Cosa resta di una rappresentazione a teatro dopo il qui e ora? Non mi riferisco alla registrazione video che si ricava da una delle repliche da archiviare o per la messa in onda di una sola sera in orari e giorni spesso improbabili su reti secondarie del servizio pubblico. Né mi riferisco all’ovvia e mai aleatoria sensazione di soddisfazione, o esaltazione, o delusione che ci si porta nella testa per giorni e che vale, o fa rimpiangere, il costo del biglietto e le ore impiegate. Mi riferisco proprio a quel che resta di tangibile dopo un incantesimo, se è stato bello, di un’ora e mezza. Provo a spiegare con un esempio. Sabato 18 gennaio a Milano al Teatro Franco Parenti Carlo Cecchi ha recitato la duplice parte dello scrittore Joseph Roth e del suo personaggio Andreas Kartak protagonista del racconto La leggenda del santo bevitore. La replica a cui ho assistito è stata registrata, l’ultima recita c’è stata il giorno dopo. Quel che resta a uno spettatore di una serata come quella, con un grandissimo artista ottantaquattrenne in grado di portare in scena anche l’eredità di ruoli recitati quando era poco più che cinquantenne, è un tesoro da stratificare nel tempo. Ma vado con ordine.
Resta il desiderio di rileggere il libro di Roth da cui Andrée Ruth Shammah ha tratto la drammaturgia da lei diretta per la prima volta quindici anni fa e ora per questo remake, proposto con giusta intuizione a Cecchi per il ruolo dell’ex minatore ed ex galeotto alcolizzato venuto dalla Slesia e finito, in rovina, a vivere per strada.
In verità, la spinta a rileggere la traduzione pubblicata da Chiara Colli Staude per Adelphi nel 1975, e più volte ristampata fino a oggi, del racconto La leggenda del santo bevitore, è un invito esplicito della drammaturgia messa in scena al Parenti: difatti il volumetto verde fa parte della scenografia per l’intera durata dello spettacolo perché lo legge ininterrottamente Roberta Rovelli, in silenzio mentre Cecchi parla, oppure riportando improvvisamente il pubblico alla realtà, declamando ad alta voce passi e perfino note a piè di pagina. La leggenda del santo bevitore è uscito postumo nel 1939 e viene considerato il testamento del tormentato intellettuale ebreo convertito al cattolicesimo Joseph Roth (così nel risvolto di copertina dell’edizione in questione). Ancora molto attuale è la lotta interiore tra le radici ebraiche dell’autore (le stesse della regista Shammah) e la conversione al cattolicesimo, testimoniata nel libro e nello spettacolo dal rapporto a distanza tra Andreas e la statua di Santa Teresa di Lisieux nella chiesa di Santa Maria di Batignolles a Parigi, vicino alla quale il protagonista va a morire cercando di non perdere l’onore pur di saldare un debito contratto enigmaticamente con l’effigie della santa all’inizio della storia. È questa la morale del racconto, per chi ha proprio bisogno di cercarne una: neppure le cadute più spaventose privano della dignità morale, che non coincide con la ricerca spasmodica del possesso del denaro ma, al contrario, con l’uso del denaro come strumento per mantenere intatto un patto stretto in prima istanza con sé stessi.
In scena non compaiono immagini della statua della santa, così l’incanto misterioso della drammaturgia è ancora più fosco; appaiono immagini di luoghi e persone della Parigi degli anni Trenta, insieme a una colonna sonora che immerge nel clima dell’inverno dell’epoca in cui si svolge la vicenda; tra le immagini riconoscibili in mezzo alle suggestioni visive di Luca Scarzella e Vinicio Bordin c’è anche una celebre fotografia solarizzata di Man Ray, Natasha, inquadrata a un certo punto alle spalle del tavolino esterno del bar al quale a volte Cecchi va a sedersi.
Scarzella e Bordin hanno realizzato anche due ologrammi di Andreas e della lettrice che, afoni, fanno quasi le stesse cose nello stesso momento in cui le fanno l’attore e l’attrice: un’espediente di scena che non è piaciuto a tutti i recensori e che a mio parere, invece, moltiplicava efficacemente l’effetto di racconto nel racconto, oltre a replicare un tema letterario e iconografico pertinente, quello del Doppelgänger (cioè il proprio doppio, non un sosia) che tradizionalmente è spesso anche un allusivo presagio di morte per l’individuo a cui è associato.
Cecchi entra ed esce da Andreas segnalando il passaggio da una figura all’altra con due espedienti: scrive la storia su un taccuino nero (forse Moleskine) mentre la racconta al barista, e così ci fa capire che è il narratore; poi adotta una cadenza più strascicata e qualche studiata incertezza di eloquio, come se a volte dimenticasse o sostituisse una parola con un sinonimo per uno dei tanti Pernod di troppo che beve al bar in scena; con la stessa studiata incertezza accenna passi di danza mentre canticchia in francese, facendo sommessamente entrambe le cose con un’eleganza attraente. Non ho letto in nessuna recensione un parallelo con la danza che Cecchi improvvisa, con la simile disincantata autoironia, nel suo cameo in Stealing Beauty di Bernardo Bertolucci (assurdamente tradotto in italiano con il fuorviante limitativo Io ballo da sola), facendo volteggiare e saltellare l’esordiente stupenda Liv Tyler su My Baby Just Cares For Me di Nina Simone. Quando Cecchi si allontana, continuando a ballare come gli pare, incarna lo spirito del tempo che fu, perché di spalle scompare attraverso la stessa porta dalla quale entrano giovani che ballano su un pezzo contemporaneo. Questa magica presenza di Cecchi nel film di Bertolucci è dimenticata nelle voci dedicate a Cecchi, Carlo dalla Treccani (non si tratta, ormai, delle uniche voci imprecise o addirittura ricche di errori dotate del marchio Treccani, spesso affidate a redattori e redattrici non accademici di professione o, se accademici, non ferrati sufficientemente nelle materie loro affidate): in Enciclopedia Treccani e nel Lessico del XXI secolo (2012) neppure coincide l’elenco dei film ai quali Cecchi ha preso parte (tra film fatti per ragioni alimentari e film d’autore, quello al quale Cecchi tiene di più è Martin Eden di Pietro Marcello, stando a una sua dichiarazione recentissima); fa eccezione Morte di un matematico napoletano che ha reso Cecchi noto anche al pubblico che non frequentava i teatri (tra questi quanto sanno, oggi, che è Cecchi l’attore che interpreta Christoph debuttando in televisione nel 2021 nella fiction nazional popolare Un passo dal cielo – I guardiani – stagione 6?). Nelle due voci Treccani l’elenco dei film è praticamente casuale e non esaustivo, il film con Bertolucci manca in entrambi i casi ma è registrata almeno la partecipazione di Cecchi a film diretti da Tognazzi (Ricky) e Comencini (Cristina, madre di Carlo Calenda).
Resta il desiderio di rivedere il film diretto da Ermanno Olmi premiato nel 1988 con il Leone d’oro alla 45° Mostra del cinema di Venezia e interpretato da Rutger Hauer (talmente noto per questo film e per Blade runner che il suo nome emerge all’inizio di uno scambio di battute tra Paolo Sorrentino e Maurizio Lastrico nelle scene migliori della serie Sky Call my Agent). Ma non è con il pur bellissimo ruolo di Hauer per Olmi che si è confrontato Cecchi. Io ho creduto di vedere nel santo bevitore alcuni tratti di un altro bevitore, santificato dopo la morte tragica: a 53 anni Cecchi si calò con sprezzatura nei panni di uno dei maggiori intellettuali antifascisti del Novecento, il geniale professore universitario napoletano, ordinario di Matematica, Renato Caccioppoli, alcolista morto sparandosi un colpo di pistola alla nuca. Cecchi interpretò Caccioppoli nel primo film di Mario Martone, Morte di un matematico napoletano.
Su Caccioppoli esistono alcune biografie, l’ultima delle quali è uscita l’anno scorso per La Nave di Teseo e sta avendo ancora adesso molta fortuna, sia grazie alla promozione che garantisce la casa editrice di Elisabetta Sgarbi sia perché l’autrice è la giornalista Lorenza Foschini, imparentata alla lontana col professore e a lungo volto noto del TG2. La biografia si legge in una giornata (letteralmente) e ha il merito di restituire con rispetto reverenziale gli aspetti salienti della personalità fuori dal comune del matematico; però è percorsa da usi linguistici un poco vieti (per un libro scritto da una donna intelligente) e da luoghi comuni perfino classisti (in una biografia di uno che delle convenzioni se ne è fregato, coerentemente, fino all’autodistruzione). Cito due frasi che stanno nella stessa pagina 50 che Foschini, o un attento editor, avrebbero potuto evitare. La prima riguarda l’uso sessista fortunatamente in regresso della lingua: “Maria Del Re […] sarà la prima donna professore incaricato in una disciplina matematica”. La seconda dipende da una visione superficialmente classista, involontariamente antimeridionale (Foschini è napoletana), del look femminile. Foschini scrive, ugualmente a proposito della professoressa Del Re, originaria di Reggio Calabria: “i capelli neri raccolti in una crocchia, come usavano le contadine”: nel 1930 e nei decenni successivi la crocchia era appannaggio delle contadine calabresi ma anche delle signore ricche, tanto che (per restare nel seminato accademico) la professoressa Paola Barocchi, che è stata una donna di intensa bellezza della quale per generazioni molti di noi sono stati allievi, ha raccolto i capelli in una crocchia per tutta la vita pur non essendo discendente di contadini di Reggio Calabria ma di orafi di Firenze con bottega a Ponte Vecchio.
La migliore opera critica su Caccioppoli mi sembra quindi ancora, in definitiva, proprio il film di Martone, nel quale convivono il gallerista Lucio Amelio, Renato Carpentieri, i giovani Toni Servillo e Anna Bonaiuto e i femminielli della Napoli più autentica che accoglieva Caccioppoli.
Aggiungo che più volte, assistendo alla recitazione di Cecchi sul palcoscenico del Parenti, venivano in mente tangenze coerenti tra momenti del racconto di Roth e momenti della biografia del professore di matematica non legate solo, banalmente, dagli effetti dell’alcolismo. La sera della primavera 1934 in cui inizia il racconto, Andreas ha un’“aria malconcia e miseranda”; non per i casi della vita ma per propria impenetrabile decisione, anche “il signore ben vestito” che avvicina Andreas, innescando il meccanismo che porterà il bevitore a ricominciare a vivere fino a morire della morte “lieve e bella” concessa “ai bevitori”, “aveva deciso di vivere la vita dei poveri fra i poveri. E perciò viveva sotto il ponte”. In una mescolanza atroce e vera dei due ruoli interpretati da Cecchi a decenni di distanza, ricordo che nel film di Martone il professor Caccioppoli a un certo punto della sua esistenza tormentata scompare per provare a vivere la vita dei poveri fra i poveri. Risale al 1933 la richiesta di rintracciare Renato che non dà sue notizie da giorni, né alla famiglia né agli amici né ai colleghi dell’Università di Padova dove in quel momento insegna. Viene ritrovato mentre, con i vestiti luridi, con la barba lunga e senza denaro per propria espressa volontà, dorme su una panchina della stazione di Milano centrale dove viene arrestato per accattonaggio mentre è in stato confusionale ma riesce a rispondere che si trova lì perché voleva vedere come vivono i disperati senza una casa (nel libro di Foschini questo episodio è riassunto alle pp. 59-60). In Morte di un matematico napoletano Cecchi ha recitato questa scena con toccante e altera maestria e qualcosa dello spirito di essa io ho creduto di rivedere il 18 febbraio nel suo Roth/Andreas sul palcoscenico milanese.
“Non era bene vedere coi propri occhi la propria rovina”, commenta Roth a proposito dello sgomento che prova Andreas guardando allo specchio dopo molto tempo il proprio viso alterato dalla propria vita disgraziata. Per non vedere la propria rovina Caccioppoli si libera progressivamente di tutti gli arredi di casa, fino a lasciare solo l’indispensabile: due fotografie, una del matematico Évariste Galois, morto ventenne, e una di Arthur Rimbaud da giovane poeta, insieme al divano sul quale si suicida l’8 maggio 1959 (nel libro di Foschini questi episodi sono alle pp. 221-225, 239-242).
Libri da rileggere, film da rivedere, opere d’arte da riscoprire: ecco cosa resta dopo il qui e ora di uno spettacolo teatrale di alto livello. Un tesoro intellettuale che dovrebbe manifestarsi come tale soprattutto per chi è giovane, come accadeva a me quando, molto raramente, potevo andare a teatro da ragazza e, più frequentemente, guardare qualche spettacolo in televisione. Eppure al Parenti il 18 febbraio c’erano pochissimi ragazzi, perfino pochi miei coetanei. Lo stesso pubblico c’era il giorno dopo per la bella replica della Maria Brasca di Giovanni Testori con una vitalissima Marina Rocco protagonista. Occasioni potenzialmente importanti per chi si sta ancora formando, soprattutto perché il cinema e il teatro post pandemia stanno lavorando molto su sé stessi, proponendo riflessioni dall’interno e remake di regie e drammaturgie storicizzate che quindi permettono a chi non c’era per ragioni anagrafiche di entrare in un flusso storico altrimenti impossibile. Senza contare che entrare in un cinema e in un buon teatro consente di sopportare la vita reale, sopportabile spesso solo se la si seppellisce sotto i libri, la storia dell’arte, il cinema e il teatro e non sotto il “chiacchiericcio fatuo e banale” dei “morti viventi”, come Renato Caccioppoli definiva gli “ottusi borghesi” genitori, zii e nonni di ragazzi che potrebbero crescere in maniera meno fatua di come capita di vedere guardandosi intorno.
Sarebbe bello vedere molti giovani alle repliche della prima regia di Mario Martone dal 2 marzo al 6 aprile al Piccolo Teatro Strehler a Milano: Martone ha scelto Romeo e Giulietta, il dramma sui giovani e da far recitare ai giovani per eccellenza e di certo ci metterà di fronte a una messa in scena, filologica e innovativa, forte anche di una nuova traduzione, con scene di Margherita Palli che si annunciano immaginifiche (qui la scheda dello spettacolo: https://www.piccoloteatro.org/it/2022-2023/romeo-e-giulietta?gclid=CjwKCAiAl9efBhAkEiwA4TorisTWLMVkjuB5wiYHQIymHvV8bDGyuNQBnk97O4Dx5BsTQvAK-6KiuhoCeS0QAvD_BwE).
Quanti ragazzi dai sedici ai trent’anni preferiranno Shakespeare diretto dal regista di Morte di un matematico napoletano, Capri revolution e Nostalgia a un paio di poké (cioè a un paio di ciotole di insalate di riso, rese appetibili da un forestierismo, che vanno forte tra i ragazzi)? Lo constaterò il 12 marzo.
Floriana Conte – Professoressa associata di Storia dell’arte a UniFoggia (floriana.conte@unifg.it; Twitter: @FlConte; Instagram: floriana240877) e Socia corrispondente dell’Accademia dell’Arcadia