Lo sciopero dei camionisti cileni per mesi paralizzò i trasporti e gli approvvigionamenti del Paese sudamericano dalla caratteristica forma allungata a striscia. Il Cile fu messo in ginocchio, Salvador Allende, presidente socialista eletto democraticamente dai cileni nel 1970, fu indebolito, isolato e sconfitto. Il palazzo presidenziale della Moneda fu bombardato, Allende si difese eroicamente ma fu eliminato o morì suicida, secondo la maggioranza degli storici. Era l’11 settembre del 1973.
Per il Cile, vittima di un golpe del generale Augusto Pinochet ma benedetto se non promosso dalla CIA, cominciò il lungo inverno della dittatura: inverno della libertà, dei diritti umani calpestati, della democrazia soppressa. Gli Inti Illimani, costretti all’esilio, cantarono in Italia e nel mondo lo strazio del loro Paese.
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“Non vedo perché dovremmo restare con le mani in mano a guardare mentre un Paese diventa comunista a causa dell’irresponsabilità del suo popolo. La questione è troppo importante perché gli elettori cileni possano essere lasciati a decidere da soli.”
Queste le parole, non bisognose di spiegazione, che Henry Kissinger, pronunciò all’indomani della elezione di Salvador Allende a presidente del Cile. A parte la (voluta) confusione tra socialismo e comunismo, Kissinger aveva il “vizietto” dell’ingerenza nelle scelte democratiche degli altri Paesi, non solo il Cile ma anche l’Italia. Lo ritroveremo nel 1974 a minacciare Moro in un tempestoso colloquio a New York, diffidandolo dal continuare la politica di apertura ai comunisti. Minacciandolo in modo “diplomatico”. I diplomatici – diceva Manzoni – riescono soavemente a trovare il modo perfino di sbudellarsi.
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La caduta di Allende provocò uno choc nella opinione pubblica democratica dell’Occidente. In Italia ci furono manifestazioni di studenti, iniziative dei partiti di sinistra. Ma fu Enrico Berlinguer, segretario del Pci succeduto a Luigi Longo nel 1972, a elaborare una profonda riflessione e una conseguente proposta politica. Lanciò l’idea che è passata come il “compromesso storico”.
Esaminiamo intanto da vicino questi due termini: “compromesso” e “storico”
Compromesso: Berlinguer ebbe il coraggio di usare questa parola, che in politica ma anche nei comportamenti umani è spesso svalutata e ridotta al rango di cedimento. “Non accetto compromessi”, diceva l’ultima attricetta a cui il produttore chiedeva di spogliarsi. Berlinguer la intendeva invece nel senso solenne e ufficiale della sede notarile. Compromesso come accordo, come alleanza, come intesa tra le masse cattoliche e laiche, come orizzonte largo, e tra Dc e Pci come orizzonte politico vero e proprio. Dopo questo gesto coraggioso, anche dal punto di vista filologico, di Berlinguer, negli anni successivi, con l’irrompere di nuovi soggetti partitici, la parola compromesso fu di nuovo degradata a inciucio. Appena un partito, un politico proponeva una ipotesi di accordo, c’era sempre qualche grillo parlante a insorgere e a gridare all’inciucio.
Il che, lo diciamo incidentalmente, la dice lunga sul degrado che la pratica politica ha subito in questi anni. Eppure addirittura un Papa ha nobilitato il compromesso, definendolo la moralità della politica. Alla base di questa idea, che è di Benedetto XVI, c’è la concezione della politica come dialogo, come ricerca di ponti, come trattativa per trovare la soluzione migliore dei problemi: ogni parte cede qualcosa e anche l’altro contraente, e ognuno abbandona la velleità di fare tutto da solo o imporre la propria ricetta.
Ma torniamo all’intesa, al compromesso, tra le masse cattoliche e laiche. La strategia dell’attenzione (usiamo questa formula, che Moro usò verso i comunisti) al mondo cattolico era stata una delle idee-forza della politica di Togliatti. Nell’Assemblea Costituente “il Migliore”, come lo chiamavano i suoi seguaci adoranti, schierò il Pci nel voto a favore dell’articolo 7 della Costituzione. Un voto che fece certamente piacere al Vaticano e ai cattolici che votavano in gran numero comunista. Costituzionalizzare i Patti lateranensi, che comprendevano il Concordato, era un modo di metterli al riparo da facili tentativi di modifica, significava blindarli: per modificarli sarebbe stata necessaria cambiare la Costituzione, con la procedura non rapida né facile prevista dall’articolo 138 della Carta.
I laici, i socialisti, i liberali si scandalizzarono di questa scelta togliattiana. Votarono contro. Croce fece della filosofica ironia dicendo: Togliatti ha votato a favore per guadagnarsi il voto dei cattolici. Parigi ( i voti cattolici) vale una messa ( il voto dell’articolo 7). Ma – aggiunse il filosofo – se Parigi val bene una messa, ci sono cose che valgono infinitamente più di Parigi.
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Ora torniamo all’altro termine della formula berlingueriana compromesso storico. Perché lo definì storico? Perché l’idea del segretario del Pci non era un’alleanza come le altre, ma una intesa che doveva segnare un’epoca, una rottura con il passato che aveva visto il Pci confinato nel ruolo di eterno oppositore, a causa di quello che Alberto Ronchey definì il fattore K ( Kommunism) che rendeva impossibile, e pericolosa per gli equilibri internazionali, la gestione del potere da parte dei comunisti.
Quando Berlinguer lanciò la proposta del compromesso storico, illustrata in ben tre articoli apparsi nel mese di settembre sul prestigioso settimanale “Rinascita” dove scriveva il fior fiore della intellettualità comunista, c’era ancora la politica dei blocchi, il Muro di Berlino sarebbe crollato 16 anni dopo. Berlinguer insomma era avanti. In anticipo sui tempi. Come lo era Moro, del resto.
L’intesa proposta da Berlinguer, coinvolgendo masse laiche e cattoliche, in linea di principio non escludeva i socialisti. Tuttavia il Psi non gradì, avvertì odore di trappola, sentì il suono della tenaglia Dc-Pci che avrebbe potuto stritolare la forza socialista. La proposta insomma non piacque. I giornali moderati iper semplificarono parlando di accordo di potere Dc-Pci .
Nella Dc la sinistra interna la guardò con curiosità politica e interesse, Moro quattro anni prima , in un congresso del 1969, aveva lanciato la formula della “strategia dell’attenzione”. Bisogna tener conto di ciò che si muove nel Pci, disse, della elaborazione concettuale e politica che i comunisti italiani portano avanti. Berlinguer pochi anni dopo ricambiò l’interesse con una dichiarazione clamorosa data in una intervista al Corriere della Sera: Mi sento più tranquillo da questa parte ( della Nato, dell’Occidente) che dall’altra parte. Era l’anno 1975.
Era una presa di posizione netta, non equivoca. Gli elettori apprezzarono. Il Pci nel biennio ‘75-‘76 guadagnò posizioni elettorali notevoli e sfiorò il sorpasso sulla Dc. Se nelle elezioni politiche del ’76 il Pci arrivò al suo massimo storico con il 33 per cento e il Psi al suo minimo, con un misero 9,6, la colpa – siamo giusti – non fu (o non fu tutta) del povero segretario socialista Francesco De Martino, che sulle piazze elettorali del ’76 illustrò la formula (in effetti rivelatasi suicida) degli “equilibri più avanzati” ( anticipata mesi prima, il giorno di San Silvestro del ’75 sull ‘Avanti! ): non torneremo al governo senza i comunisti. Gli elettori, commentò un ironico commentatore, risposero: ci hai dato un’idea, allora votiamo direttamente Pci.
Ma questa è una lettura del voto incompleta e al limite superficiale. Se i comunisti poterono raccogliere una sterminata e insperata messe di voti, fu per merito ed effetto soprattutto della proposta di Berlinguer. Molti elettori trovarono rassicurante un partito comunista, per anni temuto e tenuto a distanza, che proponeva un’alleanza strategica e storica con i cattolici.
E lo votarono. Il 1976 il Pci entrò nella “maggioranza” della non sfiducia al governo Andreotti. Nel 1978 auspice Moro i comunisti entrarono nella maggioranza (per la prima volta, dopo che nel 1947 erano stati sbarcati dal governo da De Gasperi insieme ai socialisti). L’assassinio di Moro lacerò questa faticosa tela delle alleanze politiche, e i comunisti dovettero aspettare per che un presidente del Consiglio già comunista entrasse a Palazzo Chigi (D’Alema, succeduto nel 1998 a un Prodi fatto fuori dalla sua stessa maggioranza).
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Cosa resta oggi di quella proposta di compromesso storico?
Come sulla sabbia dopo la tempesta, resta, in alcune citazioni e nella memoria, una semplificazione eccessiva: fu scambiato come un semplice accordo Dc-Pci, e negli anni dopo il 1973 Craxi si batté con tutta la sua energia, a volte con qualche approssimazione ideologica, per rompere quella tenaglia, e per riequilibrare i rapporti di forza Pci-Psi. Si parlò a un certo punto anche di un partito unico della sinistra, dopo che il Pci, come avvenne anche per intervento favorevole di Craxi, entrò a far parte della grande famiglia dei socialisti europei, dell’Internazionale socialista. Ma questa ipotesi non si realizzò.
Resta la validità dell’intuizione berlingueriana, che fu poi la motivazione alla base della proposta di compromesso storico, e cioè questa: Un Paese come l’Italia non si governa con il 51 per cento. Occorre unire le forze, occorre uno schieramento più vasto. Una intuizione inverata dalla storia degli anni successivi, quando due governi (Prodi) caddero per una maggioranza risicata e poco coesa.
A questa motivazione ce n’era un’altra strettamente connessa: la paura della destra in Italia, di una destra non liberale che, come era avvenuto negli anni Sessanta, aveva provocato attentati, stragi e tentativi di golpe. La paura del rigurgito fascista è stata sempre in cima al ceto politico italiano che aveva vissuto nel Ventennio. Tanto è vero che, quando l’Assemblea Costituente affrontò il capitolo del Governo, definì la figura del presidente del Consiglio, cioè di una persona che presiedeva un organo collegiale (il Consiglio dei ministri) . Un presidente del Consiglio, precisiamo, non un premier come si ostinano a scrivere, per pigrizia intellettuale e a volte per dimenticanza, i giornalisti. Il presidente del Consiglio italiano ha minori poteri dei suoi omologhi stranieri: se vuole cacciare un ministro incapace o infedele non può farlo; si deve affidare alla moral suasion ( ma il ministro non si lascia persuadere; come diceva Totò in “Guardie e ladri” a Fabrizi agente di polizia che minacciava di sparare a scopo intimidatorio: io non mi intimido). Il presidente del Consiglio, che si voglia liberare di un ministro sgradito, deve sperare che ci sia una mozione di sfiducia individuale , che per la verità finisce per rafforzare la posizione del ministro stesso..
I Costituenti ebbero insomma la paura dell’uomo solo al comando, dopo venti anni di governo del “duce”, di un capo del governo con forti poteri che potesse cedere alla tentazione di una torsione autoritaria del suo modo di governare. Quante volte, durante i governi di centrosinistra, negli Anni Sessanta e Settanta, davanti a certi atteggiamenti eccessivamente moderati della Dc e a risultati programmatici giudicati insoddisfacenti, i socialisti furono tentati di rompere l’alleanza, ma interveniva Nenni a frenare, ad ammonire, a non favorire, per reazione, lo spostamento a destra degli equilibri politici. Si temeva insomma un ritorno del fascismo. E lo stesso Nenni parlò, a proposito di tentativi di golpe, di un tintinnare di sciabole.
La paura di un rigurgito fascista o di un golpe insomma mosse Berlinguer a proporre il compromesso storico.
Allora c’era più di un fondamento per questo discorso. Di questi tempi, francamente, tornare ad agitare lo spettro del fascismo che trotna, come fece l’attuale opposizione dopo il disastro elettorale delle scorse elezioni, sa più di propaganda, di riflesso condizionato. E’ frutto di una lettura della realtà insufficiente. Un’analisi della realtà non viziata dal pregiudizio politico è la migliore condizione per fare una opposizione basata sui fatti e non sugli slogan. Na su questo terreno siamo indietro, e la lezione metodologica di Berlinguer, pur nel cambiamento dei tempi, può dare qualche utile spunto.
Cosa resta, insomma, in termini di analisi di metodologia politica e di principi di governo, di quella “storica” proposta, storica tanto che se ne ricorda il cinquantenario?
Resta l’eccessiva schematizzazione delle posizioni e dei ruoli politici, e un monito a liberarsene. Esempi ce ne sono. Moro: è stato rappresentato da certa pubblicistica politica come il cavallo di Troia dei comunisti nella cittadella del potere. Una raffigurazione indegna, non consona alla statura e al pensiero di Moro, ma soprattutto frutto di scarsa intelligenza degli avvenimenti e delle situazioni.
Perfino nel discorso fatale del 28 febbraio 1978 che portò al varo del governo Andreotti con il Pci nella maggioranza, Moro ci tenne a sottolineare e a ricordare che la Democrazia Cristiana e il Partito comunista, pur interessati a un tratto di collaborazione per portare il Paese fuori dalla crisi, restavano però radicalmente alternativi nella concezione della libertà, nella visione della società e della persona, e soprattutto nella collocazione internazionale dei due partiti: la Dc ancorata alla scelta occidentale, il Pci all’Unione Sovietica, anche se non come vassallo ma con critiche e prese di distanza.
Alla luce di questo, appare sempre più arbitraria, oltre che esteticamente discutibile, la statua eretta nel Comune di Maglie, dove Aldo Moro, originario di quel paese salentino ma barese per elezione (nel duplice senso di scelta di vita e di elezioni politiche), è scolpito in grandezza naturale avendo sotto il braccio una copia del giornale comunista l’Unità. Nientemeno. Una semplificazione, una distorsione, una alterazione della verità storica, una festa per gli occhi di chi guarda alla politica e agli eventi della storia con l’abitudine agli slogan.
Mario Nanni – Direttore editoriale