Ho incontrato Dino Campana all’Ospedale psichiatrico di Castel Pulci, nei pressi di Firenze, in occasione dell’uscita del Meridiano Campana. L’opera in versi e in prosa, Mondadori 2024. Campana aveva 33 anni quando è stato ricoverato, ora ne ha 47 (siamo coetanei). Suo fratello Manlio ha fatto da tramite tra me e l’ospedale.
D: Per molti lei è il più grande poeta italiano. Eppure è rinchiuso in manicomio da 14 anni. In occasione di un precedente ricovero voluto dalla sua famiglia, i medici e, poi, la questura di Firenze disposero le sue dimissioni perché (cito dalla lettera della questura al sindaco di Marradi, il suo paese d’origine) “non si riscontra verun segno di alienazione mentale né altri sintomi che possano giustificare la sua ammissione d’urgenza al manicomio”. Suo fratello e i medici che mi hanno dato il permesso per questa intervista mi hanno riferito che vive quietamente e che comunica con l’esterno scrivendo lettere lucide. Ha nostalgia della vita randagia e povera che aveva fuori?
R: Nostalgia? Cinematografia sentimentale!
D: Mi aiuti a capire come diventa poeta un adolescente che scrive in una soffitta di paese. La voce per eccellenza del teatro italiano, Carmelo Bene, ha fondato proprio sulla musicalità dei Canti orfici la base della sua lettura ad alta voce della poesia, creando un nesso tra i suoi versi e il teatro. Eppure pochi sanno che lei a 25 anni scriveva ai giornali proponendosi come critico teatrale, che a 26 ha recitato nel Teatro degli Animosi di Marradi e che nelle biblioteche pubbliche di Firenze e di Bologna leggeva Amleto e i drammi di Ibsen. Perché il teatro?
R: Io credo che sarebbe utile smascherare l’incompetenza con cui si trattano nei giornali le questioni dell’arte, quando si trattano. Loro avranno certamente notato che nelle cronache teatrali il ricopiaticcio, l’influenza dei denari dell’impresario, l’assoluta incompetenza del croniquer che svisa i caratteri fondamentali di un’opera, formano un insieme di un’armonia comica efficace per influire sul gusto del pubblico. Non credono loro che sarebbe utilissimo rivedere settimanalmente le bucce a questi filibustieri?
D: Effettivamente…è quello che cerco di fare qualche volta sul nostro giornale. Ma mi aiuti a capire. Da ragazzo era già attrezzato per guadagnarsi da vivere dignitosamente come fanno altri suoi colleghi: Gadda e Musil sono ingegneri, Kafka è assicuratore, Trakl chimico. Lei ha un diploma al liceo classico, ha studiato chimica all’università perché i suoi genitori l’avrebbero voluta farmacista; invece per restare poeta ha lavorato da tenitore di un tiro al bersaglio, da suonatore di triangolo in una banda della Marina mercantile argentina, da portiere in un circolo di Buenos Aires, da pompiere-poliziotto, da sterratore nelle ferrovie, ha mendicato. Intanto frequentava biblioteche per leggere riviste scientifiche e libri in lingua originale. Se avesse fatto il farmacista, sarebbe rimasto poeta?
R: Io studiavo chimica per errore, per consiglio di un mio parente, e non ci capivo nulla. Io dovevo studiare lettere. Se studiavo lettere potevo vivere. Le lettere erano una cosa più equilibrata, il soggetto mi piaceva, potevo guadagnarmi da vivere e mettermi a posto. La chimica non la capivo assolutamente, quindi mi abbandonai al nulla. D’altra parte quel pochissimo di attività che ultimamente ho mostrato basta a provare che io seguo logicamente una via.
D: Da studente fece parte della delegazione di 52 studenti del Liceo classico Torricelli che incontrò Giosuè Carducci durante i festeggiamenti per il suo quarantesimo anno di insegnamento universitario.
R: Io andavo sempre in campagna per leggere. Carducci mi piaceva molto; Pascoli, d’Annunzio, Poe anche; l’ho letto molto Poe. Dante… la sua poesia di movimento mi torna tutta in memoria: “O pellegrino, o pellegrini che pensosi andate!”. Letteratura? Non so. Il mio ricordo… l’acqua è così.
D: Non sarebbe stato più saggio prendere a modello D’Annunzio, con la cui lingua tutti abbiamo dovuto fare i conti?
R: Il Vate grammofono? Un poveraccio che dell’Europa moderna non capisce proprio nulla.
D: Ha indicato il Faust di Goethe come modello di riferimento per i Canti Orfici. Questo suo unico libro l’ha resa un mito, eppure lo ha scritto in pochi mesi cercando di riprodurre a memoria il manoscritto originario. Lo aveva intitolato Il più lungo giorno e lo aveva inviato a Giovanni Papini e ad Ardengo Soffici, che lo persero invece di pubblicarlo. Chiunque al suo posto avrebbe vissuto questa superficialità (o invidia?) come una mannaia sul proprio talento.
R: Mi decisi a riscriverlo a memoria, giurando di vendicarmi se avevo vita. Il mio ideale sarebbe stato di completarlo formandone un piccolo Faust con accordi di situazione e di scorcio. Ora, le forze mi vennero a mancare e non potei offrire che una raccolta di effetti lirici qua e là lasciati a lo stato di natura. Perdoni quindi: io sono un solitario ombroso e davanti a questi fatti e davanti al suo silenzio temo di essere vittima dei gretti intriganti che ho imparato a conoscere.
D: Nei Canti orfici non si ferma alla tradizione poetica ma chiama a raccolta una galleria storico artistica, dai primitivi in poi: Andrea del Castagno, Ghirlandaio, Botticelli, Lorenzo Costa, Andrea della Robbia, Raffaello, Michelangelo, ma anche Ribera, Dürer, Rembrandt. Conosce le loro opere alla Sacrestia Nuova di San Lorenzo, ai musei degli Uffizi, a Parigi, ad Anversa. Ha meno simpatia per le avanguardie sue contemporanee.
R: Futuristi, se aveste il senso del grottesco! Dormivo all’asilo notturno e loro facevano le puttane sul palcoscenico alla serata futurista incassando cinque o seimila lire. Io ero un povero disgraziato esausto avvilito vestito da contadino con i capelli lunghi e un po’ parlavo troppo bene un po’ tacevo. [poi mormora tra sé:] Ad ogni poesia fare il quadro.
D: Suo fratello mi ha raccontato che amavate entrambi Carducci, ma vostro padre riteneva che solo lei avesse la psiche avvelenata, pervertita, che non sentisse affetti e che prendesse presto a noia luoghi e persone. Ora Manlio l’ha fatta interdire ed è rimasto erede unico della famiglia. Non è la prima volta che un artista viene considerato un estraneo pericoloso nel contesto familiare.
R: Tutti mi hanno sputato addosso dall’età di 14 anni. A Marradi mi ridevano, mi arrabbiai. Dall’età di 15 anni mi prese una forte nevrastenia, non potevo vivere in nessun posto. Poi cominciai a viaggiare.
D: Ci siamo, i viaggi… I medici le hanno diagnosticato la dromomania, un disturbo compulsivo che l’ha spinta a partire a piedi percorrendo distanze anche imponenti, da Marradi a Faenza, da Marradi a Firenze, da Marradi a Bologna. (Ormai si incasella in una patologia qualunque peculiarità umana…). Forse si trattava solo di un bisogno ovvio per un poeta, che deve allontanarsi e poi tornare, per conoscere, sentire l’assenza, mettere distanza tra sé e i propri luoghi. Nei Canti Orfici vedo un’eco continua di queste sue estasi di viaggiatore solitario.
R: Sissignore, viaggiavo molto perché non sapevo che fare. Ero spinto da una specie di mania di vagabondaggio. Una specie di instabilità mi spingeva a cambiare continuamente. Mi imbarcai come fuochista, poi mi fermai a Odessa. I Bossiaki sono come zingari. Nei dintorni vendevamo calendari, stelle filanti nelle fiere. Ho passato varie volte le Alpi, ho fatto il Gottardo, il Sempione e altri valichi. La fanciulla che lavava e mi amò, son tutte fantasie. Fu un arresto lassù per non poter superare quel passo.
D: La prima volta che finì in manicomio fu perché lei e sua madre non andavate d’accordo e a causa della sua vita da girovago che metteva in imbarazzo la sua famiglia perbene. Due mesi di internamento non aiutarono la sua già fragile anima. Una volta dimesso, smise con la chimica e trovò conforto nel pianoforte.
R: Mi misi a studiare il piano. Quando avevo denaro spendevo tutto quello che avevo. Un po’ scrivevo, un po’ sonavo il piano. Così finii per squilibrarmi completamente. Dei musicisti ammiravo molto Beethoven, Mozart, Schumann, Verdi anche mi piace; Spontini, Rossini. Eh! Questi li so tutti; suonavo sempre la musica italiana in Argentina. Suonavo nei ritrovi, nei bordelli.
D: Gianfranco Contini ha valutato la sua inclinazione a imitare Carducci come prova dell’incapacità di essere davvero un poeta moderno. Però Contini le fa un elogio che è rimasto in mente pure a Pasolini: “non è un veggente o un visionario: è un visivo, che è quasi la cosa inversa”.
R: Non vi sembra che un cafonismo molto carducciano possa essere una base solida per i miei giuochi di equilibrio? L’arte, come la magia, è una metafisica pratica.
D: Capisco che lei si senta un poeta mago, piuttosto che un poeta vate… Quali suoi versi le sembrano i più visivi di tutti?
R: “Tra il barbaglio lontano di un canneto lontane forme ignude di adolescenti e il profilo di un vecchio. E del tempo fu sospeso il corso” e “La vita bizzarra delle figure nella luce bianca e noi discesi e una piazza shakespiriana”.
D: Concordo, ma poi è sempre la solita storia: l’hanno capita davvero solo ora che è qua. Quando con una lettera chiese aiuto per pubblicare la sua opera, lasciò una sorta di dichiarazione di poetica valida per chiunque ambisca a essere riconosciuto come artista: “Scrivo novelle poetiche e poesie; nessuno mi vuole stampare e io ho bisogno di essere stampato: per provarmi che esisto, per scrivere ancora ho bisogno di essere stampato”. Qua dentro si rifiuta di essere poeta, ma fuori è considerato sempre un artista, tanto che la sua opera edita e inedita è stata raccolta in una collana editoriale prestigiosa.
R: Non ho più voluto occuparmi di cose letterarie stante la nullità dei successi pratici ottenuti. Il mercato librario in Italia è assolutamente nullo per il mio genere… Ebbi l’occasione di vedere la ristampa dei miei Canti Orfici. In qualche momento di tranquillità potei notare i continui errori del testo che è così irriconoscibile. Vi hanno pure aggiunto poesie di lezione fantastica. Non sono più in grado di occuparmi di studi letterarii, pure vedendo che il testo va così perduto.
D: Ora ha la prova di esistere. Va meglio, scriverà ancora?
R: Tutto va per il meglio nel peggiore dei mondi possibili. Ma per i cuori leggieri un’altra vita è alle porte.
P. S. Dino Campana è morto in manicomio a 47 anni il 1° marzo 1932. Le sue risposte a questa “intervista impossibile” contengono le sue parole dai Canti orfici, dal Taccuinetto faentino, dalle lettere e da altre fonti raccolte nel Meridiano. Solo le domande sono scritte da me.
Floriana Conte – Professoressa di Storia dell’arte a UniFoggia (floriana.conte@unifg.it; Twitter: @FlConte; Instagram: floriana240877) e accademica dell’Arcadia