Premierato, On. Meloni forse il semipresidenzialismo…

Meglio affidarsi a un modello collaudato, chiaro, che soprattutto già esiste.

“Ti rivedo alla prossima riunione?”

Questa la domanda che i ministri dei governi italiani si sono sentiti ripetere per decenni dai loro colleghi nelle riunioni internazionali, a vari livelli. Et pour cause!

La domanda non è era infatti un sia pure diplomatico sfottò ma il frutto di un dato di fatto: i governi italiani dal 1948 a oggi hanno avuto vita breve, in media un anno, forse meno. I presidenti del Consiglio del nostro Paese stavano “come d’autunno sugli alberi le foglie”: facili a cadere alla prima tempesta politica. A questa effimera durata dei governi ci sono poche eccezioni in 78 anni di vita repubblicana: De Gasperi, Craxi, Berlusconi.

Da questo quadro eloquente scaturisce una prima forte esigenza: di una certa stabilità del sistema, che si dovrebbe coniugare con la governabilità, anche se le due condizioni non sempre e non necessariamente coincidono. Perché un governo può essere stabile (cioè durare) ma può essere sterile o tirare a campare (meglio tirare a campare che tirare le cuoia, replicò una volta Andreotti, variando la frase dei suoi accusatori). Viceversa, un governo può essere efficace, dinamico, operoso ma non essere stabile e lasciato cadere per dissidi interni.

Dare stabilità e governabilità al sistema (di governo) è quindi una esigenza indubbia

Sarà questa ad aver mosso l’on. Meloni a presentare un progetto di riforma che prevede l’elezione diretta del presidente del Consiglio (che solo allora si potrà chiamare premier, non come ora che per pigrizia viene chiamato in Italia chi guida il governo). La efficacia di questo progetto, par di capire, la si ripone in gran parte nel fatto che il presidente del Consiglio viene eletto DIRETTAMENTE dal popolo, e quindi il suo arrivo a Palazzo Chigi non è soggetto né a camarille, a contrattazioni, o congiure di palazzo, ma viene deciso dal popolo sovrano.

Parrebbe così. Ma vedremo che così in realtà forse non è. Ma intanto andiamo avanti. Un’altra motivazione che sembra essere alla base del progetto del premierato elettivo è quella di voler risolvere un problema annoso, quasi congenito dell’attuale sistema: la debolezza intrinseca dei poteri e attribuzioni che ATTUALMENTE ha il presidente del Consiglio in Italia. I Padri costituenti, molti dei quali avevano vissuto durante il fascismo e fatto la Resistenza – non solo comunisti e socialisti, ma anche cattolici, liberali, partito d’Azione, e monarchici – erano ancora scottati dal regime dell’”uomo solo al comando”.

Perciò hanno depotenziato, diciamo pure circoscritto, i poteri di chi ha la guida del governo, concentrando il baricentro del potere decisionale non sul presidente ma su un organo collegiale, che è il Consiglio dei Ministri. Una prova ulteriore di questo è data, nientemeno, da una questione linguistica: fateci caso: si dice Capo dello Stato, ma nessuno, per indicare il presidente del Consiglio, dice il “capo del Governo”, una espressione usata al tempo del fascismo, l’ultima volta dopo il 25 luglio quando la radio annunciò che il re aveva nominato capo del Governo Pietro Badoglio, al posto di Benito Mussolini.

(Mentre facevo il praticante all’Ansa, fui richiamato un giorno dal vicedirettore, che mi mostrò una notizia scritta da un redattore, dove era segnata in rosso una espressione che io avrei dovuto correggere e invece avevo lasciato: “capo del governo”. É una frase fascista, mi disse, non va usata).

In altre parole, il presidente del Consiglio da solo non decide niente, chi decide è il Consiglio dei ministri che egli presiede. Diciamo anche: nella storia repubblicana questa carica, così delineata nei suoi profili, ha avuto una importanza proporzionale alla statura politica e alla personalità più o meno alta di chi la ricopriva. Alcuni sono rimasti nella memoria: De Gasperi, Fanfani, Moro, Pella, Craxi, Tambroni (per il pasticcio politico del 1960), Spadolini, Amato, Ciampi, Berlusconi,  Monti, Draghi. Di altri si ha uno sbiadito ricordo.

Forattini, per esempio, raffigurava il presidente del Consiglio Giovanni Goria, un bravo ministro del Tesoro che sosteneva di fare le previsioni economiche “a naso” (da cui qualche buontempone dedusse una nuova disciplina: la nasometria) disegnandolo con la sola barba, senza altre fattezze. Ma Forattini da buon satirico era abbastanza monello (Craxi lo raffigurava con gli stivaloni e il mascellone di mussoliniana memoria, Berlinguer in vestaglia di seta che ascolta musica in salotto mentre sotto la sua finestra sfila un corteo di lavoratori).

Il presidente del Consiglio italiano ha dunque poteri minori rispetto ai suoi colleghi stranieri, come se fosse – si è detto talvolta – figlio di un dio minore. Facciamo qualche esempio: se il presidente del Consiglio si accorge che un ministro, pur da lui proposto al presidente della Repubblica, non si rivela all’altezza delle attese, non può cambiarlo. Forse ci può riuscire ma mettendo in campo una offensiva di persuasione, una moral suasion. Ma se non accetta, se resiste, quel ministro resta al suo posto. Certo, in soccorso del presidente del Consiglio che vuole liberarsi di quel ministro può venire l’opposizione o parte della stessa maggioranza, presentando in Parlamento una mozione di sfiducia individuale. Come avvenne con il ministro della Giustizia Filippo Mancuso: che pure sfiduciato dal Senato dalla sua stessa maggioranza, resisté tuttavia fino a fare ricorso alla Corte Costituzionale, che però gli diede torto, e alla fine dovette dimettersi. Ma qui siamo a un caso eccezionale. E comunque ci fu uno sconquasso politico per alcuni giorni e tante paginate di giornali.

Inoltre, il presidente del Consiglio italiano non può, come in altre Nazioni, sciogliere le Camere o andare dal Capo dello Stato e dire: chiedo lo scioglimento delle Camere. Se lo facesse, rischierebbe l’accusa di attentato o di offesa al Parlamento.

Riassumendo quindi: caducità dei governi, scarsi poteri del presidente del Consiglio; rischi di paralisi dell’Esecutivo e dell’azione governativa. Situazioni che durano, con alcune variabili, e alcune parentesi, prima citate, da 78 anni, nonostante almeno quattro tentativi di riforma costituzionale: la commissione bicamerale Bozzi dei primi anni ’80, le due commissioni bicamerali (De Mita – Iotti  e poi D’Alema negli anni Novanta oltre al tentativo di Renzi nel 2016), che prevedevano il cambiamento della forma di Stato e della forma di governo, mediante la proposta di semi presidenzialismo alla francese; o la forma del Cancellierato alla tedesca, una figura forte di premier che può essere sostituito solo se si crea una maggioranza sostitutiva, e in tal caso  verso il Cancelliere uscente si presenta una mozione di sfiducia che si chiama costruttiva, perché non si apre una “crisi al buio” ma c’è subito pronto un nuovo governo e forse un nuovo Cancelliere, se non viene confermato quello uscente. Questo sistema alla tedesca, abbastanza collaudato tanto è vero che è praticato in Germania dalla fine della guerra, garantisce sia la stabilità sia la governabilità.

La riforma di Renzi invece, mentre prevedeva l’abolizione di fatto del Senato, togliendogli il potere di votare la fiducia al governo, non trattava la materia riguardante l’esecutivo, quasi che non ritenesse né necessaria né urgente una riforma di quella parte della Costituzione. E comunque sia, fu bocciato dagli elettori.

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Le crisi di governo “al buio” e le varie e curiose definizioni in 78 anni di Repubblica

In Italia, invece, caduti via via i governi, quasi sempre si sono determinate crisi “al buio”.  Nella cosiddetta prima repubblica a volte le trattative duravano mesi, prima che il nuovo governo si presentasse alle Camere. E se non si trovava la soluzione, allora la fertile fantasia lessicale dei politici italiani creava nuove formule. La più famosa era il “governo balneare”.

Stavolta però i balneari non c’entrano. Si chiamavano così perché a ridosso dell’estate, non trovando la soluzione della crisi, si affidava l’incarico per un governo “estivo”: di solito toccava a Giovanni Leone, un luminare del diritto, presidente della Camera, che doveva lasciare la prestigiosa terza carica dello Stato (durava cinque anni) per assumere un incarico che sarebbe durato sì e no tra quattro mesi (e non era naturalmente previsto il… ritorno alla precedente poltrona). Di ciò va tenuto conto per riconoscere lo spirito di servizio di Giovanni Leone, un galantuomo poi fatto oggetto, da presidente della Repubblica, di accuse ingiuste e di cui solo venti anni dopo i detrattori chiesero scusa.

Una rosa è una rosa, direbbe il poeta, e così un governo dovrebbe essere solo un governo. Invece no, in Italia abbiamo avuto, oltre ai governi balneari, “governi di tregua”, “governi di decantazione”. Poi “governi di emergenza”, della “non sfiducia”, governi di “solidarietà nazionale”, “governi tecnici”, “governi monocolore” (tutti ministri Dc), il governo “amico” (su cui la Dc non si sentiva particolarmente impegnata), il “governo bicolore” (Moro-La Malfa), il governo “giallo-verde” e il governo “giallo-rosso”.

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Governi deboli non durano e sono per giunta poco autorevoli. Dove ci sono governi deboli operano i poteri forti

Quando i governi sono deboli, non solo durano poco e combinano ancor meno, ma sono anche poco autorevoli, e soprattutto poco credibili. Un lusso che un Paese che fa parte del G7 e periodicamente lo presiede non può assolutamente permettersi. Pensiamo all’effetto che fa una situazione di questo genere all’estero, dove probabilmente ragionano così: tanto poi dopo questo governo ne verrà presto un altro e allora aspettiamo a decidere (se i problemi possono aspettare naturalmente). Va da sé che dove ci sono governi deboli (perché rissosi, perché divisi, non importa in questo momento la causa), operano i poteri forti, i poteri dell’economia e della finanza, le multinazionali, e, perché no? anche i poteri occulti.

Se le cose stanno così, sarebbe salutare per la Repubblica una riforma che mettesse fine a questo andazzo ultradecennale sommariamente sopra delineato. Sarebbe la benvenuta una riforma che desse al Governo del Paese un profilo alto, autorevole, durevole, produttivo.

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Ma…

Ma la proposta di premierato elettivo avanzata dall’on. Meloni è ADEGUATA? Risolve i problemi sopra delineati, e da cui si suppone sia partita la stessa proponente?

Vediamo.

Ci sarebbe da segnalare, intanto, un punto debole di partenza: una riforma costituzionale, qual è quella del premierato elettivo, è stata presentata dal governo e non è nata nell’ambito del Parlamento. Non perché, intendiamoci, il governo non possa fare le sue proposte, anche in materia costituzionale, ma non è certo usuale e, al limite, anzi è piuttosto eccentrico. Tutte le proposte di riforma negli anni ’80 e ’90 sono nate da iniziative parlamentari. E allora? I precedenti, si potrebbe obiettare, non sono certamente incoraggianti, e bene ha fatto il governo a presentare una sua proposta. Ma è fallito anche il tentativo, stavolta di un governo (quello di Renzi), di cambiare la Costituzione e un referendum lo ha sonoramente bocciato.

L’on. Meloni, nella sua ostentata sicurezza – che già comincia a essere bersaglio di critiche anche dai suoi stessi alleati- si sente estranea e inattaccabile dalla superstizione e dalla statistica?

L’accenno alla superstizione (il precedente di Renzi) è chiaro. Ma che c’entra la statistica? Invece c’entra, eccome.  La statistica ci dice che il premierato elettivo NON ESISTE in alcun Paese del mondo. Una volta è stato sperimentato ed è fallito: in Israele. Intendiamoci: non c’è nessuna ragione logica per pensare che se è fallito altrove debba fallire anche in Italia. Ma, appunto, è solo un ragionamento logico. Non politico. La politica, la Costituzione, ha le sue ragioni, e costruire o modificare gli assetti costituzionali dello Stato non è un atto di bricolage creativo.

I modelli di Stato e di governo sono ormai tutti noti e sperimentati nel mondo. Esclusi i regimi autocratici e autoritari, che l’on. Meloni è la prima a scartare, i modelli sono: presidenzialismo (all’americana), semi presidenzialismo (alla francese), cancellierato (alla tedesca), repubblica parlamentare (come in Italia).

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Se non bastano le considerazioni fatte finora, vediamo quelle di merito sul premierato elettivo

Il primo difetto è pensare che di un assetto costituzionale dello Stato si possa cambiare un pezzo – una parte, peraltro delicata, che riguarda il Governo – e credere che tutto il resto non ne subisca le conseguenze.

Giorni fa in una conferenza stampa l’on. Meloni, proprio su questo punto, ha rivolto a un giornalista una precisa domanda: mi dica una cosa, una, del progetto di premierato che intacca le prerogative del presidente della Repubblica (è una delle critiche che vengono mosse al progetto meloniano). Quel giornalista forse non si aspettava questo contropiede della presidente del Consiglio, ed è rimasto quasi muto.

Eppure gli argomenti non mancavano e non mancano. In particolare: una figura di premier eletto dal popolo, che diventerebbe il baricentro politico istituzionale del sistema, non rischia di appannare, non rischia di entrare in un rapporto difficile se non in collisione con la figura piramidale dello Stato, cioè il presidente della Repubblica?

Se c’è una istituzione di garanzia, che gode la stima e l’apprezzamento degli italiani, al di là degli orientamenti politici, come attestano anche le periodiche indagini demoscopiche, questa è rappresentata dal presidente della Repubblica. Di più: l’elezione diretta da parte del popolo – in virtù del suggestivo valore dell’articolo 1 secondo comma – darebbe al premier una forza di rappresentanza anche simbolica che finirebbe con l’oscurare la figura del presidente della Repubblica. A cui i Costituenti vollero dare i poteri plurimi che egli esercita con maggiore o minore elasticità, ma sempre nell’alveo della Costituzione, secondo la situazione politica del momento (i cosiddetti poteri “a fisarmonica”).

Sono questi i poteri che la proposta di premierato elettivo vuole cancellare? Sembrerebbe di sì, a dare credito a frasi del tipo: basta con i governi tecnici, o con le escogitazioni fatte dai presidenti negli ultimi anni quando hanno risolto le crisi di governo. Ma proprio a questi poteri a fisarmonica del Presidente della Repubblica pare che voglia mettere la parola fine la proposta del premierato elettivo.

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Due forme diverse di legittimazione, di primo e secondo grado

Fin qui alcune considerazioni cosiddette di cornice costituzionale: si avrebbero due figure con una forza di rappresentanza diversa: l’una eletta dal popolo, l’altra eletta dal Parlamento che a sua volta è eletto dal popolo. Messa così, il presidente della Repubblica avrebbe, al confronto, una legittimazione per così dire di… secondo grado.

Un pasticcio d’immagine. Ma oltre l’immagine, si potrebbero creare le condizioni per una tensione istituzionale tra queste due figure, specialmente se si troveranno di fronte personalità di temperamento (pensiamo al passato duello tra uno Scalfaro e un Berlusconi).

Ma c’è una domanda che vorremmo fare all’on. Meloni: perché non ha presentato direttamente la proposta di presidenzialismo o di semipresidenzialismo? Storicamente, la Destra ha sempre avuto inclinazione per questa forma di Stato e di governo, e il semipresidenzialismo sarebbe sembrata la scelta più logica e soprattutto più funzionale. Non credo che il motivo della non presentazione della proposta del modello semipresidenzialista sia – come qualcuno ha ipotizzato – il fatto che l’on. Meloni “non avrebbe l’età” per fare la presidente come Macron.

In realtà, a giudicare dalle apparenze, l’on. Meloni ha rinunciato a perseguire la via maestra del presidenzialismo o semipresidenzialismo per imboccare una scorciatoia istituzionale, che la insedi di nuovo a Palazzo Chigi, forte del vento favorevole di quest’ultimo anno.

Ma le scorciatoie, come nella viabilità, anche in politica, non sempre sono le soluzioni più facili.

Ma dove poi la proposta di premierato elettivo mostra i suoi difetti e le sue contraddizioni interne e rischi di incepparsi e di inceppare il sistema, è là dove prevede che se il premier eletto dal popolo (scelta che il presidente della Repubblica non potrebbe che ratificare come un notaio) dovesse cadere, non si andrebbe a nuove elezioni (come vorrebbero ragioni di trasparenza così care all’on. Meloni) ma subentrerebbe un altro premier. Una figura che, par di capire, governerebbe senza essere stato eletto dal popolo.

Ma in tal modo non viene smentita in radice, con un singolare e imprevisto autogol, la stessa ragione ispiratrice della proposta di premierato elettivo, che punta tutto sulla elezione diretta del premier?

Inoltre, se questo “secondo premier” dovesse cadere anche lui, solo allora si scioglierebbero le Camere.

In altre parole, sempre se abbiamo capito bene: se cade il governo del premier eletto dal popolo non succede niente, non si sciolgono le Camere; avanti un altro premier (ma se non è stato eletto direttamente, chi lo nomina? il Capo dello Stato, ancora nelle vesti di notaio?)  Se invece cade questo secondo premier, ripetiamo non eletto dal popolo, il Parlamento va a casa.

Sfugge perché sia stato necessario tanto sforzo per produrre un meccanismo così farraginoso e contorto, soprattutto poco funzionale. Un meccanismo che lascia immaginare una possibile sagra di faide all’interno della maggioranza di turno, con tanti saluti alla stabilità e alla governabilità del sistema. Che poi sono gli obiettivi che questa proposta vorrebbe realizzare. Ma sembra una illusione, sia pure coltivata con le migliori intenzioni. E che non può essere alimentata con lo slogan basico anche se di facile presa: gli italiani scelgono direttamente da chi vogliono essere governati. Un antico adagio ammonisce: siate diffidenti quando le cose ve le presentano in modo troppo semplice e facile. Le cose hanno la loro complessità, e vanno spiegate con serena riflessione.

Infatti, e oltretutto, la scelta del premier non è la panacea solo perché è una scelta diretta, e soprattutto il discorso non finisce lì. Gli italiani già scelgono direttamente anche i parlamentari, gli esponenti dei partiti che concorrono alla formazione e alla nascita del governo.

Del governo, non dell’uomo solo al comando.

L’on. Meloni ci ha provato, ce l’ha messa tutta e di questo le va dato atto.

Ma in politica, come nella vita, non è proibito cambiare idea. Forse la presidente del Consiglio ha creduto che bastasse lo slogan: gli italiani scelgono direttamente chi li governa. Ma il principio non basta: bisogna incarnarlo in un modello costituzionale. Che possibilmente sia già stato collaudato e abbia mostrato di funzionare. Questo modello del premierato elettivo è, nella migliore delle ipotesi, una incognita, un azzardo. Per questo, non sarebbe uno scandalo, né l’on. Meoni perderebbe la faccia se dicesse agli italiani: ci ho ripensato, ho preso atto delle tante critiche al mio progetto, non solo dalle opposizioni, che erano scontate, ma anche dall’interno della mia stessa maggioranza. Perciò lo ritiro, e ne presenterò un altro. Chi conosce bene l’on. Meloni è pronto a giurare che non cambierà idea. Ma, come si dice?, mai dire mai. Vale anche in politica

 

Mario NanniDirettore editoriale

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