Come Marcel Duchamp e Mario Schifano, Tommaso Ragno bada con cura alla definizione di ‘artista’ perché la parola è svuotata di senso. Ma di un vero artista si parla, che si gioca le carte di una lingua ormai tutta sua, capace di scale variegate come la sua faccia e i suoi occhi percorsi opportunamente dai segni del passato e pertanto sempre meglio al servizio dei ruoli che sceglie, mai monocordi. Ragno è impenetrabile come una statua fatta di legno di montagna in Vermiglio di Maura Delpero (che corre per rappresentare l’Italia agli Oscar. L’ho recensito qua: https://beemagazine.it/per-capire-larte-ci-vuole-una-sedia-nuovo-cinema-di-poesia-vermiglio-dalla-mostra-di-venezia/); a Venezia Ragno era anche Papacena in Iddu di Piazza e Grassadonia; a Cannes ha portato Garibaldi (in L’abbaglio di Andò); al Festival del cinema di Roma è stato un cinico proprietario di una fabbrica di statue che rifugge la bellezza per inseguire il mercato (in Arsa dei Masbedo), ma anche un ex medico umanista intabarrato in un cappotto cammello come Delon professore di Storia dell’arte per Zurlini (in L’isola degli idealisti di Elisabetta Sgarbi), e pure una voce che cura e imprigiona (in Luce di Luzi e Bellino); al Torino Film Festival ha portato un fascista dagli occhi di ghiaccio sospesi su un fiammifero, come quelli di un avventore notturno del Bar Jamaica in uno scatto di Ugo Mulas (in Europa centrale di Gianluca Minucci).
Rivedo Ragno nella città dei fantasmi, Milano (qua ha studiato recitazione), nel suo elemento amniotico, il teatro: nella Sala Blu del Franco Parenti dal 26.11 al 1°.12 ha interpretato lo scimpanzé Pietro il rosso, protagonista di Una relazione per un’Accademia, dal racconto di Kafka caro a molti attori ma spesso strappato alla sua veridica essenza emotiva e carnale. Chi si aspetta uno spettacolo o un recital – travisando il leggio e il trespolo in scena– merita di precipitare nel disorientamento. Dal debutto nel gennaio 2023 a Roma al Teatro Argot, questo assolo è cresciuto per la considerevole temperatura performativa attribuitagli da un artista che in esso si rivela e si cela e che tatua sul pubblico il senso profondo del testo.
Regia e scenografia sono prive di fronzoli: leggio e sedile, due tubi al neon blu, dei fari cangianti; costume e accessori sono alla moda del 1917, ad eccezione della montatura degli occhiali e delle sneakers Nike di pelle nera (non vezzi alla Marie Antoinette, ma ovvi strumenti che una scimmia che recita e tiene conferenze deve usare contro la presbiopia e per saltare con gli ammortizzatori, alla maniera degli uomini). In assenza di orpelli, la performance attoriale è ironica, triste, leggera, grottesca. Ragno tiene lontano magistralmente ogni rischioso sentimentalismo. In un’ora e un quarto circa compone un mosaico di grugniti, sussurri, esplosioni di fracasso infantile e di tenerezza belluina, di arrampicate che non finiscono da nessuna parte, di posture impossibili: non sta mai davvero seduto sul sedile (rigido, sottile, alto, scomodissimo come in un design minimalista) né usa mai davvero il leggio; l’uno e l’altro fungono da trespoli, bilicandolo tra la natura di animale e il ruolo antropomorfo.
L’assolo ha spiccati elementi performativi, quindi c’è posto per i liquidi organici, per i rumori del corpo, per l’improvvisazione. C’è tanto sudore, di quel genere che Carmelo Bene riteneva avere in comune solo con Vittorio Gassman, l’interprete che fece di Una relazione per un’Accademia la propria confessione autobiografica; c’è tanta saliva, perché se le scimmie imitano bene gli uomini sputano senza ripulirsi; in un paio di recite c’è un accenno di rigurgito del pranzo fuori orario e Ragno è pronto a rimettere il corpo sotto controllo, sublimando il suono a “recrudescenza stanislavskijana”: si tratta di una delle poche e azzeccate deroghe al testo di cui ho preso nota tra Roma e Milano. Ragno conosce bene il tedesco ed è stato in grado di lavorare anche sul testo originale, che varia, di pochissimo, in certi punti cruciali a ogni replica, in modo direttamente proporzionale a quanto l’artista scompare progressivamente dentro al personaggio e a quanto il pubblico aderisce al patto con lui: così una sera un coro completa la battuta ricorrente 14 volte (“una via d’uscita”), come in un concerto rock.
Aggiungete i residui di bolo di una banana ingollata come può fare una scimmia più umana degli uomini o un uomo che se ne frega delle buone maniere, ed ecco che le macchie sui risvolti della giacca aumentano di sera in sera; quel che resta di questa bacca gialla che è una delle icone concettuali nella storia dell’arte del ’900 (da Warhol ai Velvet Underground a Schifano) diventa l’idolo (giallo come il vitello d’oro, ma commestibile) di una scomposta danza propiziatoria che omaggia Kubrick e da cui Pietro sta per rinascere davvero uomo. Ma il tempo a disposizione finisce e un silente impresario riconduce la scimmia alla realtà.
La storia della scimmia stella dei palcoscenici nell’Europa del primo ’900 è verosimile: le bestie venivano cacciate per popolare gli zoo, anche assiduamente frequentati dagli artisti che ritraevano animali. Quando Pietro racconta di avere rimediato due ferite al volto e all’anca dai cacciatori della ditta tedesca Hagenbeck, non mente: il Tierpark Hagenbeck di Amburgo ha una importante collezione di animali e da lì la marchesa Luisa Casati il 24 aprile 1924 fa inviare a d’Annunzio la tartaruga gigante Carolina che, ribattezzata tautologicamente Cheli, crepa per indigestione da tuberose nei giardini del Vittoriale.
Alcuni scimpanzé diventano davvero divi dei cabaret e del cinema. Peter, omonimo del Pietro kafkiano, dopo avere acquisito fama alle Folies-Bergère e al Palace Music Hall, nel 1909 intraprende una tournée americana e il professore di psicologia Lightner Witmer la studia; dal giornale germanofono Bohemia si sa che questo “Wunderschimpanse” nel 1913 si esibisce proprio nella città di Kafka, Praga. Alla scimmia Consul il supplemento per ragazzi di un altro quotidiano di Praga in lingua tedesca, il Prager Tagblatt, attribuisce un diario autobiografico del viaggio da primate felice nella giungla a infelice artista di varietà. Una scimmia ugualmente chiamata Consul ha successo in un film che incuriosisce Eleonora Duse.
Era ovvio per i contemporanei di Kafka che la stregoneria che permette la metamorfosi della scimmia fosse l’atto della recitazione che accomuna animale e attore. Il virtuosismo artistico è la via d’uscita per sopravvivere, a costo di sorvegliarsi “da soli con la frusta e, alla minima resistenza”, straziarsi “le carni” per restare in parte.
Quando arriva la tirata contro i critici inconsapevoli dell’identità arte-vita a cui gli artisti finiscono spesso per essere costretti dall’ingranaggio della fama, l’oratore vuota il sacco, e non sai più se a parlare di sé è la scimmia o l’attore:
“Di recente ho letto un articolo di uno qualsiasi di quei 10.000 farabutti che chiamano ‘critici’ che scrivono sui giornali la loro, cioè che la mia natura scimmiesca non sarebbe ancora del tutto repressa. Lo dimostrerebbe il fatto che, quando arrivano degli ospiti, a me piace togliermi i pantaloni davanti a loro. Io, sì, io, posso togliermi i pantaloni quando mi pare e piace. Non vi si troverà altro che una pelliccia ben curata e la cicatrice lasciata […] da un colpo scellerato. […] Non c’è nulla da nascondere. Quando è in gioco la verità lo spirito nobile si spoglia delle raffinatezze della buona educazione. Se fosse quello scribacchino a calarsi i pantaloni quando arrivano degli ospiti, la cosa avrebbe tutt’altro sapore […] e sono pronto a riconoscere come segno di ragionevolezza che egli se ne astenga. Ma allora, che mi stia alla larga coi suoi insegnamenti di buona educazione!”.
Non si tratta di una performance di Antonio Rezza, quindi Ragno non si cala i pantaloni in scena. Ma i cambi di intonazione e i muscoli sotto la maschera trasmettono, ambiguo, il messaggio: chi partecipa al gioco dell’arte non imponga regole esterne all’ingranaggio.
Consapevole che un crinale da segnare ci fosse, disse la sua Lea Vergine: “L’arte non è una religione, né una faccenda per persone perbene. Le cosiddette persone perbene si astengano dal partecipare e dal giudicare, nessuno le obbliga”.
Sulla propria pelle (al pari di molti di noi e al pari di Pietro), la critica che per prima storicizzò l’arte fatta col corpo sperimentò che l’arte in ogni sua forma forniva l’unica via di uscita dalla ritualità omicida della “buona educazione”.
* Una relazione per un’Accademia è in tournée il 7.12 a Volterra, Teatro Persio Flacco; l’8.12 a Monte San Savino, Teatro Verdi; il 12.12 a Bologna, LabOratorio di San Filippo Neri; dal 17 al 19.12 a Genova, Teatro della Tosse.
Prima del debutto di Una relazione per un’Accademia Tommaso Ragno dialogò con me per un testo a cui premisi qualche dato storico: https://beemagazine.it/una-relazione-per-unaccademica-tommaso-ragno-racconta-a-floriana-conte-le-metamorfosi-di-un-attore/).
Floriana Conte – Professoressa di Storia dell’arte a UniFoggia (floriana.conte@unifg.it; Twitter: @FlConte; Instagram: floriana240877) e accademica dell’Arcadia