La strana maggioranza di centrodestra

Un equilibrio che si regge, pragmaticamente, sulla ‘’regola’’ del votare ’’controvoglia’’ proposte dell’alleato, contando sulla reciprocità, per non creare problemi al governo. Una illuminante e rivelatrice frase del ministro Giorgetti

Giulio Andreotti, riferendosi ad una sua criticata presidenza del Consiglio, sbottò: “Meglio tirare a campare che tirare le cuoia.” L’andazzo del tirare a campare è diventato, da molti lustri, la filosofia politica non di questo o quel governo, bensì dell’intero sistema italiano, che sembra colpito da una sorta di tisi sociale. Lo stentato sviluppo, senza vigore, che affligge l’Italia, pare ormai endemico.

La maggioranza di centrodestra, pur gravata dalla pesante eredità dei governi precedenti, i cui eredi dovrebbero star zitti almeno per pudore, sorprendentemente segue alquanto le orme dei predecessori, non nel senso che fa le stesse cose (fa anche questo), ma nel senso che non fa le cose che pure le altre maggioranze avrebbero dovuto fare e non hanno fatto. In politica, lo sappiamo bene, è impossibile accettare l’eredità con il beneficio d’inventario. Il realismo impone di accollarsi il lascito completo, passività e attività, trasmesso nella gestione del Paese e di provare, a fatti non a parole, che i vizi denunciati dal banco dell’opposizione continuano ad essere vizi pure se rivendicati come virtù dalla poltrona di governo.

La maggioranza di centrodestra è stata stabilita dagli elettori. È la democrazia. Ma quale sia la piattaforma politica della maggioranza, al di là della “weltanschauung” (esagerando: concezione della vita e visione del mondo) dei tre maggiori partiti che la compongono e delle cose che si dicono nel discorso programmatico d’insediamento, non è affatto così sicuro, ad eccezione di tre obiettivi dichiarati e riaffermati ad ogni piè sospinto: elezione diretta del capo di governo, regionalismo differenziato, separazione delle carriere della magistratura. Poi, è vero, ci sono i bersagli che non mancano mai: riforma del fisco, riforma delle pensioni, riforma della sanità, riforma del lavoro, riforma burocratica, eccetera, tali e tante che gl’Italiani hanno giustamente preso a temere la stessa parola “riforma”.

Stando dunque ai punti cardinali del programma del Governo di centrodestra, essi sono talmente importanti che, ai fini del giudizio, è decisivo valutarne la coerenza con gli scopi dichiarati e con le posizioni nella maggioranza.  Invece le tre direttrici di marcia sembrano lastricate di retropensieri. I voti si susseguono ai voti, ma il pieno sentimento dell’approvazione solidale non emerge. Anzi si percepisce, come ad un livello subliminale, che ciascuna delle parti non ama perdutamente la creatura dell’altra e tuttavia continua a spupazzarsela nell’intesa che poi alle altre tocchi reciprocare. Questo “do ut des”, questo scambio di favori non disinteressati, non prelude a nulla di buono per gli interessi nazionali perché non rappresenta una mediazione virtuosa, ma piuttosto una transazione, dove le parti, “facendosi reciproche concessioni, pongono fine ad una lite già cominciata o prevengono una lite che può sorgere tra loro”, come recita il Codice civile.

Da ultimo, una seria quanto devastante prova che le cose stiano proprio così ci viene fornita da Giancarlo Giorgetti, il quale, oltre ad essere il più autorevole leghista, riveste la carica di ministro dell’Economia, che dovrebbe poi fornire i denari per tali epocali realizzazioni. Ebbene, intervistato da Cesare Zeppieri (Corriere della Sera, 21 aprile 2024), alla precisa domanda: “Se non viene approvato il ddl Calderoli, la maggioranza non c’è più?”, il ministro Giorgetti ha risposto così: “Abbiamo preso impegni reciproci. Questo implica che noi votiamo magari controvoglia (corsivo nostro) alcuni provvedimenti e gli altri partiti della coalizione viceversa, anche loro controvoglia (corsivo nostro), ne votano altri.” Ed ha tagliato corto: “Questa è la regola della coalizione.” Sarà pure “la regola della coalizione” per il leghista, giammai dovrebbe essere la regola per un ministro della Repubblica, per un ministro dell’Economia o, peggio, per un Governo di coalizione! A noi sembra meno una regola che un do ut des costituzionale e legislativo su questioni esiziali per l’avvenire della nazione.

Le reciproche concessioni, imposte dalla necessità politica di stringere il patto di governo, accettate controvoglia, stanno a significare che i partiti della coalizione perseguono risultati che altrimenti non avrebbero potuto conseguire, perché avversati non solo dall’opposizione parlamentare, ma anche, reciprocamente, dai partiti di maggioranza. I quali accettano controvoglia esclusivamente per conservarsi la potestà di governo, giudicata preminente sui concreti atti di governo, a prescindere.  Lo scambio dei favori non disinteressati comporta l’adulterazione non solo del modello ideale dei progetti, ma pure del modello proprio di ciascun partito. Se tutto questo non è tirare a campare, gli somiglia.

Inoltre risulta evidente e inoppugnabile che le reciproche concessioni costituiscono il plinto su cui poggia la coalizione governativa, che è tripartita sia nel senso che la compongono tre partiti, sia nel senso che tre sono gl’imprescindibili indirizzi politici del Governo. Tuttavia, se i tre indirizzi sono chiari come obiettivi, non sono ancora definiti quanto alle specifiche norme. Di fatto la loro calendarizzazione parlamentare evidenzia una certa sfiducia reciproca. Tanto è vero che la discussione dei progetti di legge è distribuita tra le Camere e cadenzata in modo da ottenere una reciproca assicurazione sul loro buon esito mediante l’approvazione quasi allo stesso tempo.

In buona sostanza, le reciproche concessioni non somigliano, neppure alla lontana, ad un compromesso migliorativo dei progetti di legge, ma hanno lo scopo di prevenire il sorgere di liti nella maggioranza e, soprattutto, di scongiurare la crisi di governo, che immancabilmente avverrebbe se ognuno dei tre partiti esigesse, conditio sine qua non, l’approvazione o il rigetto di un testo conforme alle proprie impostazioni: insomma, se ponesse una sorta di “questione di fiducia” sulla propria soluzione normativa. Lo scambio di favori non disinteressati avrà tuttavia dei costi istituzionali notevoli, sia perché porterà ineluttabilmente all’approvazione di leggi senza il pieno consenso morale dei parlamentari e dei partiti di maggioranza, sia perché gli ordinamenti risultanti costituiranno un arrangiamento del quale, benché non completamente voluto, la maggioranza governativa porterà per sempre l’intera responsabilità politica.

È probabile che il patto di governo prevarrà. Infatti, a meno che risulti completamente inappetibile o indigeribile, ciascun partito ingoierà il rospo altrui.

 

Pietro Di Muccio de Quattro

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