Palestina, i mille volti di un conflitto

Dopo l’articolo sull’evolversi della situazione in Medio Oriente, pubblichiamo il secondo articolo sulla situazione palestinese, scritto da un esperto di lungo corso della politica estera e profondo conoscitore di quell’area sempre difficile per gli equilibri della pace

Chi oggi volesse dare uno sguardo un po’ approfondito alla situazione palestinese in Cisgiordania e nella striscia di Gaza e alle possibilità di una soluzione negoziata del conflitto con Israele rischierebbe, molto probabilmente, di uscire dall’esame con una grave forma di depressione. Ci si trova davanti a un quadro che non lascia, almeno per ora, trasparire spiragli di ottimismo. Si ha a che fare con la complessità di una situazione nella quale gli abituali strumenti di analisi, sociali, economici e politici, pur senza affatto negarne la validità, non bastano più. Entrano in gioco anche fattori che spesso si tende a ignorare o a sottovalutare nel contesto di una visione materialistica della storia, troppo spesso interpretata attraverso le lenti deformanti di ideologie diverse. Per esempio, l’influenza della religione, la percezione e il peso dei pregiudizi, delle paure, degli stereotipi che ciascuna delle parti ha dell’altro, la diversa lettura delle rispettive storie e dei torti subiti. Sicché verrebbe la tentazione di dire che, forse, il primo passo verso una migliore comprensione tra palestinesi e israeliani sarebbe, idealmente, di porli sul tavolo dello psicoanalista.

La dimensione numerica

Prima di entrare nel cuore del problema, mi sembra necessario inquadrarlo numericamente. La popolazione palestinese nel mondo è stimata in poco meno di 14 milioni, circa metà dei quali (6,3 milioni) vivono nella diaspora palestinese. Secondo le statistiche dell’Onu, negli stati che confinano con Israele, con la Cisgiordania e con la striscia di Gaza, vivono circa cinque milioni di profughi. La maggior parte, 3,4 milioni, vivono in Giordania e sono divenuti parte del tessuto economico e sociale dello stato di cui sono pure cittadini (anche se non tutti). In Siria (600mila) e Libano (400mila) sono deliberatamente emarginati, guardati con sospetto, senza la cittadinanza, e in gran parte confinati nei campi profughi dell’Unrwa (agenzia dell’Onu), dove vivono in miseria e con vietato o limitato accesso a professioni e posti di lavoro adeguatamente retribuiti. Gli altri sono dispersi nel resto del mondo arabo, in America latina (in Cile sono mezzo milione) e in Occidente.

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Ma in questo articolo l’attenzione è rivolta a quei 2,8 milioni che vivono in Cisgiordania (inclusa Gerusalemme est) e agli 1,9 milioni che vivono nella striscia di Gaza perché è qui che l’attrito con Israele è costante, la sua presenza è soffocante e brutale, gli insediamenti ebraici in continua crescita, ed è qui che le istituzioni rappresentative palestinesi hanno sede. In Israele, i palestinesi con cittadinanza israeliana sono quasi 1,9 milioni (21% della popolazione). De iure, hanno gli stessi diritti, anche politici, della maggioranza ebraica; de facto, subiscono più o meno camuffate forme di discriminazione, per esempio nella spartizione dei bilanci statali. Nelle stime della popolazione è incluso anche quel milione e mezzo che, secondo l’Onu, vivono in 58 campi profughi dell’Unrwa (agenzia dell’Onu), dispersi negli stati arabi e nei territori occupati. La dimensione geografica: Israele, nei confini antecedenti il conflitto del 1967, ha una superficie di 20 mila Km2, la Cisgiordania di 5.800 Km2 e la striscia di Gaza 360 Km2. Insieme i territori occupati sono poco più grandi della Liguria.

È stato detto più volte, a ragione, che i territori palestinesi sono una polveriera che potrebbe esplodere in qualunque momento in una nuova e probabilmente ancora più sanguinosa intifada. Gli ingredienti ci sono tutti. È l’assenza di prospettive di un miglioramento della situazione economica; di una soluzione politica del conflitto visibile all’orizzonte; di una leadership palestinese credibile, pragmatica e responsabile capace di sostituire quella attuale, totalmente screditata; c’è la frustrazione, per non dire la rabbia, nei confronti degli stati arabi che si aprono a Israele senza esigere adeguata contropartita a favore dei palestinesi. E c’è, ovviamente e in primis, l’occupazione israeliana.

Il peso della religione

Come ho accennato prima, questo conflitto ha una dimensione religiosa, troppo spesso sottovalutata. Accanto ai diversi fattori che lo fomentano, l’evidenza suggerisce, afferma lo studioso ed ex diplomatico egiziano Mohammed Galal Mustafa, che la religione ha un impatto rilevante sull’identità delle parti avversarie, anche su quelle che non sono religiose, influenzandone gli atteggiamenti, le politiche e l’approccio a questioni concrete. “Diversi aspetti religiosi concernenti l’islam e il giudaismo – afferma – impongono il ruolo della religione come elemento principale del conflitto, includendo in particolare la sacralità dei luoghi santi e le narrative apocalittiche in entrambe le religioni, a scapito di ogni potenziale pace duratura tra le due parti”. “In Israele – continua – gli estremisti religiosi sionisti si considerano guardiani dello Stato ebraico, vogliono definire come deve essere e sono molto rigidi in termini di concessioni agli arabi. Dall’altra parte, i gruppi islamici in Palestina e altrove nel mondo dell’Islam perorano per motivi religiosi la necessità di liberare i “sacri” territori e i siti santi e predicano la violenza e l’odio contro Israele e il popolo ebraico”.

Nella sua analisi lo studioso egiziano fa riferimento a minoranze estremiste in seno ad ambedue le società, ma è incontestabile che l’influenza della religione si stia estendendo a strati sempre più vasti nelle due popolazioni e, di conseguenza, sulla linea di condotta dei rispettivi governi. Dello stesso parere è anche Jeremy Bowen, giornalista britannico che conosce bene la regione. “La religione – afferma – ha un significato e un peso che è difficile esagerare. Non è solo una questione di fede. A Gerusalemme è inestricabilmente legata al nazionalismo palestinese e israeliano”. La cronaca quasi giornaliera conferma l’analisi. Basta ricordare le passioni religiose intorno alla Spianata delle Moschee a Gerusalemme, per importanza terzo luogo santo del mondo musulmano. Per complicare le cose sorge proprio sopra i resti del Tempio biblico, il sito più sacro degli ebrei.

Al di là della disputa religiosa, è pure importante l’aspetto psicologico: come, al livello individuale, ciascuna parte vede l’altra. Un tema, questo, di grande complessità, che esula dai confini di questo articolo. Lo accenno per richiamare l’attenzione del lettore anche a questo aspetto. Nessun palestinese, ovunque si trovi, potrà mai dimenticare che la nascita dello Stato di Israele, uscito vittorioso dalla guerra del 1948-49, significò l’esodo della maggior parte della popolazione araba dalla Palestina, l’amarezza dell’esilio, la rottura traumatica di rapporti di parentela, la dispersione di famiglie. È una ferita che non si rimargina. A torto o a ragione, la convinzione dei palestinesi di essere stati vittime sacrificali sull’altare di interessi occidentali per dar vita a “un’illegittima entità coloniale”, rea di “pulizia etnica”, è tramandata da una generazione all’altra. Ambedue le parti sono così immerse nel ricordo dei torti subiti e delle rispettive tragedie (la Shoah per gli ebrei, la Nakba per i palestinesi) da essere incapaci di riconoscere le sofferenze e la storia dell’altro.

Uno studio condotto congiuntamente quest’anno da due istituti di indagini demoscopiche, israeliano e palestinese, in Israele e nei territori occupati, sembra confermarlo. Il 90% dei palestinesi e il 63% degli israeliani ebrei si considerano vittime che hanno il diritto di fare tutto il necessario per sopravvivere. Nella contrapposizione tra di loro, il 93% si considerano legittimi proprietari della terra tra il Giordano e il Mediterraneo e di conseguenza negano le rivendicazioni sulla terra dell’altra parte. Due terzi degli israeliani ebrei sono convinti che l’obiettivo primario dei palestinesi sia di conquistare Israele. L’indagine indica che è un obiettivo dichiarato dal 37% dei palestinesi mentre il 51% vorrebbe riprendersi i territori occupati nel 1967. Il 65% dei palestinesi dicono di temere che Israele voglia espellerli dal territorio; il 18% degli israeliani ebrei non nasconde di aspirare a questo obiettivo. Questo non impedisce, al livello del singolo, la formazione di amicizie, perfino fraterne. Ma un sottofondo di diffidenza permane sempre.

Per esempio, diversi anni fa, in un amichevole colloquio con l’autore di questo articolo, il titolare israeliano di una grande autorimessa a Gerusalemme, sicuramente non di destra, era pieno di elogi per il lavoro di un dipendente palestinese di uno dei vicini campi profughi, di cui diceva di fidarsi e di ritenersi in ottimi rapporti di amicizia. Gli aveva pure affidato la direzione di un reparto, con autorità sul personale israeliano. Ciò nonostante, mi confessava di non sentirsi mai completamente al sicuro “perché chi mi garantisce che un giorno, in uno dei momenti di tensione con i palestinesi, non cerchi di ammazzarmi?”. C’è in questa frase, inconsciamente, l’eco di pregiudizi e paure assorbiti dai genitori vissuti nelle società arabe? Forse. Dall’altra parte, ci saranno sempre palestinesi che immancabilmente ricorderanno la strage nel villaggio di Dir Yassin (1948) e altri episodi di cui furono loro le vittime di violenze israeliane.

Cisgiordania, il sovrano israeliano

In Cisgiordania, il controllo di Israele è pressoché assoluto. L’ Autorità Nazionale Palestinese (Anp), nata dopo gli accordi di Oslo, ha formalmente poteri di governo sulle aree A (18% del territorio cisgiordano) e B (22%), che sono quelle più popolate dai palestinesi. Nella prima ha pieni poteri, nella seconda solo amministrativi. Tutto ciò che riguarda la sicurezza è di esclusiva competenza di Israele che esercita pieni poteri sull’area C (60%), situata a ridosso del territorio israeliano. Ma è una divisione artificiale. Di fatto l’esercito israeliano non esita a entrare anche nell’area A per dare la caccia a ricercati palestinesi ogni volta che lo ritiene necessario. Israele ha un chiaro interesse a tenere in vita l’Anp, perché lo esonera dalla responsabilità di dover accudire alle necessità della popolazione locale.

La presenza militare è tanto più soffocante per la necessità di proteggere il mezzo milione di coloni che vivono in circa 150 insediamenti ebraici cisgiordani, col chiaro intento di rendere impossibile la costituzione di uno stato palestinese in una regione che essi ritengono inalienabile in quanto parte della biblica Terra di Israele. La maggior parte della comunità internazionale afferma che gli insediamenti violano il diritto internazionale, tesi che Israele respinge. L’assenza di completi registri catastali delle terre di proprietà privata è stata sfruttata da Israele per dichiarare demaniali vaste aree della Cisgiordania, aprendole agli insediamenti ai quali ha poi esteso le sue leggi. I territori palestinesi sono tuttora, dalla loro occupazione nel 1967, sottoposti agli editti dell’autorità militare e dell’amministrazione civile per le questioni attinenti alla vita della popolazione. L’ordinamento giuridico si basa sulle leggi giordane, che a loro volta hanno assorbito parti del diritto britannico e leggi di epoca ottomana. In questo caos giuridico, di cui Israele approfitta, succede che in effetti sono in vigore due ordinamenti legislativi, uno per gli israeliani e un altro per i palestinesi. Si può essere certi che un israeliano non finirà mai davanti a un tribunale palestinese.

L’esercito, che gode di ampia libertà d’azione e usa il pugno di ferro contro i gruppi armati, si mostra invece timido e titubante quando si tratta di reprimere gli attacchi e gli atti di vandalismo e di rappresaglia, talvolta veri pogrom, di gruppi di giovani coloni – blandamente definiti “la gioventù dei colli” – ai danni della popolazione locale. Il comportamento dell’esercito riflette la titubanza dei governi israeliani, anche quelli più moderati, che per necessità politiche devono tenere conto del peso elettorale dei coloni e della destra nazionalista religiosa. In seno all’attuale governo di estrema destra possono ora contare sull’aperto sostegno dei partiti della coalizione.

Economia vassalla

Il peso di Israele si avverte pure nell’economia della Cisgiordania, sottoposta a infiniti ostacoli e ostruzioni a tutela di quella israeliana. “La crescita economica e le entrate dell’Autorità palestinese – si legge in un rapporto della Banca Mondiale (maggio 2022) – resta al di sotto del suo potenziale a causa delle restrizioni ai valichi e alla libertà di movimento, pure nell’area C. Il commercio palestinese con l’estero è controllato da Israele ed è sottoposto a costose barriere non tariffarie che ne hanno ridotto la competitività”.

Da diversi anni sono fortemente calati gli aiuti economici dei paesi donatori all’Anp, le cui casse sono a tal punto vuote che non riesce nemmeno a pagare regolarmente gli stipendi al personale. In una regione in gran parte arida, Israele, che grazie ai suoi impianti di desalinizzazione ha tutta l’acqua potabile di cui ha bisogno, insiste a tenere sotto il suo controllo, sin dal 1967, le falde acquifere in Cisgiordania e ogni progetto di sviluppo di infrastrutture idriche deve avere la sua autorizzazione. Il risultato è una carenza cronica di acqua per la popolazione palestinese. Un problema che non hanno gli insediamenti ebraici che invece usufruiscono di acqua erogata da Israele. La situazione è drammatica in particolare nella striscia di Gaza, dove l’acqua è razionata e il 97% di quella proveniente dalle scarse falde costiere è sottoposta a un processo di desalinizzazione ed è al di sotto degli standard stabiliti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Da anni si discute di costruire impianti di desalinizzazione (e anche di rinnovare l’insufficiente rete di fognature) ma per i contrasti tra Hamas e Israele sono progetti finora rimasti sulla carta.

Il divario tra le due economie è enorme Nel 2022 il reddito pro capite di un israeliano, secondo calcoli della Banca Mondiale, era di oltre 54 mila dollari, quello di un palestinese di 3.800 dollari. Nello stesso anno il PIL di Israele è stato di 564 miliardi di dollari, nei territori occupati di 19 miliardi di dollari. In questi ultimi, inoltre, il tasso di disoccupazione è mediamente del 25% circa (luglio 2023). L’Istituto Centrale di Statistica Palestinese stima che in Cisgiordania i disoccupati siano il 17%, nella striscia di Gaza il 51%. Il problema è aggravato dalla distribuzione per età della popolazione: in Cisgiordania il 39% hanno meno di 14 anni, a Gaza il 44% e sono il 21,3% quelli tra 15 e 24 anni. La densità di abitanti nella striscia è di 4.987 persone per Km2, forse la più alta al mondo. Sono tutte bocche da sfamare con poche prospettive di lavoro. Perciò un impiego in Israele è ambitissimo. Una situazione, questa, che fa il gioco di Israele che, da una parte, ha comunque bisogno di manovalanza a poco prezzo, e, dall’altra, permette ai suoi servizi di sicurezza di arruolare più facilmente informatori, spesso usando la concessione di permessi di lavoro come arma di ricatto. Un osservatore occidentale, a stretto contatto con la situazione nei territori occupati, afferma che in Israele un manovale palestinese riceve una remunerazione che è almeno il triplo di quella che percepirebbe a casa sua. Le entrate di questi lavoratori hanno un evidente effetto benefico sull’economia locale. Il lavoro diventa anche uno strumento politico. Per esempio, Israele permette a circa ventimila pendolari di Gaza di lavorare nel suo territorio nel quadro, a quel che pare, di un’intesa indiretta, informale e segreta, con Hamas, il movimento radicale islamico al potere nella striscia dal 2006. Ma è un rubinetto che può chiudere a suo piacimento ogni volta che ritiene violati i patti. Hamas, dal canto suo, pur ribadendo il fine della distruzione dello Stato ebraico, si sarebbe impegnato a non lanciare più razzi contro il territorio israeliano.

La società palestinese, a struttura patriarcale per lunga tradizione, sta cambiando. I clan tribali stanno perdendo gran parte del loro peso; delle grandi famiglie patrizie, una voltai centri di potere politico, resta soprattutto il ricordo. L’Anp, nata con tante speranze dopo gli accordi di Oslo, ora rappresenta una dirigenza politica stanca, screditata e corrotta, che si regge al potere grazie ai suoi servizi di sicurezza e all’interessato sostegno di Israele e dell’Occidente. Al Fatah, la principale organizzazione palestinese guidata dall’ ottantaseienne presidente dell’Anp, Mahmud Abbas (Abu Mazen), ha perso la maggior parte dei consensi. Dietro le quinte è in atto una lotta di successione. Se si tenessero libere elezioni sarebbe realmente possibile una vittoria di Hamas. È un rischio che nessuno vuole correre, non Israele e nemmeno i governi arabi e gli Stati Uniti. Intorno all’ Anp si è formata una nuova borghesia di arricchiti. Ramallah, dove hanno sede le istituzioni politiche, è divenuta in forma ridotta una copia di Tel Aviv, con ritrovi, ristoranti e negozi di lusso frequentati da giovani yuppies. Ma è un’immagine che non rispecchia il quadro generale. In molte città palestinesi il controllo dell’Anp è fragile o pressoché assente. Le difficoltà economiche, la sfiducia in un futuro migliore e nella classe politica formano un fertile terreno per Hamas, la Jihad Islamica e altri gruppi militanti. Lo scorso luglio, dopo un’assenza di dieci anni, Abbas ha potuto visitare Jenin, sotto forte scorta dei suoi pretoriani, solo dopo che pochi giorni prima una vasta operazione dell’esercito israeliano aveva costretto gruppi armati a un temporaneo ritiro dalla città. In una situazione che non lascia intravvedere un futuro migliore è forte la tentazione dei giovani di impugnare le armi e di costituirsi in piccole cellule autonome per attaccare coloni e soldati, rischiando di essere uccisi e di divenire così “shahid”, martiri della causa.

Il buio sopra la Striscia di Gaza: gli impatti dell'occupazione israeliana misurati dalle Nazioni Unite

Per i nazionalisti israeliani il successo del piano di insediamenti è incontestabile Chi oggi, dopo un’assenza di anni, ripercorresse le strade della Cisgiordania si troverebbe davanti a una vasta espansione degli insediamenti, collegati a Israele da una rete stradale costruita apposta per loro; dovrebbe pure constatare una parallela contrazione dei campi coltivati dai palestinesi. Alcuni insediamenti, come Ariel e Maalé Adumim, hanno assunto, le dimensioni di centri urbani con migliaia di abitanti. Ipotizzare che possano un giorno essere abbandonati richiede uno sforzo sovrumano di fantasia. Ma quanto può durare questa situazione?

Nel territorio compreso tra il fiume Giordano e il Mediterraneo, la popolazione palestinese (inclusa quella di Israele), e quella ebraica pressoché si equivalgono numericamente. È una situazione altamente rischiosa per quella maggioranza (finora) di israeliani che è convinta che lo stato debba restare al tempo stesso ebraico e democratico. L’ex capo dell’intelligence militare Amos Yadlin, per molti anni direttore dell’Istituto di Studi Strategici dell’Università di Tel Aviv, è chiaro: “Israele sta gradualmente scivolando verso un solo stato tra il Mediterraneo e il Giordano. Questo stato per forza di cose cesserà di essere ebraico e democratico. In una situazione in cui una parte degli abitanti domina su un’altra, contro la sua volontà, non potrà essere assicurata l’uguaglianza di tutti i cittadini”.

La tendenza prevalente nelle opinioni pubbliche e nelle dirigenze politiche a Gerusalemme, Ramallah e Gaza, avverte Yadlin, sta precludendo sempre di più una soluzione generale, concordata e stabile del conflitto israelo-palestinese. Già oggi, secondo il già citato sondaggio, solo un terzo circa degli israeliani ebrei e dei palestinesi dei territori sono a favore di una soluzione del conflitto secondo la formula due stati per due popoli. Si può sostenere, con ragionevole certezza, che prima o poi il fattore demografico costringerà gli attori a rivedere le loro posizioni e a contemplare soluzioni che ora rifiutano. Una cosa è certa: non ci sono soluzioni “instant”; vanno costruite lentamente, con i piedi per terra e con freddo realismo per non rischiare di “lastricare con buone intenzioni la strada che porta all’inferno”.

Giorgio Raccah – Giornalista. Analista di geopolitica.

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