Nel 1845 a Copenaghen una pastorella e uno spazzacamino che lavorano nella stessa casa si innamorano. Il nonno della pastorella non approva l’unione perché progetta di sposare la nipote a un repellente grande ufficiale e comandante in capo. I due innamorati scappano di casa ma poi tornano indietro perché la ragazza non è mai uscita e ha paura del mondo esterno. Un imprevisto li aiuta: il nonno nel frattempo ha avuto un incidente che, lasciandolo completamente muto e immobilizzato, gli impedisce di esprimere assenso o diniego all’unione. Perciò i due ragazzi possono vivere in pace il loro amore fino alla morte.
Questa storia non avrebbe niente di speciale se i suoi protagonisti fossero umani. Invece ad amarsi, a soffrire e a morire andando in pezzi sono tre figurine di porcellana e una scultura di legno intagliato. Per la precisione, i due giovani sono di porcellana contemporanea, il nonno è di porcellana cinese, il satiro è di mogano. Hans Christian Andersen nella fiaba La pastorella e lo spazzacamino ha immaginato animati gli arredi antichi (un satiro intarsiato a rilievo al centro di un armadio di mogano e una statuetta di porcellana che rappresenta un vecchio cinese) e contemporanei (la pastorella e lo spazzacamino di porcellana danese) di una casa danese del 1845. Poiché la porcellana cinese ha fama europea fin dal Medioevo di Marco Polo, per ragioni anagrafiche e come suggerisce l’iconografia, l’inflessibile nonno cattivo è probabilmente di antica porcellana cinese che, a causa della riparazione dei pezzi in cui si è frantumata, non può più muovere la testa come faceva prima. È del tutto naturale, invece, che due ragazzi innamorati siano fatti di giovane porcellana danese, non di antica porcellana cinese: dal 1775 anche la Danimarca ha una fabbrica nazionale di porcellane come altri paesi europei grazie alla fondazione della Royal Copenaghen.
A partire dalla diffusione in Europa di bevande calde come il caffè, la cioccolata, il tè, anche la porcellana entra con maggiore sistematicità nella vita degli europei agiati grazie a varie fabbriche che, progressivamente soprattutto dal Settecento, producono oggetti e anche opere d’arte. Così attorno a La bottega del caffè Carlo Goldoni può ambientare nel 1750 una delle sue commedie più importanti. Così una tazzina sottile colma di caffè fumante può fare il suo ingresso nelle nature morte degli artisti più raffinati, come accade sui soffusi palcoscenici domestici dei quadri vellutati di Chardin.
Nel secolo di Cagliostro, che finì i suoi giorni recluso nella fortezza di San Leo perché aveva millantato di sapere trasformare il piombo in oro, la metamorfosi di una miscela di terre in un oggetto traslucido, risonante e più costoso dell’oro sembrò agli europei la tangibile realizzazione della magia della trasformazione alchemica. Si consolida in questo periodo la straordinaria fortuna europea dell’”oro bianco”, la porcellana, viva e presente fino a oggi e, ancora qualche volta, oggetto dai misteriosi poteri nelle opere d’arte.
Dalla pittura alla pellicola, capita alla fine di un film famoso come I soliti sospetti: è di porcellana Kobayashi il coccio della tazza sfuggita di mano all’agente di polizia David Kujan (Chazz Palminteri), che grazie al logo sul frammento trova la soluzione decisiva dell’enigma investigativo.
Fino al 19 febbraio 2024 al Museo Poldi Pezzoli a Milano è possibile vedere alla mostra Oro bianco. Tre secoli di porcellane Ginori esemplari di porcellane (in alcuni casi eccezionali per tipologia e stato di conservazione) prodotte dal Settecento al Novecento dalla storica Manifattura di Doccia, poi fusa con la milanese Richard. La mostra nasce su impulso della Fondazione Museo Archivio Richard-Ginori della Manifattura di Doccia, che esiste grazie a una proposta di Tomaso Montanari (rettore dell’Università per stranieri di Siena e presidente della Fondazione) e per decisione dell’allora ministro dei Beni culturali Dario Franceschini.
La Fondazione nasce nel 2019, dopo che nel 2017 lo Stato acquista le collezioni che documentano l’attività secolare della Manifattura Ginori, testimoniata al pubblico dal Museo Ginori di Sesto Fiorentino fino alla sua chiusura nel 2014. Si tratta di un Museo che racconta non solo una storia artistica ma anche industriale: comincia con la Manifattura delle porcellane di Doccia, voluta dal marchese Carlo Ginori nel 1737 per mostrare la parte migliore della propria produzione.
Con la fondazione di uno dei primi musei d’impresa europei, il marchese Ginori emerge dalla mostra come una sorta di precursore di un imprenditore da romanzo della “Commedia umana” del secolo successivo: introduce l’arte della porcellana a pasta dura in Toscana e applica alla gloriosa tradizione della scultura e della statuaria fiorentine la tecnica padroneggiata dalla Manifattura per oggetti fino ad allora di dimensioni contenute.
Con il sostegno di calchi, come se la Manifattura fosse un’Accademia di Belle Arti, vengono così alla luce statue che riproducono le grandi statue del passato, dalla Venere dei Medici ai busti degli imperatori romani Adriano e Nerva, a una Menade (in mostra).
Nel 1747 circa, infatti, la Manifattura cominciò a raccogliere calchi in gesso dalle statue della Galleria degli Uffizi e, dal 1753 circa, dalle collezioni di statue di Roma, oltre a modelli di sculture di cera, piombo, gesso, terracotta, acquisiti da Carlo Ginori a uso dei maestri della fabbrica.
Chi nella prima sala della mostra milanese si sofferma sulla Venere dei Medici ne constata la difficoltà esecutiva e tecnica in ragione della natura della porcellana (che, tra le altre cose, si ritira considerevolmente durante la cottura). La statua è fatta di più parti cotte separatamente e assemblate tramite stuccature in gesso, con le giunture celate dal drappo all’altezza dei fianchi e dai gioielli indossati al collo e alle braccia.
Montanari ha sottolineato (con un’attualizzazione che non fa una piega e che renderà la mostra ancora più familiare ai visitatori lombardi) “la visionaria capacità imprenditoriale del fondatore Carlo Ginori (sorta di Adriano Olivetti del Settecento) e l’eccezionale abilità manuale di generazioni di lavoratrici e di lavoratori” (p. 13 del catalogo, organizzato con la consueta suddivisione in saggi e schede a cui si aggiunge un breve Glossario che dalla voce “Acquaforte” alla voce “Vernice” soddisfa interrogativi e curiosità in merito al lessico che ruota attorno all’arte della porcellana usato negli apparati didattici della mostra e nel catalogo: pp. 166-167).
Il paragone Ginori-Olivetti non è forzato: attraverso la storia di queste porcellane si ripercorre anche la storia della democratizzazione degli oggetti fatti con questo materiale, inizialmente destinati solo alle tavole dei nobili e poi progressivamente entrati in ogni casa italiana ed europea. Grazie agli studi per la mostra, Ginori emerge dalle carte d’archivio come un “politico di ideologia mercantilista” ma anche illuminista (così ne scrive Monika Poettinger nel saggio Appunti per una storia d’impresa alle pp. 20-27: 21).
L’esposizione milanese conferma che la Fondazione sta svolgendo i propri compiti egregiamente, grazie a un CdA e un Comitato scientifico nei quali, insieme a Montanari, ci sono studiosi di grande rilievo nazionale e internazionale come Nicoletta Maraschio (presidente onoraria dell’Accademia della Crusca) e Flavio Fergonzi (professore ordinario di Storia dell’arte contemporanea alla Scuola Normale Superiore di Pisa): ha inventariato e trasferito a proprie spese in un posto sicuro le collezioni depositate in casse nel Museo; ha messo a disposizione del pubblico virtuale un sito che fin d’ora rende nota la magnificenza e la consistenza delle collezioni (https://museoginori.org/); ha già consentito la fruizione del parco del Museo alla comunità civile; ha realizzato una serie di mostre, tra le quali questa ha un valore particolare.
Difatti la scelta di organizzare la mostra a Milano è giustificata da ragioni storiche e museografiche. Dalla Società per la fabbricazione delle porcellane lombarde nacque la milanese Richard che, fondendosi con la Ginori nel 1896, fece guadagnare alla fabbrica toscana una diffusione di massa praticamente ininterrotta fino al 1970. Fino a quell’anno, infatti, la milanese Richard inserì la fabbrica di Doccia in una logica di mercato gestita da un centro amministrativo di Milano. Vennero usate le più aggiornate tecniche al fine di assicurare una produzione industriale di vasta consistenza. Quando nel 1970 l’azienda diventò una controllata della Finanziaria Sviluppo di Michele Sindona e poi si fuse con la Società Ceramica Pizzi, terminò un’epoca insieme alla cultura d’impresa.
Inoltre, la mostra asseconda un obiettivo consueto nell’organizzazione delle mostre del Museo Poldi Pezzoli, che da sempre ospita esposizioni che dialogano con la collezione permanente, promuovendone la conoscenza e la visita anche dopo la conclusione della mostra ospitata. Il Museo detiene una collezione di porcellane, terraglie e maioliche (di proprietà della famiglia Poldi Pezzoli prima dell’apertura al pubblico della Fondazione Artistica nel 1881) dalle fabbriche europee più rinomate nel Settecento: Sèvres, Wedgwood, Berlino, Strasburgo, Vienna, Meissen, Capodimonte e, appunto, Doccia.
Un importante nucleo del patrimonio del museo risiede nel dono ricevuto nel 1973 da Paola Ojetti, giornalista figlia del critico e giornalista Ugo Ojetti (che fu tanto fedele al fascismo da essere premiato con la direzione, tra il 1926 e il 1927, del “Corriere della sera” e con la vicepresidenza dell’Accademia d’Italia dopo l’8 settembre; alla fine gli andò bene, dato che gli toccò solo di essere radiato dall’Ordine dei giornalisti dopo la Liberazione). Sulla sua rivista “Dedalo”, Ojetti aveva promosso il recupero dei mestieri artigiani contrapposti alla produzione industriale e per tali interessi il suo percorso professionale si incrocia con quello del protagonista della seconda sala della mostra, Gio Ponti, del quale Ojetti diventa maestro e consigliere. Ai coniugi Ojetti, Ponti confida anche i dissapori con la sede milanese della Richard-Ginori, fino alle dimissioni nell’aprile 1933 (i dettagli sono nel saggio di Oliva Rucellai, Un architetto al servizio dell’industria: Gio Ponti e la Richard-Ginori, alle pp. 52-59). Il rapporto diventa così stretto che nel 1925 Ojetti e sua moglie Fernanda, forse in occasione dell’anniversario ventennale del loro matrimonio, ordinano le due ciste oggi patrimonio del Poldi Pezzoli ed esposte per questa occasione al centro della seconda sala della mostra. Potere oggi ammirare le due porcellane nel contesto degli altri oggetti a esse collegati è uno dei privilegi della mostra. Infatti i due vasi in pendant, di forma cilindrica, ispirati ai contenitori denominati “ciste” scavati nei corredi funerari delle necropoli etrusche di Palestrina derivano da un modello nato dalla creatività di Ponti tra il 1924 e il 1925. Il disegno esclusivo per gli Ojetti risale al 1926 e la modellazione per Doccia si deve a uno degli scultori più noti dell’epoca, Libero Andreotti.
Quando gli Ojetti ordinano le due ciste, Ponti fa aggiungere su entrambi gli oggetti un’epigrafe all’interno del disegno di una tabula ansata all’antica, per rendere completa l’illusione: “Per Fernanda | e Ugo Ojetti | composero | Gio Ponti e | Libero Andreotti | Doccia eseguì | 1927”, insieme alla propria firma.
Ojetti si innamora dell’eredità della tradizione innovata nell’invenzione originale già quando il modello è in mostra all’Esposizione di Arti decorative a Parigi e ne scrive in terza pagina sul “Corriere della sera” del 7 novembre 1925: “Vi si ammira in forme antiche un così cordiale spirito moderno”. Ponti non era solo il Direttore artistico della Manifattura ma aveva anche partecipato a una nuova, importante manifestazione di arti decorative, la Biennale di Monza del 1923 (ripercorrono questa storia la direttrice del museo, Alessandra Quarto, e Federica Manoli e Lucia Melegatti Strada rispettivamente nella presentazione e nel saggio Una storia di gentiluomini: il collezionismo della porcellana dalle origini a Gian Giacomo Poldi Pezzoli alle pp. 15-17, 61-67).
La mostra e il catalogo infatti illustrano la storia della Manifattura Ginori fino al periodo in cui (dal 1923) Ponti ne fu direttore artistico (le schede sulle opere ideate da Ponti esposte in mostra sono nel catalogo da p. 162 a p. 165). Ponti inventa serie adatte all’esecuzione in decalcomania per piccoli oggetti già in uso come posaceneri e portasigarette, o nuovi come basi per lampade, fermalibri, vasi da burro, vasetti per cactus, adatti a essere acquistati dai borghesi. Ponti si dedica anche a sculture in ceramica, sia da tavolo sia di dimensioni contenute, tenendo sempre a mente che la sua creatività è al servizio dell’industria. Negli anni funestati dal “Trombone trombatissimo” (così Gadda scrive di Mussolini in Eros e Priapo), il lavoro di Ponti riceve riconoscimenti anche da professori e critici attivissimi, come Ojetti, durante il “ventennale flagello fascista”: Roberto Papini, Antonio Maraini, la grande sacerdotessa Margherita Sarfatti.
Come ho accennato a proposito del favore accordato durante il fascismo al direttore artistico Ponti, la mostra evidenzia anche come la storia delle porcellane Ginori attraversa cambiamenti culturali, sociali e politici. Mi riferisco a quelli che conducono a un movimento operaio che genera proprio alla Manifattura Ginori la Società di Mutuo Soccorso di Sesto Fiorentino per garantire alcuni vantaggi economici ai lavoratori e al contempo il mantenimento della pace sociale con la produttività dell’azienda. La stagione di lotte per i diritti coinvolgerà anche don Milani, che negli anni ’50 del Novecento supporterà gli operai della Ginori che rischiano licenziamenti in massa.
Le sorti dei lavoratori che proprio alla Ginori rivendicano i primi diritti va a finire, per via di metafora, anche nel famosissimo libro di un toscano illustre: Pinocchio di Carlo Lorenzini detto Collodi. Il fratello di Collodi, Pietro Lorenzini, fu incaricato ufficialmente nel 1854 di dirigere la Manifattura di Doccia, della quale già da tempo si occupava e che ampliò mettendo a frutto la sua sapienza strategica e contabile tra gli anni dell’Unità d’Italia e di Firenze capitale. La morte di Lorenzini nel 1891 e la contemporanea scomparsa della sua vocazione manageriale portarono alla vendita nel 1896 alla Richard di Milano, fino ad allora rivale storica.
La conoscenza approfondita del rapporto tra lavoratori e imprenditoria permette che in Pinocchio si rifletta in modo consistente la palestra dei rapporti sociali in cui le istanze autoritarie del polo produttivo di Doccia si confrontano con le rivendicazioni collettive dei lavoratori. Collodi scrisse positivamente dell’etica del lavoro della società borghese in Il viaggio per l’Italia di Giannettino; in Pinocchio ne denunciò anche la facciata malsana nell’episodio del Paese delle api industriose. Proprio l’impalcatura nella quale agiscono i personaggi di Pinocchio traduce una situazione reale. La fame che costringeva a una vita di accattonaggio non suscitava compassione, ma accuse di pigrizia e oziosità: tale è la sorte del burattino tra le api industriose.
Inoltre la mancanza di istruzione che caratterizza Pinocchio e Lucignolo, come la maggior parte dei disgraziati italiani del tempo, fa cadere i malcapitati nelle grinfie di padroni autoritari, che sfruttano i lavoratori fino allo stremo: come accade a Lucignolo ciuchino, condannato a girare il bindolo finché morte non li separi. La stessa sorte iconografica e reale hanno gli operai che, sprofondati nel fango, stanno trainando una chiatta lungo l’argine dell’Arno nel drammatico grande quadro macchiaiolo di denuncia sociale L’alzaia, di un altro artista fiorentino, Telemaco Signorini.
Le due accurate sale della mostra al piano terra del Poldi Pezzoli illustrano con un campionario selezionato le molteplici forme (iconografiche, di scala, di funzione e destinazione) assunte dalla porcellana, che comunemente ancora oggi si associa quasi esclusivamente a oggetti di uso domestico più o meno pregiati, più o meno costosi. La visita fa scoprire usi della porcellana inaspettati per il pubblico non specialista e restituisce all’”oro bianco” la fiabesca magica preziosità alchemica che ha attraversato la pittura, la scultura, la letteratura fantastica, il cinema e la vita quotidiana, tra mura domestiche e lotte sociali.
Floriana Conte – Professoressa associata di Storia dell’arte a UniFoggia (floriana.conte@unifg.it; Twitter: @FlConte; Instagram: floriana240877) e Socia corrispondente dell’Accademia dell’Arcadia