Per capire l’arte ci vuole una sedia

“Mediocri, ovunque siate, io vi assolvo”: gli artisti, l’invidia, la morte e la fama

"Mediocri, ovunque siate, io vi assolvo": gli artisti, l'invidia, la morte e la fama

Anonimo imitatore di Salvator Rosa, Invidia/Rabbia, olio su tela, cm 49 x 39,5, Roma, Palazzo Spada

 

Attribuito a Salvator Rosa, Invidia, olio su tela, cm 75 x 62, collezione privata

 

F. Murray Abraham nei panni dell’invidioso Antonio Salieri in Amadeus. Regia: Miloš Forman. Produzione: Orion Pictures, The Saul Zaentz Company (USA, 1984)

 

invìdia […] s. f. 1 sentimento di rancore e di astio per la fortuna, la felicità, o le qualità altrui […] SIN. bile, livore | […] nella teologia cattolica, uno dei sette vizi capitali […] 3 senso di ammirazione per i beni o le qualità altrui, unito al desiderio di possederne in egual misura […] SFUMATURE DI SIGNIFICATO. […] L’invidia, in quanto sentimento nutrito da una persona che si ritiene in stato di inferiorità, può tramutarsi in rivalità, ossia in un atteggiamento di competizione e di emulazione.

lo Zingarelli 2022. Versione base. Vocabolario della lingua italiana, Zanichelli 2023

Come Quentin Tarantino in Pulp Fiction, iniziamo con una definizione da un vocabolario premessa alla prima scena, feriale ma che prepara un’esperienza visiva pulp.

Durante la primavera del 1300 due scrittori fanno insieme un viaggio nel mondo dei morti cominciando a visitare l’inferno. Il più anziano e famoso dei due ha cinquantuno anni, è nato vicino a Mantova ed è già morto; il più giovane è un ambizioso fiorentino di trentacinque anni e va all’altro mondo mentre è ancora vivo. Nel girone dell’inferno in cui sono puniti i violenti, i due scrittori entrano in un bosco fitto di sterpaglie (mi è tornato in mente quando, tre giorni fa, ho percorso in auto un tratto della ripida costa di conifere di Vieste ridotta a sterpaglie dall’incendio dello scorso agosto).

Poiché sono stati violenti contro sé stessi commettendo un peccato mortale per la religione cristiana, i suicidi sono puniti con una metamorfosi irreversibile: le loro anime sono state trasformate in piante secche, contorte, senza foglie, e neppure nel giorno del giudizio potranno recuperare i propri corpi. Le piante si lamentano, terrorizzando lo scrittore fiorentino che, su consiglio del collega mantovano, spezza uno sterpo che, sanguinando, comincia a raccontare la sua storia tragica. L’anima imprigionata nella pianta è quella di un potentissimo funzionario imperiale, Pier della Vigna, il portavoce ufficiale dell’imperatore Federico II di Hohenstaufen. La ragione per cui Pier della Vigna si è suicidato suscita compassione nell’animo dei due scrittori (nei quali avrete riconosciuto Virgilio e Dante) e in quello di chi legge questa confessione oggi nel canto XIII dell’inferno.

 

Pietro Senno, Inferno. Canto XIII, in Dante Alighieri, La Divina Commedia nuovamente illustrata da artisti italiani, a cura di Vittorio Alinari, Firenze, Fratelli Alinari Editori, 1902

 

Pier della Vigna ha scelto la morte per non subire più gli attacchi dei cortigiani invidiosi del ruolo guadagnato accanto a Federico II con il proprio lavoro. Talmente terribile è l’effetto dell’invidia sulle sue vittime che Dante ne scrive in una perifrasi lunga tre versi (66-69), facendola recitare al suicida:

La meretrice che mai dal’ospizio

di Cesare non torse li occhi putti –

morte comune, de le corti vizio! – 66

infiammò contra me li animi tutti:

e l’infiammati infiammar’ sì Augusto,

che ‘lieti onor’ tornaro in tristi lutti. 69

I versi di questo monologo significano in italiano moderno: “La prostituta [cioè l’invidia] che tiene sempre i suoi occhi sfrontati fissi sulla corte imperiale – rovina comune di ogni uomo e vizio peculiare delle corti! –  infiammò di gelosia gli animi di tutti i cortigiani; e costoro a loro volta infiammarono (contro di me) l’imperatore, sicché i begli onori (di cui avevo goduto) si convertirono in triste sventura” (uso la parafrasi dei versi 64-69 pubblicata da Claudio Giunta nel bel libro appena uscito Inferno. La Commedia di Dante raccontata da Claudio Giunta, Feltrinelli 2023, p. 114, destinato a lettori dai sedici anni in su). Il potentissimo e fedele segretario imperiale è innocente, quindi preferisce darsi la morte piuttosto che vivere disonorato. Ha un solo desiderio che spera sia soddisfatto da chi tornerà sulla terra:

E se di voi alcun nel mondo riede,

conforti la memoria mia, che giace

ancora del colpo che ‘nvidia le diede. 78

Cioè: “E se uno di voi torna nel mondo, rivendichi la mia buona reputazione, che ancora soffre del colpo che l’invidia le inflisse” (cito la parafrasi dei vv. 76-78 da Inferno. La Commedia di Dante raccontata da Claudio Giunta, Feltrinelli 2023, p. 115).

 

 

Giotto, Invidia, 1305 ca., affresco, 120 x 55 cm, Padova, Cappella degli Scrovegni

 

L’invidia regola una parte consistente dei rapporti sociali e professionali. Dante ha occasione di tornarci su, indirettamente. Lo fa nella cantica seguente, il Purgatorio, nel canto XI noto come il “canto della fama”. Ne sono protagonisti i professionisti che forse più degli altri uomini sono soggetti ai colpi dell’invidia, subita e provata: gli artisti e gli scrittori. Nei versi 79-102 del canto XI Dante crea alcuni dei versi più memorabili nella cantica meno attraente di tutte e tre: “più ridon le carte che pennelleggia Franco bolognese” è magnificamente più evocativo del referenziale “sono più belle le miniature di Franco bolognese”; e: “Non è il mondan romore altro ch’un fiato di vento” è un verso che suona nella memoria come l’inizio di un’aria d’opera di Rossini e vuol dire semplicemente: “La fama non è altro che un venticello”.

Nei versi in questione Dante fa parlare un artista, il miniatore Oderisi da Gubbio, che si trova in purgatorio perché in vita è stato superbo. Pertanto ha nutrito invidia nei confronti dei suoi colleghi e solo ora che è morto riconosce la superiorità di chi è migliore di lui, nominando esplicitamente l’artista che lo ha superato (trascrivo i versi dall’edizione rivista e commentata da Giorgio Inglese in Dante Alighieri, Commedia. Purgatorio, Le Lettere 2021):

“Oh!”, diss’io lui, “non sè tu Oderisi,
l’onor d’Agobbio e l’onor di quell’arte
ch’alluminar chiamata è in Parisi?”.81

“Frate”, diss’elli, “più ridon le carte
che pennelleggia Franco bolognese;
l’onore è tutto or suo, e mio in parte.84

Ben non sare’ io stato sì cortese
mentre ch’io vissi, per lo gran disio
del’eccellenza ove mio core intese.87

Di tal superbia qui si paga il fio;
e ancor non sarei qui, s’e’ non fosse
che, possendo peccar, mi volsi a Dio.90
[…] Non è il mondan romore altro ch’un fiato
di vento, ch’or vien quinci e or vien quindi,
e muta nome perché muta lato.102

Cioè: “Oh!, dissi io [Dante] a lui, “ma tu sei Oderisi, il vanto di Gubbio e di quell’arte che a Parigi è chiamata “enluminer” [la miniatura gotica]?”. “Fratello”, egli disse, “sono più belle le miniature di Franco bolognese: ora è lui il vanto di quest’arte e io lo sono solo in parte. Di certo non sarei stato così generoso nel riconoscere la bravura altrui quando ero vivo, a causa dello sfrenato desiderio di eccellere al quale aspirò il mio animo. Qui si paga il prezzo per tale superbia; e non sarei qui se, quando potevo scegliere se continuare a peccare, non mi fossi rivolto a Dio. La fama non è altro che un venticello, che va da una parte all’altra, e cambia nome a seconda del punto cardinale da cui spira”. La fama, insomma, non dipende dalla qualità assoluta di un artista e di uno scrittore, ma dalle circostanze.

Con il monologo del miniatore, Dante annette agli artisti e agli scrittori il primato nel peccato di superbia, che si porta dietro quello dell’invidia. Subito dopo, infatti, (vv. 94-99), Oderisi da Gubbio enumera una vera e propria genealogia di artisti e scrittori in competizione creativa, tra i quali ci sono Cimabue, Giotto e (in forma allusiva) Dante stesso.

Alla tradizione letteraria in italiano facente capo alla Commedia risale dunque la trattazione del tema dell’invidia che, in quanto peccato capitale, mette in crisi i fondamenti della vita associata tra gli artisti. Il tema dell’invidia ricorre nella pratica e, di conseguenza, nella letteratura artistica. È  considerata sempre infamante a tal punto da richiedere di essere ripetutamente ricusata in versi e in pittura, fino all’approdo alle prime biografie di artisti italiani scritte non in latino ma in italiano, le Vite pubblicate nel 1550 e nel 1568 dall’artista scrittore Giorgio Vasari: questi usa spesso in diverse biografie delle Vite l’espediente narrativo della competizione, tra “sette” di artisti o tra singoli artisti che si invidiano. Vasari dedica perfino un soffitto della propria casa ad Arezzo alla rappresentazione dell’invidia che, spesso, prevale sulla fortuna (o fama) e sulla virtù, e viceversa, a seconda del punto di vista da cui l’osservatore guarda l’affresco.

 

Museo Casa Vasari Arezzo, Sala del Trionfo della Virtù © SABAP per le province di Siena Grosseto e Arezzo. Foto: Alessandro Benci

 

Dall’invidia scaturisce il più famoso processo penale della storia dell’arte: quello per diffamazione intentato tra agosto e settembre del 1603 da Giovanni Baglione contro Caravaggio, che aveva diffuso fogli volanti con versi ingiuriosi sulle qualità artistiche di una Resurrezione e soprattutto di un Amore divino che vince l’Amore profano dipinti da Baglione rispettivamente per la chiesa romana del Gesù e per il cardinale Benedetto Giustiniani.

 

Giovanni Baglione, Resurrezione di Cristo, olio su tela (bozzetto della pala perduta per l’altare del transetto destro della chiesa del Gesù a Roma), 1603, 86 cm x 56,5 cm, Parigi, Musée du Louvre, inv. RF 1964-28

 

Giovanni Baglione, Amore divino che vince l’Amore profano, 1602, olio su tela, 183,4×121,4 cm, Berlino, Gemäldegalerie

 

Nella causa sono coinvolti i colleghi amici di Caravaggio: Orazio Gentileschi, Onorio Longhi e Filippo Trisegni e (come delatore degli amici) Tommaso (detto Mao) Salini. La deposizione di Giovanni Baglione premessa ai componimenti allegati agli atti del processo risale al 28 agosto 1603 ed è eloquente sulle ragioni che hanno spinto i pittori rivali a comporre testi infamanti (le carte processuali sono custodite presso l’Archivio di Stato di Roma e, per i feticisti e gli studiosi, le riproduzioni parziali di due componimenti sono visibili qui: https://archiviodistatoroma.beniculturali.it/it/247/il-processo-del-1603_-i-documenti.

Io ho potuto studiare l’intero faldone grazie alla competente disponibilità del personale dell’Archivio, in particolare di Angelo Restaino e Paola Ferraris):

“havendo io fatto et depinto un quadro della resurrettione di Nostro Signore al Padre Generale della Compagnia di Giesù, quale serve in una cappella della chiesa del Giesù, dopo essersi scoperto detto quadro che fu questa Pasqua di resurrettione prossima passata, li detti querelati, per invidia, perché loro pretendevano, dico detto Micalangelo [Caravaggio] pretendeva farlo lui, perciò esso Micalangelo per invidia (come ho detto) et detti Honorio Longo et Horatio, suoi amici et adherenti, sono andati sparlando del fatto mio con dir male di me et biasimare l’opere mie, et in particolare hanno fatto alcuni versi in mio dishonore et vittuperio et datili et dispensatili a più et diverse persone, quali sono questi che io vi essibisco, i quali l’ho avuti da messer Tommaso Salini pittore et (per quanto m’ha detto) l’ha avuti da Filippo Trasegno, puro pittore, et che una parte di detti versi detto Filippo li scrisse in sua presentia, che sono questi che comincia: “Giovan Bagaglia” et fenisce: “et della pittura vittuperio”, et quel’altri sono questi in questo quarto foglio che comincia: “Gioan Coglione” et fenisce: “altrimenti ei saria un becco fottuto”.

Caravaggio avrebbe voluto accaparrarsi la commissione della pala invece assegnata a Baglione e scoperta in pubblico il giorno di Pasqua del 1603. Mosso da invidia, Caravaggio ha confezionato con gli amici pittori insulti diretti a colpire la sfera professionale e quella privata di Baglione: “insulto della pittura”, “Giovan coglione”, “fottuto cornuto” (non c’è quasi bisogno della versione in italiano moderno). Tutti i pittori querelati avrebbero contribuito a comporre e a diffondere componimenti di vituperio a volte in endecasillabi rimati, a volte in prosa; in un caso recano una patina di italiano regionale settentrionale (verosimilmente lombardo) tale da fare credere che certi insulti siano stati ideati, o dettati, da Caravaggio a Orazio Gentileschi (stando alla grafia). Eccone uno stralcio:

A Giovani dipintore.

[…] Ma di te e de le tue ricetze mi rido! Voria un servitio da te: che a quela chatena che tu porti al colo ci atacasi una coratela che farebe ornamento uguale a la tua grandetza.

Cioè, in italiano moderno: “A Giovanni pittore. […] Ma io me la rido di te e delle tue ricchezze! Vorrei che mi facessi un favore: a quella catena che porti al collo attacca una coratella [cioè le interiora di agnello o di altro animale commestibile di piccola taglia] che sarebbe identico ornamento della tua grandezza”.

Ecco gli insulti in uno dei componimenti in rima:

Si sa pur il proverbio ch(e) si dice:
“ch(e) chi lodar si vuole si maledice”.
[…] Si io mettermi volesse a ragionar
delle sciaure fatte da questui,
no(n) bastarian interi un mese o dui.
Vieni un po’ qua, tu ch(e) vò’ biasimare
l’altrui pitture et sai pur ch(e) le tue
si stano in casa tua a’ chiodi ancora,
vergognandoti de mostrarle fuora.
Infatti i’ vo’ l’impresa abandonare,
ch(e) sento ch(e) mi abonda tal materia,
massime s’intrassi ne la catena
d’oro che al collo indegname(n)te porta,
ch(e) credo certo (meglio), se io non erro,
a’ piè gliene staria una di ferro.

Cioè: “è ben noto il proverbio che dice: “chi si loda s’imbroda” [come diremmo oggi]. Se io volessi mettermi a parlare delle schifezze dipinte da costui, non basterebbero uno o due mesi interi. Vieni un po’ qua, tu che vuoi denigrare i quadri altrui nonostante tu sappia che i tuoi stanno ancora appesi ai chiodi in casa tua [vale a dire: non si vendono], perché ti vergogni di mostrarli. Adesso abbandono l’impresa, perché sento che avrei ancora tante cose da dire, soprattutto se parlassi della catena d’oro che porta indegnamente al collo, perché credo certo, se non sbaglio, che gli starebbe meglio una catena di ferro ai piedi [cioè, un ceppo da galeotto].

Caravaggio, Gentileschi e compagni ingaggiano, scrivendo, una lotta di potere con Baglione perché questi, oltre ad essersi accaparrato ottime commissioni, aveva ricevuto anche il vistoso compenso di una catena d’oro che evidentemente il pittore amava ostentare in pubblico.

Il processo del 1603 istruisce sui corsi e ricorsi della fama. Caravaggio (oggi noto a chiunque come il pittore più famoso di tutti i tempi) era roso dall’invidia perché Giovanni Baglione (oggi noto praticamente solo agli storici dell’arte) era richiesto, pagato e noto più di lui. Del resto, Caravaggio forse non avrebbe acquisito una fama così imperitura se si fosse limitato a dipingere senza diventare un omicida preterintenzionale fuggiasco per mezza Italia. Tenendo conto allo stesso modo di fatti professionali oggettivi, la pittrice di modeste doti Artemisia, figlia del talentuosissimo ma meno famoso Orazio Gentileschi, non avrebbe oggi quotazioni importanti alle aste internazionali e pubblico adorante alle mostre se (per sua disgrazia) non fosse stata stuprata dall’amico e collega del padre, il violento Agostino Tassi.

Va notato infine che, perfino per chi è più abituato a creare immagini che parole, la denigrazione passa prevalentemente attraverso la scrittura (non è forse così anche oggi sui social media?), perché per tale via l’insulto si diffonde più facilmente e richiede minore dispendio economico e temporale.

È significativo dunque che a Roma, nello stesso secolo di Caravaggio e qualche decennio dopo la sua morte, un artista poeta di mestiere ed esperto di recitazione come Salvator Rosa affidi alla poesia e alla pittura denigratorie la risposta agli invidiosi che lo hanno diffamato come poeta. Rosa infatti sperava di acquisire fama con la pubblicazione (mai avvenuta in vita) delle sue satire in terzine, il metro usato da Dante nella Commedia. Aspirava ad entrare nelle accademie letterarie e ci riuscì anche.

Per acquisire fama come poeta cominciò precocemente a fare l’attore, recitando in commedie e declamando personalmente in un composito italiano regionale i suoi versi davanti a un pubblico di importanti letterati, alti prelati, danarosi collezionisti. Che spettacolo curioso devono essere state quelle letture! Le fonti contemporanee raccontano di un Rosa che gesticolava animatamente, con caricata mimica facciale, recitando ad alta voce con inflessione napoletana intrisa di fiorentino e di romano (era cresciuto a Napoli, aveva vissuto a Firenze nove anni, fu per tutta la vita amico di accademici della Crusca, trascorse la maturità a Roma).

La recitazione pubblica a Roma di una delle satire durante un’adunanza dell’Accademia degli Umoristi provocò a Salvator Rosa fastidi piuttosto seri. La satira era dedicata proprio all’invidia ed era strutturata come un dialogo tra l’autore e la personificazione dell’invidia. Il poeta, attore, scenografo, pittore, incisore scrisse la satira in difesa della legittimità della poesia creata dagli artisti e, ovviamente, della propria in particolare. “Quella son io, che rapida mi volgo / là dove alberga la dottrina e il senno”, cioè: “io sono quella che arriva subito là dove ci sono sapere e ingegno”, spiega la personificazione dell’invidia all’autore, rivelandosi a lui: l’invidia si precipita dove c’è talento, non dove ci sono ignoranza e mediocrità.

Rosa pensò a questi versi per rispondere pubblicamente a un’accusa infamante, quella di plagio, confezionata dagli accademici Umoristi: poiché Rosa si guadagnava da vivere come pittore, pur essendo istruito e capace di comporre versi tanto da essersi guadagnato l’ammissione tra gli Umoristi, gli accademici dicevano in giro che le satire erano opera del fratello sacerdote-scrittore di Rosa, o che l’artista le aveva sottratte con l’inganno all’amico predicatore domenicano napoletano Reginaldo Sgambati.

Nel maggio e nel febbraio 1654 Rosa reagì anche “mettendo in satira la pittura”: chiese con insistenza all’amico Giovan Battista Ricciardi (erudito grecista diventato poi professore universitario a Pisa) suggerimenti letterari per realizzare un quadro raffigurante l’invidia. Il quadro deve essere stato il modello di una delle due tele riprodotte all’inizio di questo pezzo. I quadri forse rappresentano sotto le sembianze dell’invidia il letterato Agostino Favoriti, autore delle più violente calunnie divulgate dagli Umoristi e dileggiato da Rosa nella satira sull’invidia anche per le sue sembianze respingenti.

Insieme all’amore, l’invidia e l’odio che da essa consegue sono i sentimenti che hanno dato maggiore linfa alla creatività di poeti, romanzieri, sceneggiatori e registi: in un canone ideale, insieme alla Commedia di Dante stanno il Conte di Montecristo di Alexandre Dumas, il dittico Illusioni perdute e Splendori e miserie delle cortigiane di Balzac, i film Amadeus, diretto da Miloš Forman, e Se7en, diretto da David Fincher.

 

Copertina di Hildur Guðnadóttir, TÁR. Colonna sonora del film con opere di Guðnadóttir · Mahler ·Elgar. Esecuzione: Hildur Guðnadóttir, Cate Blanchett, Sophie Kauer, London Contemporary Orchestra, London Symphony Orchestra, Dresdner Philharmonie. Deutsche Grammophon, October 21, 2022

 

L’opera artistica più recente che ha l’invidia come motore dell’ascesa e caduta della protagonista è il film Tár (Cate Blanchett, da tempo una delle maggiori attrici in circolazione, avrebbe meritato l’Oscar). Blanchett interpreta magnificamente Lydia Tár, una direttrice d’orchestra lesbica di natali modesti e cresciuta fuori da ogni schema: è troppo brava, troppo bella, troppo esplicitamente sicura di sé, troppo politicamente scorretta, troppo desiderata, troppo felice, troppo ricca, troppo famosa. Non le si perdona di occupare sempre il podio, letteralmente e metaforicamente.

 

Adam Gopnik e Cate Blanchett recitano una versione fittizia del New Yorker Festival nel film Tár. Regia: Todd Field. Produzione: Standard Film Company, EMJAG Productions (USA-Germania, 2022)

 

Il film inizia con un dialogo pubblico con un giornalista, in cui subito si mette in chiaro che la poliedricità suscita fastidio se non fa rima con “superficialità”:

Lydia Tár: «Nel mondo di oggi “varietà” è una parola oscena. Insomma, la nostra è un’epoca di specialisti e se cerchi di fare più di una cosa… ecco… spesso ti guardano male».

Giornalista: “Ogni artista viene etichettato”.

Lydia Tár: “Oh, certo. Purtroppo succede spesso”.

Al posto di Tár riesce alla fine a installarsi un uomo invidioso, naturalmente mediocre, che ha sempre cercato di carpire i segreti professionali di lei. Tár, insomma, è una parabola sull’invidia che spetta a chi sale su un podio con le sole proprie forze.

“Mediocri, ovunque voi siate, io vi assolvo”: con la benedizione grottesca dell’invidioso più famoso del cinema, il musicista Antonio Salieri (un F. Murray Abraham da Oscar), si chiude il film Amadeus. Infatti la morale delle storie raccontate finora è che bisogna guardarsi dai mediocri fieri di esserlo, spesso rosi dall’invidia perché non sanno fare ciò che richiede l’esercizio del talento, relegando con le maldicenze quello altrui a una dimensione “oscena”, come la definisce Lydia Tár (Tár, come Pier della Vigna, non fa una bella fine e rinasce a nuova vita in un altro mondo, perché la passione per l’arte coincide con il suo stesso restare in vita. Ma questa è un’altra storia, anzi, un altro spoiler, per chi non ha ancora visto il film).

Floriana ConteProfessoressa associata di Storia dell’arte a UniFoggia (floriana.conte@unifg.it; Twitter: @FlConte; Instagram: floriana240877) e Socia corrispondente dell’Accademia dell’Arcadia

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