A proposito di “il fatto non sussiste” e di alcuni sillogismi illogici: tre considerazioni sul processo di Palermo

Una riflessione in merito al procedimento che ha visto imputato Matteo Salvini: alla fine, se è l’immunità della politica che si vuole, lo si dica apertamente. E si abbia il coraggio di modificare l’articolo 68 della Costituzione

Poche considerazioni a margine del processo di Palermo, che ha visto imputato, poi assolto, il ministro Salvini.

La prima. L’assoluzione è con la formula “perché il fatto non sussiste”. Si tratta, certamente, della formula assolutoria più ampia e, tecnicamente, significa che il fatto, quale descritto nell’imputazione, non è riconducibile al paradigma normativo delineato dalle norme incriminatrici (nella specie: gli artt. 605 e 328 c.p., rispettivamente per i delitti di sequestro di persona e rifiuto od omissione d’atti d’ufficio).

Più nello specifico: con riferimento al sequestro di persona, significa che non sono stato ravvisati dai giudici elementi tali da far ritenere che vi sia stata una apprezzabile limitazione della libertà fisica delle persone offese, intesa quale possibilità di movimento nello spazio  da loro occupato, mentre con riferimento alla seconda imputazione, significa che il rifiuto opposto dal Ministro alla sbarco non è stato considerato “indebito”, probabilmente perché, secondo i giudici, il ministro non era tenuto a concedere alla nave Open Arms il c.d. POS (“place of safety”, ossia porto sicuro), quale ultimo atto dell’operazione di salvataggio che la stessa aveva compiuto.

Si tratta, ovviamente, di ipotesi, non essendo nota la motivazione della sentenza, ma di ipotesi plausibili.  Poco plausibile pare, invece, la “motivazione”, letta su alcuni giornali, secondo cui il sequestro di persona, già in radice, non avrebbe potuto essere configurabile perché la norma proibirebbe di “uscire”, mentre nella fattispecie in esame si trattava di “entrare” (nel territorio dello Stato italiano). Sul punto è sufficiente rilevare che, in astratto, il delitto in parola può configurarsi anche nel caso di mero impedimento allo sbarco (ove dovuto), posto che, in tal modo, risulterebbe comunque realizzata quella condotta limitativa della libertà personale dei migranti, costretti a restare comunque forzatamente confinati all’interno della nave.

Il ministro Matteo Salvini - Foto LaPresse
Il ministro Matteo Salvini – Foto LaPresse

Seconda considerazione. Si è detto che il processo nei confronti del ministro Salvini non avrebbe neppure dovuto sorgere, in quanto (sono parole del ministro Nordio) “fondato sul nulla”, come dimostrato proprio dalla sentenza di assoluzione.

Sul punto un’osservazione: se fosse effettivamente così, si dovrebbe ritenere che ogni processo che si concluda con una pronuncia di piena assoluzione “non avrebbe mai  potuto sorgere”; e, dunque, per converso, che un processo può ritenersi correttamente instaurato solo nei casi in cui la decisione finale sia quella di condanna. Il che, sul piano dei principi, potrebbe anche avere un suo fondamento, dal momento che una pronuncia assolutoria vale quale smentita della prospettazione accusatoria e ne rivela l’infondatezza. Si tratta, tuttavia, di un paradosso che trascura un piccolo particolare: una conclusione siffatta costituirebbe, ex se, la negazione stessa del processo.

Ed invero, la validazione o la smentita dell’accusa consegue solo – e necessariamente – all’esito di un processo, ossia della sola condizione possibile perché un giudice, terzo ed imparziale, acquisite in contraddittorio le prove offerte dalle parti (o, eccezionalmente, anche d’ufficio), valuti se l’accusa sia fondata – e, dunque, affermi la penale responsabilità dell’imputato – ovvero se la stessa sia infondata o resti sfornita di prova e, dunque, pronunci sentenza di proscioglimento o di assoluzione. Si chiama fisiologia del processo.

Se, al contrario, per ritenere corretto l’operato dell’organo che sostiene l’accusa, si dovesse ritenere che ogni processo dovrebbe necessariamente concludersi con una sentenza di condanna (o – il che è lo stesso – che i processi definiti con sentenza di piena assoluzione “non avrebbero potuto sorgere”), significherebbe che del processo non vi sarebbe bisogno alcuno, o che esso costituirebbe solo una fictio,  come accade di solito nei regimi totalitari in cui a prevalere è solo l’Accusa ed il ruolo del giudice si riduce, a tutto concedere, a quello di una “foglia di fico” che nasconde le vergogne del potere.

Per altro verso, che la fattispecie all’esame dei giudici di Palermo non sia stata, poi, così semplice – come certe dichiarazioni “interessate” sembrerebbero prefigurare – lo dimostra proprio la “storia” del processo: la “notitia criminis”, dopo un primo avallo di massima della Procura, è stata portata all’esame del Tribunale dei ministri, che ha escluso il fumus persecutionis (ossia ha negato che il Ministro abbia agito a “tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un interesse pubblico”), concedendo l’autorizzazione a procedere. Questo è stato il solo momento “politico” della vicenda.

Al termine delle indagini un giudice – il Gip – ha disposto il rinvio a giudizio.  Ha, quindi, avuto inizio il dibattimento, che si è snodato per 24 udienze e la durata di tre anni. Infine il Tribunale – lo si ripete: terzo ed imparziale – ha pronunciato la sentenza al termine di una camera di consiglio protrattasi per oltre otto ore (a riprova che la decisione non è stata così semplice come qualcuno sembra ritenere). Le motivazioni diranno il resto.

Giustizia: l'aula di un tribunale italiano - Creative Commons
Giustizia: l’aula di un tribunale italiano – Creative Commons

Semmai, se un rilievo si può muovere, è proprio nell’eccessiva durata – tre anni – del processo. Durata che sarebbe stata sensibilmente inferiore se il collegio giudicante avesse potuto concentrare il dibattimento in 4-5 udienze mensili (come avviene di regola in Corte d’Assise). Ma il Tribunale di Palermo non aveva sul ruolo solo il processo nei confronti di Salvini, perché chiamato ad occuparsi, nel frattempo, anche di altro, in particolare di processi di mafia o di processi con imputati detenuti, che richiedono una trattazione prioritaria.

Forse il ministro Nordio è proprio di questo – ossia della dotazione di mezzi e strutture e di una più efficiente organizzazione dell’attività giudiziaria – che dovrebbe occuparsi e preoccuparsi, così da consentire una più celere trattazione dei processi, dal momento che – come comunemente ritenuto, a far tempo da Cesare Beccaria – il processo è già, di per sé, una pena e se eccessivamente lungo è una pena… doppia.

Terza e ultima considerazione (altre ce ne sarebbero, ma renderebbero l’articolo eccessivamente lungo). L’esito del processo ha confermato, come detto, quella che è la sua normale fisiologia: un organo, il Pm, sostiene l’accusa; un imputato (nella specie il ministro Salvini) si difende; un giudice, terzo ed imparziale, giudica ed emette la sentenza. Nella specie una sentenza di assoluzione, che vale ex se a relegare la tesi dell’appiattimento del giudice sull’operato del Pm a mera speculazione politica (la medesima conclusione può farsi anche per il procedimento a carico di Matteo Renzi, a Firenze, in cui un giudice, in esito all’udienza preliminare, ha ritenuto mancassero i presupposti per il rinvio a giudizio, non ravvisando nelle “carte” dell’indagine la possibilità di “una ragionevole previsione di condanna”).

Ad onta di ciò, le considerazioni di certa politica e di alcuni organi di stampa – che pure hanno rilevato (bontà loro) che esistono anche “giudici retti” (tali, per costoro,  sono generalmente ritenuti quelli che emettono pronunce favorevoli) – si sono risolte, al postutto (e come sempre, ormai), nell’ennesimo attacco frontale alla magistratura, per giustificare la impellente necessità di una riforma della giustizia che contempli la separazione delle carriere.

In presenza di una sentenza di assoluzione. Figurarsi cosa sarebbe accaduto in caso di condanna.

Ora quello della separazione delle carriere è divenuto, ormai, un argomento stucchevole, posto che, ancor più dopo la riforma Cartabia, la separazione esiste già nei fatti (lo dimostrano le statistiche). In realtà ciò che si vuole davvero è una riforma della giustizia che, grazie allo “schermo” della separazione delle carriere e delle altre misure previste dal ddl all’esame delle Camere, “normalizzi” la magistratura, minandone o, quanto meno, limitandone fortemente autonomia e indipendenza attraverso la sottoposizione del Pm al controllo dell’esecutivo. Perché controllando il Pm si finisce, correlativamente, per controllare anche il giudice.

È evidente, del resto, la pretestuosità di certe argomentazioni.

Il giudice condanna, o rinvia a giudizio? Allora si appiattisce sulle posizioni del Pm.

Il ministro alla giustizia Carlo Nordio - Foto LaPresse
Il ministro alla giustizia Carlo Nordio – Foto LaPresse

Il giudice assolve? È inconferente, perché statisticamente “si tratta di percentuali irrisorie” (lo ha sostenuto, senza arrossire, il Presidente dell’Unione delle Camere penali), sicché proprio l’assoluzione di Palermo dimostrerebbe la necessità della riforma (sic), così da impedire alle Procure di “fare politica”. Un sillogismo illogico e privo di fondamento.

In realtà, a fronte dell’assicurazione formale che la riforma manterrebbe in ogni caso l’autonomia e l’indipendenza del Pm come del giudice (sen. Bongiorno), proprio tali prese di posizione tradiscono quello che ne è il vero intendimento.

Se, infatti, le carriere di giudici e Pm sono, in concreto, già separate e se non esiste alcun appiattimento dei Giudici sulle Procure (come dimostrano la Sentenza di Palermo, il proscioglimento di Firenze e, ancor più, la percentuale di assoluzioni, ormai vicina al 50%), quello che effettivamente si vuole è la sottoposizione del Pm all’esecutivo, così da evitare in radice che la “politica”, di qualunque colore, possa essere “giudicata” (secondo una vulgata peraltro risalente nel tempo, che vuole che ogni processo che riguardi un uomo politico sia, per ciò stesso, un “processo politico” e si traduca in un’invasione di campo della magistratura nei confronti della politica).

Ma se è l’immunità della politica che si vuole, lo si dica apertamente e si abbia il coraggio di agire di conseguenza: si modifichi l’art. 68 della Costituzione e si ripristini la vecchia autorizzazione a procedere per qualsivoglia reato. Anzi, per par condicio, la si estenda anche ai Presidenti di regione, ai Sindaci e ai Consiglieri regionali, provinciali e comunali.

Così, finalmente, l’immunità politica sarà completa (con tanti saluti all’art. 3 della Costituzione) e… vivremo tutti felici e contenti E la magistratura potrà tranquillamente processare solo mafiosi, stupratori, delinquenti di strada o, al più, poveri cristi.

Roberto Tanisi – Magistrato, già presidente di tribunale e di corte d’appello

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