Reddito di base, alla scoperta di una misura necessaria per esistere: l’intervista a Giuseppe Allegri

Genesi di un istituto. Di questa materia discutevano già ai loro tempi Erasmo e Tommaso Moro

Le misure sociali per un’esistenza dignitosa e le loro applicazioni sono tornate al centro del dibattito pubblico con la proposta sull’introduzione del salario minimo, che solitamente viene presentato insieme al reddito minimo. Il ricercatore e docente Giuseppe Allegri (Assegnista di Ricerca e docente a contratto in Diritto pubblico, dell’informazione e della comunicazione presso il Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale di Sapienza, Università di Roma) si occupa da anni di studi sul reddito di base, il cosiddetto Basic Income, cui ha dedicato anche un libro dal titolo Il reddito di base nell’era digitale. Libertà, solidarietà, condivisione (2018): l’obiettivo è saper guardare oltre l’assistenzialismo e mantenere queste misure al passo con i tempi.

Cos’è il reddito di base?

È il riconoscimento di una erogazione monetaria in favore della persona che vive in società: una misura di garanzia per un’esistenza libera e dignitosa. Si suole dire che il reddito di base sia una sorta di diritto di esistenza, un nuovo diritto sociale fondamentale e che dovrebbe essere utilizzato per garantire una vita degna, libera e quanto più felice possibile all’individuo nella società. Ora l’idea del reddito base è in realtà un’idea che risale alla tradizione umanistica europea, in qualche modo ne discutevano e ne scrivevano già Erasmo e Thomas More. Era intesa come una misura necessaria per togliere le persone dal rischio di povertà assoluta, dal commettere furti e reati per vivacchiare. Poi con le rivoluzioni francese ed americana, a partire anche dagli scritti di Thomas Paine (The Agrarian Justice), è stato inteso come un diritto sociale di emancipazione delle classi subalterne e nel Novecento è stato oggetto di discussioni e dibattitiper pensare un Welfare più universale possibile.

Quali sono le differenze con il reddito minimo garantito?

Il reddito di base sarebbe una misura universale ed incondizionata destinata a tutti senza distinzione, né di condizione economica né di contropartita. Mentre il reddito minimo è una misura indirizzata a un segmento di società che si trova in particolare condizione o di povertà lavorativa o di esclusione sociale.

Quindi il reddito minimo è condizionato dalla valutazione delle condizioni dei singoli individui, che si trovano sotto una determinata soglia di condizione economica e richiede controprestazioni da parte del soggetto fruitore.

Il nostro Paese lo ha introdotto solo negli ultimi anni con il reddito di cittadinanza, un reddito minimo di ultima istanza che prevede il dover rispettare alcuni requisiti per accedere alla domanda e quindi la sottoscrizione di patti d’inclusione sociale e lavorativi.

Queste sono le principali differenze tra l’aspirazione ad un reddito di base, universale e incondizionato, e le misure di reddito minimo esistenti in molti Paesi europei a partire già dal secondo dopoguerra.

Cos’è BIN Italia?

Il Basic Income Network – Italia è una associazione che promuove campagne, ricerche e studi in favore dell’introduzione del Basic Income, il reddito di base nella sua versione più universalistica. Il BIN Italia è nato quindici anni fa e rientra nella rete internazionale del BIEN (Basic Income Earth Network), fondata nel 1986 anche sulla spinta di Philippe Van Parijs economista e filosofo tra i maggiori teorici e sostenitori del reddito di base, negli anni Novanta del Novecento in dialogo con André Gorz e John Rawls proprio intorno al Basic Income e alla necessità di ripensare la solidarietà sociale nella crisi della società salariale.

Come si coniuga il reddito di base nell’era digitale?

Innanzitutto c’è il tema della regolazione del capitalismo digitale e di piattaforma, ricordando come Margrethe Vestager, Commissaria UE alla Concorrenza e ora anche vicepresidente della stessa Commissione UE, dal 2014 porta avanti una campagna comunicativa e di richieste di multe e risarcimenti di mancate entrate fiscali nei confronti di Google, Apple, Facebook, Amazon (Big Four dell’acronimo GAFA, con l’aggiunta della M di Microsoft), ma anche di altre multinazionali che agiscono in regimi tendenzialmente monopolistici, come quelli dell’economia digitale di piattaforma. E da diverse contesti, a partire ad esempio dal filosofo Maurizio Ferraris, si parla di “reddito di mobilitazione” da redistribuire a tutti i cittadini d’Europa, tramite quella “accisa sui documenti digitali”, sul trattamento dei Big Data, che proprio l’UE potrebbe imporre ai “monopolisti della rete” GAFA, certo facendo passi avanti anche nel senso di una comune fiscalità di base, progressiva, europea, accompagnata da un vero bilancio continentale. È la centralità del reddito di base come fattore in prima istanza di diffusione e distribuzione nella società di quella ricchezza socialmente prodotta e troppo spesso drenata verso l’alto dell’economia finanziaria digitale, in quelle rendite materiali e immateriali, che impoveriscono il ceto medio e rendono l’attuale capitalismo digitale sempre più monopolista ed “estrattivo” della cooperazione sociale in rete tra le persone. Si tratta insomma di pensare il reddito di base come assicurazione sociale contro la gig economy, l’economia dei lavoretti, del lavoro precario, intermittente, a volte gratuito. Inutile insistere sul fatto che in questa prospettiva, di nuove misure sociali nell’epoca digitale, l’UE, anche come mercato continentale di oltre 400 milioni di persone, potrebbe giocare un ruolo fondamentale.

C’è un paese modello per l’applicazione del reddito di base?

In realtà ci sono solo due casi – difficilmente replicabili – di applicazione del reddito universale incondizionato. Da una parte l’Alaska che concede l’estrazione di petrolio in cambio di un pagamento che serve a finanziare un fondo statale per l’erogazione di un reddito di base di circa 2000 dollari annuali a tutti i cittadini residenti in Alaska. L’altro modello di reddito universale incondizionato, questa volta “estratto” dal gioco d’azzardo, è stato realizzato per diversi anni nella città parzialmente autonoma e postmoderna di Macao in Cina dove una percentuale delle puntate viene trattenuta per poter finanziare un minimo reddito di base.

Quali evoluzioni potrebbero avere queste misure?

Le misure di reddito minimo, presenti nel modello sociale europeo oramai da decenni, possono essere ripensate in una chiave sempre più universalistica, non soltanto come necessaria lotta a povertà ed esclusione sociale. Possono essere intese come strumenti di un nuovo Welfare che restituisca fiducia alle persone nei momenti di difficoltà economica e in generale per investire sulle proprie scelte di vita e dire no ai ricatti del lavoro povero, precario, intermittente. Per porre fine alla corsa al ribasso e alla lotta tra poveri che alimenta intolleranza, nazionalismi, sovranismi e populismi nativisti.

Dobbiamo sempre chiederci come è possibile ripensare le misure di protezione e promozione sociale adeguate ai tempi di vita, lavoro, produzione, etc., tanto più nell’era digitale e (post-)pandemica e in questo senso il reddito minimo può essere inteso come una nuova istituzione, una garanzia di base che non solo protegga dalla vulnerabilità economico-sociale, ma permetta di accompagnare le persone nella ricerca di un’esistenza quanto più libera e dignitosa possibile.

Proprio durante la pandemia ci sono stati dibattiti e proposte per nuove misure di protezione sociale e una parte dell’opinione pubblica europea ha fatto una campagna per il “Quantitive Easing for the people” e non solo per le banche. C’è una Iniziativa dei Cittadini Europei (ICE) per introdurre redditi di base nei 27 Stati UE. La questione sociale delle diverse generazioni di precarie e intermittenti a basso salario è più che mai all’ordine del giorno in Europa, ma le classi dirigenti sembrano non rendersene conto.

 

Francesco FatoneGiornalista

 

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