Rosa Quasimodo ed Elio Vittorini, una intensa storia d’amore. Con “fuitina”

Tutta colpa di Ade, il dio degli inferi, e della bella Persefone, di cui il re delle tenebre si invaghì, se in Sicilia per tanto tempo si ricorse alla “fuitina”.

Sì, perché secondo la mitologia greca, la sensuale Persefone (Proserpina per i Romani) scatenò la passione incontenibile di Ade, che con la complicità di Zeus scese sulla terra per rapirla: quella fanciulla che raccoglieva e faceva germogliare i fiori nel prato era troppo aggraziata e affascinante per non accendere gli appetiti del demonio.

Dove il luogo del misfatto? Nel cuore della Sicilia naturalmente, in quel di Enna.

Dopo il ratto, la madre di Persefone, Demetra, dea della fecondità della terra, vagò disperata alla sua ricerca, per rifugiarsi, stremata e avvilita, presso il suo tempio lasciando che i frutti appassissero e la natura diventasse sterile. Tanto da costringere il dio degli dei, Zeus, a scendere a patti con Ade. Si giunse così a un compromesso, come in tutte le “fuitine”: fu concesso a Persefone di tornare sulla terra per otto mesi (quanto durano in Sicilia la primavera e l’estate) rimanendo negli inferi, in compagnia di Ade, per il resto dell’anno (l’autunno e l’inverno dell’isola).

Se la “fuitina” affonda le sue radici nella più fantasiosa mitologia, essa – sebbene in genere rappresentata folkloristicamente nei suoi aspetti romantici – di romantico aveva assai poco nel costume siciliano di un passato che oggi, per fortuna, appare lontano. Il più delle volte era un espediente, tutto siculo, per consacrare col matrimonio unioni alle quali non si poteva, nell’ipocrisia delle convenzioni sociali, porre un consenso esplicito e preventivo: per l’età dei futuri sposi o per le loro condizioni economiche (con la “fuitina” si evitavano le spese, non sostenibili dalle famiglie povere, delle feste nuziali). Si trattava, perciò, quasi sempre di una finzione, di una sceneggiata che esaltava la teatralità da “tragediaturi” dei siciliani, una rappresentazione con al centro i miti dell’onore e della verginità, utile per scardinare le forme (pirandelliane) che imprigionavano la necessità di metter su famiglia e gli impulsi sessuali delle donne. La ragazza, fatta scomparire da casa con la complicità dei parenti, consumava con lo sposo promesso la notte d’amore fatale in un luogo concordato; poi, una volta deflorata, i familiari – messi di fronte al fatto compiuto – autorizzavano il matrimonio riparatore.

Ma ogni regola, si sa, ha le sue eccezioni, e qualche volta la “fuitina” costituiva davvero la svolta risolutiva di storie d’amore. Così fu quella che condusse al matrimonio di Rosa Quasimodo con Elio Vittorini. Né poteva essere diversamente tra la sorella di un poeta premio Nobel e uno scrittore che avrebbe esplorato nuovi orizzonti nella letteratura italiana. Il sentimento, in quelle famiglie possedute dal demone della creatività letteraria, era troppo prepotente per piegarsi al conformismo ed essere relegato in secondo piano in riti sociali, seppure consolidati, come quello della “fuitina”.

 

 

Rosa Quasimodo ed Elio Vittorini escogitarono e misero in pratica la “fuitina” nel 1927. Racconta Rosa in un’autobiografia ricca di particolari sulla loro storia, Tra Quasimodo e Vittorini: “Una notte d’agosto, presi accordi, mi aspettò alla finestra della sua camera, attraversai scalza tutta la tettoia della stazione, ed entrai in casa sua, che era all’altro capo della mia. Con la complicità del fratello Ugo fuggimmo con una carrozza verso un alberghetto della città”.

 

 

Come può evincersi dalla narrazione, la sorella di Salvatore Quasimodo e il futuro fondatore de Il Politecnico erano vicini di casa, abitavano negli appartamenti dentro la stazione ferroviaria destinati ai loro impiegati. Era, quella, la stazione di Siracusa, città dove era nato Vittorini. “Siracusa è una città di marinai e di contadini costruita su un isolotto che un lungo ponte congiunge alla Sicilia”, annoterà l’autore di Conversazione in Sicilia, aggiungendo: “Io vi sono nato il 23 luglio 1908 in una casa da cui ho visto naufragare, quando avevo sette anni, un piroscafo carico di cinesi…”.

A Siracusa prestavano allora servizio, entrambi da capistazione, sia il padre di Elio Vittorini sia quello di Rosa Quasimodo: chi non ricorda la poesia che il premio Nobel dedicò al padre “col berretto di gallo isolano”, quello appunto del capostazione, che vaga “lungo i binari” tra le macerie del terremoto di Messina e a cui rivolge col più ossequioso dei saluti: “…come il campiere dice al suo padrone: Baciamo le mani”?

Fu una “fuitina” ligia alle regole: la complicità dei parenti e la fuga in carrozza, il mezzo di trasporto usuale per quell’evento definito pure “fare la carrozzella”. Ma con qualche complicazione che le regalò un surplus di romanticismo: nell’alberghetto presso cui si recarono, saturo di ballerine di una compagnia di rivista, non vi erano camere libere. Pertanto Rosa ed Elio furono costretti a girare per la città di Dionisio e a passare la notte, tra baci e tenere effusioni amorose, seduti sui gradini del teatro greco, allora privo di recinzione. Da lì, racconta Rosa Quasimodo, “si vedeva la stazione e la finestra dei miei genitori”. Il che accentuava le sue paure: “Piangevo pensando a quello che sarebbe successo quando non mi avrebbero trovata. Avevo lasciato una lettera a mio padre sul comodino, vicino al mio letto”.

Così, abbracciati tra quelle pietre secolari, Rosa ed Elio videro giungere l’alba e, all’inizio della nuova giornata, lo scrittore (allora diciannovenne, lei era più grande di tre anni) si premurò di cercare Franco Zummit, l’unico suo amico che possedeva un’auto. Con la vettura di Zummit si recarono in un’osteria di Lentini, dove, in una camera spoglia destinata ad avventori di passaggio, consumarono l’amplesso che certificò la loro unione.

Quindi, accaduto l’irreparabile, fu compito del fratello di Rosa, Ettore – nel frattempo informato delle circostanze della “fuitina” – riportare a casa la sorella e consegnarla ai genitori perché si pronunciassero sulla sua sorte. Le posizioni della coppia furono divergenti: conciliante quella del padre, ostinata nel rifiutare l’usuale compromesso quella della madre.

Nel suo libro di memorie, Rosa Quasimodo rivela: “Fu mio padre che decise per il matrimonio riparatore. Ma dovette lottare non poco per convincere mia madre, che voleva riprendermi in casa accettando il fatto compiuto, anche se una ragazza che aveva avuto un’esperienza amorosa nessuno l’avrebbe più chiesta in sposa”.

Era una donna risoluta la mamma di Rosa, Clotilde Ragusa, pronta a sfidare le convenzioni sociali, anche perché quell’Elio Vittorini, oltre a essere più giovane della figlia, non risultava ai suoi occhi un “buon partito”.

Ragazzo troppo irrequieto, Elio, refrattario alle regole, ribelle per vocazione. Nel 1924, quando aveva sedici anni, interruppe gli studi di ragioneria e con i biglietti omaggio dei ferrovieri si pagò il viaggio verso la Venezia Giulia, dove lavorò in un’impresa edile. Successivamente, tornato in Sicilia, i genitori lo mandarono da una zia di Benevento affinché, “lontano da cattive compagnie”, riprendesse gli studi. Tentativo fallito, come pure privo di esiti fu il proposito di arruolarsi nell’Aeronautica.

Già all’epoca della “fuitina” Vittorini era divorato dalla passione per la scrittura, e proprio nel 1927 aveva inviato alla Fiera Letteraria, che non esitò a pubblicarlo, il suo primo importante testo, Ritratto di re Giampiero. Solo due anni dopo, poco più che ventenne, scriveva su Italia Letteraria un articolo in cui accusava la letteratura italiana di provincialismo.

Quanta temeraria spregiudicatezza.

Unitamente alla passione per la letteratura cresceva in Elio la passione amorosa. Tra lui e Rosa quelle passioni si confondevano, mentre sui binari della stazione di Siracusa i treni partivano carichi di emigranti, quasi a presagire che le loro esistenze si sarebbero realizzate fuori dall’isola. Così Rosa Quasimodo descrive Elio: “Era un giovane estroso, ricco di fermenti, che faceva letture importanti”. E della loro relazione, che si può immaginare piena di accorgimenti e cautele sotto gli occhi vigili dei genitori, ricorda: “Ci scambiammo spesso dei libri. Sentii subito che era scrittore nato, da piccole cose acquistai fiducia sulle sue possibilità… Ci frequentavamo, io gli parlavo di mio fratello poeta, lui delle sue aspirazioni”.

A volte si ritrovavano insieme nella casa dei Vittorini, dove il padre di Elio, anche lui amante della poesia, si esibiva certe sere nella lettura e nella recita di versi. E, galeotta la poesia, tra un verso e un altro si manifestavano le smanie d’amore e il corteggiamento del giovane scrittore diventava più deciso. Così lo rievoca Rosa: “Una volta mi voltai a guardarlo, sentivo il suo sguardo intenso su di me, e mi accorsi improvvisamente che era bellissimo, i capelli dorati e gli occhi a mandorla. Avevo una spilla sulla scollatura, lui non mi parlò, ma mi premette forte la spilla fino a lasciarne il segno sulla pelle. Un’altra volta che portavo un berretto con dei fiori rossi, mi staccò un fiore per conservarlo”.

Conosceva l’arte della seduzione, Elio. E Rosa – avvenente e sensuale, di quella sensualità nascosta e allusiva delle donne siciliane del tempo, castigate da costumi troppo severi – si lasciava conquistare ogni giorno di più. Vittorini le mandava biglietti amorosi nascondendoli dentro i libri che le prestava, e dal terrazzo da cui si vedevano i treni partire e arrivare la ammirava col suo sguardo avido. Rosa sfogliava i libri appassionandosi più che alla loro lettura a quella dei fantasiosi pensieri dell’amante. Ma non poteva rispondergli, sebbene lo desiderasse: era troppo pericoloso, mamma e papà Quasimòdo (l’accentuazione del cognome era piana, il poeta poi la trasformò in sdrucciola quando si trasferì a Roma) erano molto vigili, le sue lettere sarebbero potute finire nelle loro mani. Né Rosa poteva, come avrebbe voluto, confessarsi con Salvatore: lui sì, che era un poeta, avrebbe capito. Ma Salvatore aveva già varcato lo Stretto per guadagnarsi da vivere facendo il geometra.

 

 

D’altra parte Rosa venerava il fratello poeta, di lei più grande di cinque anni. Lo rivelano alcuni brani del suo memoriale: “Di Totò non ricordo che studiasse, ma che leggeva tutto sì. A scuola era bravo, i suoi componimenti il professore li leggeva a tutta la classe”; “una sera papà diede un manrovescio a Totò, che si lasciò scivolare sotto il tavolo e vi rimase. Io mi affannavo intorno a lui, cercando di rialzarlo e consolarlo, parlava di andarsene lontano, ma gli occorrevano soldi. ‘Lavorerò e li guadagnerò’, disse e io piangendo gli offrii i miei gioielli: una catenina e un braccialetto…”.

Con controlli così rigidi era difficile per Rosa ed Elio andare oltre gli sguardi rapinosi e i bigliettini furtivi. Ma l’attrazione di due corpi che si desiderano supera ogni ostacolo: arrivarono anche i primi contatti fisici, timidi e guardinghi, come potevano essere allora tra un ragazzo e una ragazza che si amavano di nascosto. “Le prime tenerezze”, racconta Rosa Quasimodo, “me le rubò sulla soglia di casa, mentre i miei ignari di tutto in quell’ora stavano ad innaffiare le piante e non potevano sorprenderci”.

Rosa, che ormai non aveva altri pensieri che per il suo fascinoso spasimante, si struggeva solitaria nel suo sentimento disperato, che sembrava non avere sbocchi: “L’amore nacque in me, ma per farmi soffrire: era irrealizzabile”. Unico rimedio era la “fuitina”, architettata, come abbiamo visto, a regola d’arte. E dopo, vinte le resistenze di mamma Clotilde, il matrimonio, celebrato senza festeggiamenti il 10 settembre 1927.

Rosa Quasimodo seguì il marito nei suoi spostamenti, prima a Firenze, poi a Milano. Vittorini si affermò come scrittore originale, sia per i contenuti dei suoi romanzi, legati alla realtà vista anche nella sua crudezza, sia per la cifra stilistica, che coniugò l’immediatezza del linguaggio a venature liriche cariche di simbolismi. La sua sensibilità nei confronti dei temi civili lo condusse a partecipare attivamente alla Resistenza e l’acutezza del suo spirito critico ne fece un punto di riferimento del mondo editoriale.

La sorella del premio Nobel per la letteratura e lo scrittore iconoclasta vicino all’universo letterario americano vissero assieme, tra alti e bassi, per ventiquattro anni. Ebbero due figli, Giusto e Demetrio. Ma anche il loro amore, che sembrava refrattario a ogni insidia, era destinato a piegarsi alle leggi del tempo. Durò sino al 1951, anno della separazione.

Elio Vittorini si spegnerà dopo una grave malattia nel 1966, Rosa Quasimodo, rimasta vedova anche del suo secondo marito, il giornalista sportivo Nicola Samarelli, nel 1998.

 

Antonino CangemiGiornalista. Scrittore

Sicurezza e democrazia: c’è il rischio di una deriva autoritaria e repressiva
Roberto Tanisi, sicurezza e insicurezza

Gustavo Zagrebelsky, illustre giurista e già presidente della Corte Costituzionale, in un suo scritto di qualche anno fa, ebbe ad Read more

Società. Ecco cos’è l’advocacy: una formula di relazioni “inclusive e interattive” nei processi decisionali

«Le relazioni pubbliche sono, assai più che la gestione della stampa, un modo di vita». Queste parole di Arthur Page, Read more

Prima che il gallo canti

Recenti casi accaduti a esponenti di governo, e vicende più o meno simili vissute da personaggi di altri versanti politici, Read more

Tradizioni. Capirsi un po’, in mezzo agli altri

Non deve essere semplice avere un padre che dialoga da pari a pari con Bentham e Ricardo. Comporta inevitabilmente un Read more

Articolo successivo
Morte di una grande e storica emeroteca. Lo segnaliamo ai ministri della Cultura e dell’Istruzione
Articolo precedente
Le due culture/ Il pensiero di un critico d’arte e di uno storico dell’arte

Menu