È stato un inizio di settimana impegnativo per il Pd.
Primo colpo: la sconfitta in Basilicata, prevista ma non per questo piacevole, addolcita dall’essere primo partito dell’opposizione e dal tracollo dei fratelli – coltelli Cinquestelle, ma che conferma l’evanescenza della coalizione di centrosinistra. Di cui, nelle urne lucane, non faceva parte nessuna delle due componenti del fu Terzo Polo schierato invece con il governatore uscente Vito Bardi. Ma a fare più male (al morale) è stato il secondo colpo: la discussione intorno alle liste per le Europee con il colpo di coda dell’ipotesi del nome di Elly Schlein nel simbolo elettorale, seppellita sotto il fuoco amico. Dibattito – si badi – avvenuto a urne aperte.
Due episodi marginali a guardarli in modo obiettivo: da un lato, chi governa ha spesso il vento in poppa e l’appeal elettorale di Giorgia Meloni si conferma forte; dall’altro, il Pd è rimasto l’ultimo partito a riunire gli organismi dirigenti in lunghe riunioni che assomigliano un po’ alla psicanalisi di gruppo ma sono anche il succo della vita democratica all’interno di una forza politica. Eppure, la dinamica di entrambi i fatti dice molto sulla fatica improba che l’opposizione ha di fronte se intende costruire un’alternativa di governo.
Era così eretica la proposta schleiniana di inserire il suo nome nel simbolo (una tantum)?
Dal punto di vista della leader, no. È vero che il Pd è un partito plurale in cui il “noi” prevale orgogliosamente sull'”io”.
Quando Romano Prodi critica i candidati che non andranno mai a Strasburgo (lo dice da sempre e vale per tutti, da Meloni ad Antonio Tajani) è in sintonia con la base Dem. Né si può dire che predichi bene e razzoli male visto che sia nel 1999 sia nel 2004 le liste dell’Asinello e poi dell’Ulivo evocavano il suo nome ma il Professore non corse. Così come ha ragione chi fa notare che a giugno non c’è in palio la premiership (meno convincente tirare in ballo il premierato che è una riforma costituzionale, roba più seria di una modifica provvisoria al logo elettorale).
Tuttavia, ogni battaglia è figlia del suo tempo e si combatte con le armi a disposizione. Il duello Schlein-Meloni è nei fatti prima che sugli schermi. I partiti sono liquidi, gli elettorati volubili, i cacicchi in agguato. La segretaria eletta dai gazebo e non dai circoli sa di ballare sul ciglio dell’abisso, come del resto i suoi predecessori: a lei verrà comunque tributata la vittoria o imputata la sconfitta.
Allora, tanto vale giocarsela fino in fondo.
Il problema, casomai, sono state le modalità di gioco: una proposta avanzata senza nessuno che se la intestasse, senza preavviso né trattativa, non poteva che provocare malumori. Ma se Schlein intende – a torto o ragione – rivoluzionare il partito, il suo tempo sta scorrendo. Mentre la retromarcia ha lasciato un retrogusto di debolezza più che di saggezza, resta la sensazione dell’ennesimo scontro in un partito che usa i segretari come taxi e sta già pensando al successivo.
Il Pd non può più permettersi di rimanere in mezzo al guado o farà un favore soltanto a Giuseppe Conte. Al netto delle (importanti) questioni giudiziarie, lo schema politico del campo largo in Puglia e Basilicata è stato lo stesso: un candidato su cui è piombato il veto M5S, un “civico” volonteroso durato poche ore, un compromesso finale inevitabilmente zoppo. Per i pentastellati nelle urne lucane è stato un tonfo, ma Conte mantiene clamorosamente il suo potere: sarà decisivo per il destino di Michele Emiliano appeso al voto di sfiducia chiesto dal centrodestra pugliese. Più che accapigliarsi sul simbolo, è su tutto questo che il Pd dovrebbe riflettere.
Federica Fantozzi – Giornalista