Sono in pochi a saperlo, eppure Matteotti ha posto la questione fiscale al centro del suo impegno, facendone materia prima di giustizia sociale. È una parte importante della sua eredità: ci insegna che è tuttora possibile metterla con serietà, al centro del dibattito politico, rinunciando a demagogia e populismi. Matteotti si batte per l’imposizione personale progressiva, pietra angolare di un prelievo sul reddito complessivo. Al suo tempo non esisteva ancora. Oggi non esiste più, essendo a carico solo dei lavoratori dipendenti e dei pensionati, con un effetto di palese disuguaglianza e ingiustizia sociale».
Federica Fantozzi – Giornalista