In linea di massima, due dei tre partiti della coalizione governativa sono stati in passato favorevoli al regime presidenziale. Fratelli d’Italia lo aveva per bandiera e Forza Italia lo preferiva. La Lega, nonostante le giravolte, pensava a tutt’altro che il presidenzialismo. Adesso, stando assieme in maggioranza nella legislatura in corso, per mano dei loro ministri competenti hanno presentato un disegno di legge costituzionale per istituire il premierato, “la madre di tutte le riforme” nientemeno. I tre partiti hanno dunque cambiato idea tutti e tre. Ciò non vuol dire che adesso la pensino allo stesso modo e convergano verso lo stesso modello costituzionale. Del resto, tres si idem dicunt non est idem.
Il disegno di legge, accolto dallo scetticismo generalizzato della stampa e dai fondati dubbi degli studiosi, già in commissione risulta cambiato per mano degli stessi proponenti ed impastoiato da emendamenti che, per numero e qualità, dimostrano fins de non–recevoir piuttosto che intenti costruttivi. Il premierato a cui tiene il presidente Meloni non è definito neppure nella testa del presidente Meloni, par di capire. A meno che lei intenda semplicemente il principio in sé, cioè un presidente del Consiglio eletto dal popolo, purchessia. Che il presidente Meloni nutra un sostanziale disinteresse per i dettagli risulta dalle insormontabili difficoltà d’incastrare le sue tessere nel puzzle dei Costituenti. Più viene esaminato e discusso, più il progetto risulta mal concepito, mal redatto, mal coordinato. Il perché è di evidenza palmare e presto detto: il progetto costituisce il tentativo di scopiazzare il premierato britannico, il governo del primo ministro.
L’idea di calare, con un semplice innesto istituzionale, una figura come il premier del Regno Unito nel contesto costituzionale della Repubblica italiana è semplicemente una presunzione ottimistica. Nel sistema britannico il Parlamento rappresentativo, la Camera dei Comuni, costituisce il vertice del potere politico, che è nelle mani del primo ministro. Il primo ministro in quanto tale non è eletto dal popolo, che invece lo sceglie al pari di tutti i membri della Camera, ciascuno nel proprio collegio uninominale. Agli eletti compete il prestigioso “MPs”, Members of Parliament.
Il leader del partito vincitore diventa primo ministro per il solo fatto dell’elezione e si presenta al sovrano che ne prende atto. In Gran Bretagna, ecco lo scoglio contro cui s’infrange il premierato Meloni, non esiste il cosiddetto “bicefalismo dell’esecutivo” alla maniera francese, per intenderci, perché il monarca “regna ma non governa”. Il presidente della Repubblica italiana possiede invece reali poteri propri, espliciti ed impliciti (comanda le forze armate, ratifica i trattati, concede la grazia, commuta le pene, presiede il Consiglio superiore della magistratura), sicché è facile prevedere che il presidente del Consiglio eletto dal popolo ne diverrebbe inevitabilmente l’antagonista nel loro esercizio. Verrebbe ad instaurarsi un “bicefalismo di fatto”.
Il nuovo articolo 92 della Costituzione svela l’intento politico del progetto e dei progettisti. La formulazione della norma dimostra che ai proponenti interessa meno il risultato istituzionale che tenere il punto comunque. Il rinvio alla legge elettorale di là da venire tradisce l’improvvisazione non meno delle disposizioni che ingabbiano e irrigidiscono la nascita contestuale delle Camere e del Governo, connessi oltre ragione. Del sistema elettorale connaturato all’elezione diretta del presidente del Consiglio sappiamo soltanto due cose, ciascuna di per sé allarmante: chi prevale nel voto guadagna il 55% dei seggi in ciascuna Camera; il voto è su di un pacchetto preconfezionato di candidati e di presidenti in pectore. Non sappiamo se ci sarà una soglia e quale per ottenere il premio di maggioranza; non sappiamo se e come potremo scegliere i parlamentari; non sappiamo se ci sarà una soglia di sbarramento; non sappiamo se voteremo alla maniera delle democrazie illiberali mediante una sola scheda preformata dalle coalizioni sulla quale saremo liberi di apporre un crocesegno.
Tutto questo, l’aver rinviato a dopo l’approvazione della riforma costituzionale il varo della legge elettorale che vi è coessenziale, parrebbe più che vergognoso, dilettantesco e pericoloso per la democrazia liberale, se fosse ancora a cuore alle forze politiche. Per tali motivi, ed altri ben noti, la legge elettorale avrebbe dovuto precedere, non seguire la riforma costituzionale, come già scrissi qui (“Il premierato à la façon de madame Meloni”, 4 dicembre 2023).
Il nuovo articolo 94 della Costituzione appare più un rompicapo che una disposizione costituzionale, a parte le sconcertanti contorsioni lessicali. Soprattutto le norme costituzionali esigono l’esemplare chiarezza di scrittura, chiarezza che nella formulazione delle norme giuridiche non rappresenta un’estrinseca qualità formale bensì l’intrinseco carattere proprio del vero diritto. Dopo aver esaminato l’art.94 e cercato di capirlo, il lettore domanda a sé stesso piuttosto che ai redattori: “Parlano al popolo o a loro stessi?” Perché usano un italiano bolso e scrivono, per esempio nel terzo comma, “Nel caso in cui non sia approvata la mozione di fiducia al Governo presieduto dal Presidente eletto, il Presidente della Repubblica rinnova l’incarico al Presidente eletto di formare il Governo” anziché “Respinta la mozione di fiducia, il Presidente della Repubblica reincarica il Presidente eletto”?
E ancora: “Qualora anche in quest’ultimo caso il Governo non ottenga la fiducia delle Camere, il Presidente della Repubblica procede allo scioglimento delle Camere”, invece che “Se il governo è sfiduciato, il Presidente scioglie le Camere.” Per civetteria ricordo in proposito a me stesso che il generale De Gaulle, un militare, ripeteva ai legulei che “in diritto l’indicativo tiene le veci dell’imperativo”.
A quanto pare, la sequenza costituzionale, con trama da commedia degli equivoci, prevede che il premier viene eletto (non sappiamo come!) dal popolo con la sua strabordante maggioranza. Il capo dello Stato lo nomina presidente del Consiglio e lo manda con i ministri alle Camere per la fiducia. Se la ottiene, governa per cinque anni; se non la ottiene, si dimette ma viene reincaricato: l’espressione è “il Presidente della Repubblica rinnova l’incarico”, che per De Gaulle significa deve rinnovare ma in lingua italiota non si esclude può rinnovare.
Fin qui la procedura d’inizio di legislatura. Se il premier si dimette in seguito, nel corso della legislatura, “può” essere reincaricato oppure no. Infatti il Presidente della Repubblica è libero di scegliere tra reincarico o nuovo presidente del Consiglio, purché deputato o senatore candidato in collegamento con il premier eletto (un tapino obbligato per Costituzione ad “attuare le dichiarazioni relative all’indirizzo politico e agli impegni programmatici su cui il Governo del presidente eletto ha ottenuto la fiducia”). Se il nuovo premier non ottiene la fiducia ovvero il premier subentrante cessa dalla carica, il Presidente della Repubblica scioglie il Parlamento.
Questa barocca e scriteriata costruzione non è, ovviamente, frutto di sciatteria o d’ignoranza, bensì la necessitata conseguenza della costrizione politica e mentale alla quale sono assoggettati i legislatori per cercare d’avvicinare le inconciliabili posizioni intime dei tre partiti, disinnescarne i profondi sospetti reciproci, mascherarne le preferenze vistosamente differenti, captare qualche consenso delle minoranze, e soprattutto per soddisfare il capriccio del presidente Meloni, fortissimamente intenzionata a sfoggiare comunque il gioiello, sebbene di alpacca o zircone.
Per finire, alle tantissime critiche di varia natura che hanno già demolito la credibilità e la funzionalità del premierato all’esame del Senato, devo aggiungere un’obiezione che mi sovviene connettendo le idee contenute negli articoli di due personalità della scienza e del diritto: “Chat cattiva scaccia Chat buona” di Roberto Battiston (Corriere della Sera, 6.02.24) e “Il ruolo e la garanzia parlamentare” di Andrea Manzella (Corriere della Sera, 4.02.24).
Roberto Battiston, premesso che nel 2024 la metà della popolazione mondiale parteciperà a processi elettorali, ha messo in guardia contro le potenzialità dell’intelligenza artificiale perché i software generativi (chatbot) sono “sistemi interattivi, flessibili, personalizzati e continuamente adattabili all’interlocutore con cui interagiscono in linguaggio naturale, per questo molto più potenti ed efficaci nell’azione di orientamento delle opinioni.”
Andrea Manzella ha rilevato che “nelle attuali condizioni sociali in cui è accertata la facilità tecnica di manipolazione del corpo elettorale, con possibilità di falsificazione persino di immagini e di linguaggi personali, qualsiasi scelta parlamentare è preferibile alla scelta popolare diretta.” E non solo perché, come ricorda lo stesso Manzella, la Costituzione già pone “limiti” alla “sovranità”, ma soprattutto perché “di fronte ad un ‘mondo guasto’ per la banalità del male, apparentemente inarrestabile nell’invasione di menzogne di massa e nell’impunità di chi ha questa signoria di inquinare, l’unico rifugio è nell’intermediazione politica, nei filtri, nel contraddittorio per verificare la verità dei fatti, nell’equilibrio delle coalizioni. In tutto quello cioè che anche un Parlamento, sbilenco e da aggiustare come il nostro, può tuttavia, per il fatto stesso di esserci, assicurare meglio di una elezione diretta ‘a mosca cieca’.”
Dagli articoli di Battiston e Manzella deduco che l’elezione diretta del premier, men che conferire genuinità e intrinsecità alla volontà popolare nella scelta del presidente del Consiglio, lo esporrebbe non soltanto ai rischi tradizionali della demagogia politica e della democrazia diretta, contro i quali il liberalismo eresse il sistema del governo rappresentativo e dei checks and balances, ma pure alle più subdole manipolazioni dei moderni persuasori occulti, già diventate parossistiche ai semplici esordi dell’intelligenza artificiale.
Anche per i pericoli così efficacemente prospettati e ricavabili da Battiston e Manzella, il premierato à la façon de madame Meloni dovrebbe essere consegnato agli archivi parlamentari anziché inserito nella Costituzione in obbedienza agl’idoli del populismo e del sovranismo.