Luigi Einaudi e l’ideale europeista

150 anni dalla nascita del grande economista, poi presidente della Repubblica

Sebbene il nome di Luigi Einaudi venga pronunciato con rispetto, ciò non sempre corrisponde a una reale conoscenza delle sue opere. Se in particolare volgiamo la nostra attenzione all’ideale europeista, ben pochi sono coloro che conoscono il suo impegno; e, ancor meno, sono quanti sanno che, senza il suo magistero, non ci sarebbe stato il Manifesto di Ventotene. Quasi paradossalmente, sul sito dell’Unione Europea si può trovare una lista di «pionieri», su alcuni dei quali ci sarebbe molto da dire, ma manca il nome di Einaudi.

Il federalismo einaudiano ha abbracciato un lungo arco temporale. Egli stesso ha autobiograficamente rammentato le circostanze in cui è maturato il suo primo scritto di ispirazione europeista. A seguito della guerra dichiarata nel 1897 dalla Grecia all’impero Ottomano, per il possesso di Creta, le flotte unite di Inghilterra, Francia, Russia, Italia, Germania e Austria erano subito intervenute per porre fine all’occupazione greca dell’isola. Il che aveva offerto l’occasione al grande giornalista britannico William T. Stead, poi morto nell’affondamento del Titanic, di «scrivere una biografia immaginaria degli Stati Uniti d’Europa e a me, probabilmente prima di altri in Italia», ha ricordato lo stesso Einaudi, «di dire che ormai il diritto di pace e di guerra si era ristretto alle sei maggiori potenze». Il richiamo einaudiano è all’articolo apparso su La Stampa, esattamente il 20 agosto del 1897, in cui si trova fra l’altro la seguente affermazione: «la nascita della federazione europea non sarà meno gloriosa solo perché nata dal timore e dalla sfiducia reciproca e non invece dall’amore fraterno e dagli ideali umanitari».

La sovranità

A distanza di poco più di vent’anni da quel suo primo scritto, Einaudi è tornato sul tema della federazione europea. Fra il luglio del 1917 e l’ottobre del 1919, ha pubblicato sul Corriere della Sera quattordici lettere con lo pseudonimo di Junius, un nome già utilizzato nella pubblicistica inglese. Due di queste lettere sono dedicate al tema del federalismo. Con la prima, che è del gennaio 1918, egli ha cercato di rispondere a una specifica domanda: «La Società delle Nazioni è un ideale possibile?». È uno scritto in cui Einaudi si è soffermato su varie esperienze storiche: sulla rivalità delle antiche città greche di fronte al nemico persiano, sul Sacro Romano Impero, sulla Santa Alleanza. Ma il suo sguardo si è posato soprattutto su due documenti della storia degli Stati Uniti d’America: la costituzione votata dal Congresso nel 1776 e approvata dagli stati nel 1781 e quella «approvata dalla convenzione nazionale il 17 settembre 1787 ed entrata in vigore nel 1788. Sotto la prima, l’unione nuovissima minacciò ben presto di sgretolarsi; sotto la seconda, gli Stati Uniti divennero giganti.

Ma la prima parlava appunto di “confederazione e di unione” dei tredici stati […] e dichiarava che ogni stato “conservava la propria sovranità, la propria libertà e indipendenza e ogni potere, giurisdizione e diritto non espressamente delegati al governo” centrale. La seconda invece non parlava più di “unione di stati sovrani”, non era più un accordo fra governi indipendenti; ma derivava da un atto di volontà dell’intero popolo, il quale creava un nuovo stato, diverso e superiore agli antichi stati». I «sette anni di vita, dal 1781 al 1787, della “società” delle tredici nazioni americane erano stati anni di disordine, di anarchia, di egoismo, tali da far rimpiangere a molti patrioti il dominio inglese […]. La confederazione, appunto perché era una semplice “società” di nazioni, non aveva una propria indipendente sovranità».

Einaudi ha tratto dalla storia americana argomenti per sottoporre a un primo vaglio critico il progetto wilsoniano della Società delle Nazioni, composta da stati titolari di una «sovranità assoluta». Ha contrapposto a tale progetto quello degli Stati Uniti d’Europa, costituiti sulla base del principio federalista, argomento su cui è tornato con una lettera di Junius del 28 dicembre 1918, che ha per titolo «Il dogma della sovranità e l’idea della Società delle Nazioni». L’attacco all’idea sovranista è frontale: «Bisogna distruggere e bandire per sempre il dogma della sovranità perfetta […]. Lo si può e lo si deve fare, perché esso è falso, irreale […]. La verità è il vincolo, non la sovranità degli stati. La verità è l’interdipendenza dei popoli liberi, non la loro indipendenza assoluta […]. Lo stato isolato e sovrano, perché bastevole a se stesso, è una finzione dell’immaginazione […] non esistono stati perfettamente sovrani, ma unicamente stati servi gli uni degli altri; uguali e indipendenti perché consapevoli che la loro vita medesima, che il loro perfezionamento sarebbe impossibile se essi non fossero pronti a prestarsi l’un l’altro servigio». «Se di qualcosa dobbiamo lamentarci è di non avere proceduto abbastanza sulla via dell’abdicazione alla sovranità». I problemi derivanti dall’anarchia internazionale e dalla scarsità di risorse non si risolvono con il dominio del mondo, ma con la pacifica cooperazione.

Quanto sostenuto da Einaudi non è una semplice petizione di principio. C’è dietro la consapevolezza che la «maggiore scoperta» del genere umano è costituita dalla comprensione che gli uomini possono vivere «insieme in pace e con vantaggio reciproco», senza doversi sottoporre a una gerarchia di fini coercitivamente imposti. Ecco perché Johan Huizinga, gran conoscitore di Erasmo e di quanto questi ha in particolare sostenuto ne Il lamento della pace, non ha esitato a scrivere: «Non conosco più profondo e rovinoso allontanamento dalla ragione umana di quello costituito dalla barbara e patetica illusione nutrita da [Carl] Schmitt nei confronti del principio dell’amico-nemico. Le sue immani cogitazioni non hanno neppure un valore logico-formale. Quel che è veramente importante non è infatti la guerra, ma la pace […]. Solo superando la miserevole relazione amico-nemico, gli esseri umani acquistano la dignità della condizione di uomo. La pretesa “serietà” di Schmitt ci fa solamente regredire al livello dei selvaggi». Ciò significa che quanti ritengono che la cooperazione sociale sia un gioco a somma positiva unicamente fra gli appartenenti a un determinato gruppo (sociale, nazionale o razziale) devono spiegare perché non lo sia fra tutti e perché lo sia esclusivamente all’interno delle formazioni da loro indicate.

La moneta

Posto dinanzi alla tragedia della Seconda guerra mondiale, Einaudi ha ribadito che la «via d’uscita» non avrebbe potuto essere una «società di nazioni», ma una «federazione economica». E così, in un saggio del 1943, ha preso in considerazione i problemi connessi alla questione monetaria: «La rinuncia degli stati singoli federati al diritto di emissione sarebbe per essi garanzia efficace di buona finanza. Quando uno stato non può ricorrere, sotto nessun pretesto, al facile mezzo di procacciarsi entrate col torchio dei biglietti, esso sarà costretto a fare una buona finanza. Imposte e prestiti rimangono le sole maniere di entrata a sua disposizione; e ai prestiti lo stato non può ricorrere se non entro i limiti nei quali sappia procacciarsi la fiducia dei risparmiatori, ossia quando faccia una sana finanza». Diviene in tal modo impossibile il «malgoverno della circolazione entro i limiti dei singoli stati; ed è tolta così di mezzo una causa potente di inflazione, con le conseguenze antisociali che ne derivano e sono stati la causa più importante degli sconvolgimenti politici e sociali europei dopo il 1914». Ovviamente, Einaudi aveva ben presenti i grandi processi inflazionistici vissuti negli anni Venti dalla Germania e dall’Austria (sulle vicende tedesche, Costantino Bresciani Turroni aveva scritto una straordinaria opera).

Il tema è stato affrontato anche in uno scritto dell’anno successivo. Einaudi ha qui ha scritto: «Il disordine attuale delle unità monetarie in tutti i paesi del mondo, le difficoltà degli scambi derivanti dall’incertezza dei saggi di cambio tra un paese [… e, ancor di più,] dalla impossibilità di effettuare i cambi medesimi hanno reso evidente agli occhi di tutti il vantaggio che deriverebbe dall’adozione di un’unica unità monetaria in tutto il territorio della federazione». Sarebbe abolito il «diritto dei singoli stati federati di battere moneta propria con denominazioni, pesi e titoli propri e di istituire banche centrali con diritto di emissione indipendente di biglietti […]. Il vantaggio del sistema non sarebbe solo di conteggio e di comodità nei pagamenti e nelle transazioni interstatali. Per quanto altissimo, il vantaggio sarebbe piccolo in confronto di un altro, di pregio di gran lunga superiore, che è l’abolizione della sovranità dei singoli stati in materia monetaria. Chi ricorda il malo uso che molti stati avevano fatto e fanno del diritto di battere moneta non può avere dubbio rispetto alla urgenza di togliere a essi siffatto diritto. Esso si è ridotto in sostanza al diritto di falsificare la moneta».

Einaudi ben sapeva che una dilatazione della circolazione monetaria può avere effetti favorevoli soltanto nell’intervallo di tempo in cui il processo sequenziale di riaggiustamento dei prezzi non giunge a completamento. Gli era parimenti noto che tale processo determina una variazione dei prezzi relativi. E non gli sfuggiva che un’improvvida gestione della moneta, con un saggio di interesse artificiosamente basso, comporta un’alterazione del meccanismo di allocazione intertemporale delle risorse. Il che genera una distorsione della struttura produttiva e conduce, poiché i piani formulati sulla base di dati adulterati non possono essere portati a compimento, a una distruzione di capitale.

Tutto ciò era stato analizzato, in vario modo e in varia misura, da Richard Cantillon, David Hume, Henry Thortnon, David Ricardo. John Stuart Mill aveva visto nei sistemi monetari nazionali una forma di «barbarie». Ma Einaudi ha potuto disporre di materiali più recenti. Si pensi all’introduzione, scritta da Friedrich A. von Hayek, all’edizione tedesca dell’Essai sur la nature du commerce en général di Cantillon, pubblicata in traduzione italiana su La Riforma Sociale; si rammenti l’edizione tedesca di Prices and Production, che Hayek stesso gli ha inviato e che Einaudi ha fatto recensire sulla propria rivista; e si consideri The Great Depression di Lionel Robbins, la cui traduzione italiana è stata voluta da Einaudi e che fornisce, attraverso la teoria austriaca del ciclo economico, il primo sistematico tentativo di spiegare la “grande depressione”.  

Non solo. Bisogna aggiungere le riflessioni più dirette sul superamento, tramite la creazione di una federazione europea, del nazionalismo monetario. Robbins aveva messo a confronto la «pace e la ricchezza» degli Stati Uniti d’America con il «caos e l’anarchia delle disgraziate nazioni europee». E Hayek aveva richiamato l’attenzione sul fatto che l’abolizione delle barriere economiche fra gli stati federati sarebbe stata l’indispensabile condizione per il raggiungimento dei principali obiettivi della federazione. Tutt’e due avevano sferrato un durissimo attacco al nazionalismo monetario. Robbins riteneva che, fra «tutte le forme di nazionalismo economico», quello monetario fosse la forma «più perniciosa». E Hayek pensava che un «sistema di monete nazionali indipendenti» sarebbe stato sempre causa di conflitto economico sul piano internazionale. Entrambi si erano inoltre spinti a porre in discussione la riserva bancaria centralizzata. Il che è culminato, in anni più recenti, nella proposta hayekiana di «denazionalizzazione» della moneta.

Einaudi non è giunto alle conclusioni di Robbins e di Hayek. Ma si è ugualmente collocato fra i più severi critici del nazionalismo monetario. Nel suo progetto federale, c’è l’idea di affidare la moneta a un unico istituto di emissione. Utilizzando un linguaggio a noi più vicino, si potrebbe dire che, a livello europeo, Einaudi ha individuato nella creazione di una specifica «area monetaria» la soluzione del problema. E ha fatto ciò, basandosi sul presupposto che la moneta unica non sarebbe stata gestita come lo erano state le varie monete nazionali.

La federazione fra politica ed economia

Einaudi non si nascondeva i problemi. Riteneva che, se gli «uomini di stato» non avessero trovato la «formula mediatrice fra le piccole patrie spirituali e l’unità del mondo economico, le prime, e non la seconda», sarebbero state «distrutte». Nella sua mente, la federazione europea non avrebbe dovuto essere una riproduzione ingrandita degli stati interventisti. L’avanzamento della «libertà di scelta», realizzatosi nel corso dell’Ottocento, è stato visto come una «subordinazione della politica all’economia».

Nel Novecento, «si vuole invece che il politico […] subordini a sé gli interessi economici e li costringa a lavorare nell’interesse dello stato». Ma ciò produce solamente un «arrembaggio» alle risorse pubbliche: una situazione in cui la «vittoria economica non spetta ai migliori produttori, ma ai più abili nel procacciarsi influenze sul governo» e sugli enti pubblici interni ed esterni. Lo stato che vuole «dominare l’economia è […] fatto servo dei peggiori fra gli uomini che governano i singoli rami economici, peggiori perché non scelti in ragione della loro abilità tecnica o commerciale, ma in quella della loro capacità di intrigo».

Occorre pertanto comprendere che «l’indipendenza dell’economia dalla politica» significa al tempo stesso «indipendenza della politica dall’economia». Ecco perché, nella prospettiva di Einaudi, ma anche di Robbins e di Hayek, il governo federale avrebbe dovuto coincidere con la limitazione dell’intervento pubblico.

Tale obiettivo avrebbe potuto essere favorito dal fatto che un mercato sottratto al controllo dei singoli stati rende più difficile la richiesta di protezioni politiche e l’«arrembaggio» alle risorse pubbliche. Ossia: Einaudi riteneva che l’habitat dell’interventismo fosse costituito dagli ambiti angusti. Scriveva: «quanto più il mercato è ristretto, tanto più fioriscono all’ombra della protezione […] i monopolisti e i privilegiati e tanto più il popolo dei consumatori è taglieggiato dai plutocrati, i quali nascondono la loro merce avariata con appelli al patriottismo, all’indipendenza nazionale, all’autarchia». Pensava che il federalismo potesse porre rimedio a tuto ciò. E potesse di conseguenza impedire quella conflittualità connessa a ogni tipo di attività redistributiva; conflittualità che diviene ancora maggiore allorché gli uomini al potere provengono da nazionalità diverse.

A tal fine, la federazione avrebbe dovuto fornire una «struttura» normativa «permanente, dentro cui l’iniziativa individuale potesse avere la più grande estensione e potesse operare il più vantaggiosamente possibile». Solo così la federazione avrebbe potuto essere il mezzo attraverso cui voltare le spalle alle sanguinose vicende belliche fra le nazioni europee, integrare le economie sulla base della cooperazione volontaria e realizzare una chiara demarcazione dei confini fra attività economica e attività politica.

La preoccupazione maggiore di Einaudi riguardava l’agricoltura. Egli ben sapeva della lunga lotta che era stata necessaria in Gran Bretagna per abolire le Corn Laws. Non gli sfuggiva la nota affermazione di Ricardo, secondo cui «il prezzo del grano non è alto perché viene pagata una rendita, ma una rendita viene pagata perché il prezzo è alto». Era pertanto contrario alle protezioni doganali, che costituiscono un costo per la collettività, impossibilitata a soddisfare la propria domanda in forma più economica. E giudicava parimenti dannoso e ingiustificabile ogni aiuto alla produzione interna, attuato allo scopo di garantire l’artificiosa sopravvivenza di attività inefficienti. Era ben consapevole che quelle utilizzate per favorire particolari gruppi di operatori sono risorse sottratte al sano svolgimento della vita produttiva e all’accrescimento del benessere sociale.

Ne discende che, nella visione di Einaudi, la federazione avrebbe dovuto «avere il potere negativo di impedire ai singoli stati di interferire» arbitrariamente con l’attività economica, ma non avrebbe dovuto avere il «potere positivo di agire al loro posto».

Il Manifesto di Ventotene

Nel 1945, Einaudi ha scritto: «Oggi, vi è in Italia un gruppo di giovani, temprati dalla dura scuola della galera e del confino nelle isole, il quale è deliberato a mettere il problema della federazione in testa a tutti quelli i quali debbono essere discussi nel nostro paese». Il «gruppo di giovani» a cui Einaudi si riferiva era costituito dagli autori del Manifesto di Ventotene. La vicenda è raccontata dallo stesso Einaudi: «Non senza viva commozione, ricevetti, durante i lunghi trascorsi anni oscuri, una lettera scrittami dal carcere da Ernesto Rossi, nella quale mi ricordava [quanto avevo scritto riguardo all’Europa] e mi diceva il suo deliberato proposito di voler operare per tradurre in realtà l’idea federalista. L’opera si è sinora forzatamente limitata, dentro e fuori del confino, in Italia e all’estero, a convegni, ad opuscoli, fogli tiposcritti e giornaletti a stampa. Sia consentito [… a me] di aggiungere, agli opuscoli già divulgati in materia, una professione di fede».

Tutto ciò coincide con quanto rammentato da Altiero Spinelli nella sua autobiografia: «La guerra, che stava tornando sulle terre d’Europa, indusse Ernesto Rossi e me a meditare più da vicino sui rapporti fra stati ed in particolare sul significato della povera Società delle Nazioni, di cui le democrazie erano andate fiere e che aveva così miseramente fallito. Scovammo così un volume di scritti di Luigi Einaudi […], nel quale erano riprodotti alcuni suoi articoli pubblicati sul Corriere della Sera (…) sotto lo pseudonimo di Junius […]. Sollecitato da Rossi, che come professore di economia aveva da tempo l’autorizzazione a corrispondere con lui, Einaudi gli mandò due o tre libretti della letteratura federalista inglese fiorita sul finire degli anni ’30 per impulso di Lord Lothian. Salvo il libretto di Robbins, The Economic Causes of War, che poi tradussi e fu pubblicato dalla casa editrice Einaudi, non ricordo né i titoli né gli autori degli altri. Ma la loro analisi del pervertimento politico ed economico cui porta il nazionalismo, e la loro presentazione ragionata dell’alternativa federale, mi sono rimaste fino ad oggi nella memoria come una rivelazione».

Nessuno può ovviamente negare i limiti del Manifesto di Ventotene. Essi sono dovuti al fatto che i suoi estensori non avevano ancora del tutto assorbito gli insegnamenti della teoria liberale. Ma non dobbiamo dimenticare che esso è nato sotto l’influenza di uomini come Einaudi, Robbins e Hayek. E non dobbiamo inoltre trascurare che combattere il nazionalismo e l’anarchia dei rapporti interstatuali mediante l’idea federativa significava per Spinelli (e gli altri estensori del Manifesto) evitare la «costituzione di un impero militarista basato sul principio della signoria dei vincitori e della servitù dei vinti».

L’Europa realizzata

Fra gli obiettivi del progetto federativo, Einaudi annoverava la costituzione di un «esercito comune». Al riguardo, egli ha affermato: «La federazione sarebbe un nome vano, si ridurrebbe ad una inutile e dannosa società delle nazioni se non disponesse di una forza propria, atta a difendere il territorio federale contro le aggressioni esterne e ad impedire le guerre fra gli stati aderenti». Le vicende di oggi mostrano quanta lungimiranza ci fosse nelle parole di Einaudi.

Nell’Unione Europea, non c’è solamente ciò che non è stato fatto; c’è anche quel che è stato fatto male. Il che non ci deve tuttavia impedire di vedere anche i passi che abbiamo compiuto. Possiamo allora chiederci se è questa l’Europa che Einaudi, Robbins, Hayek, Rossi, Spinelli intendevano realizzare; e la nostra risposta può essere negativa. Einaudi ha avuto sempre chiara la consapevolezza che gli «ostacoli» non sarebbero stati «certamente» di facile superamento, ma riteneva che, per attenuare le difficoltà, bisogna evitare di proporsi il raggiungimento di un «ideale di perfezione». Nel suo ultimo intervento a Strasburgo, lo stesso Spinelli ha reso manifesta la sua insoddisfazione e la necessità di un rinnovato e più attento impegno federalista.

Tutto ciò delinea due possibili posizioni. Quella di coloro che non intendono rinunciare all’idea federalista, ma vogliono sottrarre l’Unione Europea al suo perverso interventismo, alla sua insistente attività di regolazione amministrativa e alla sua incompiutezza. Sono quanti comprendono che la politica attuata costituisce spesso un palese danno per lo sviluppo della cooperazione volontaria e per il benessere sociale. E c’è, ben diversa, la posizione di coloro che sognano il ritorno al passato. Sono i nostalgici dei nazionalismi (francesi, tedeschi, italiani o di altra origine), che non vogliono una «carta della libertà» e che non hanno alcuna possibilità di darci, a livello politico e a livello economico, ciò di cui abbiamo bisogno. Possono solo peggiorare la nostra situazione. Perseguono infatti un interventismo che è diverso da quello di Bruxelles, solamente perché è di tipo provinciale; e potrebbe essere ancora più asfissiante. Costoro nascondono a se stessi e agli altri – che lo facciano intenzionalmente o meno non ha alcuna importanza – le ragioni che nel secondo Dopoguerra hanno imposto ai popoli europei di abbracciare la via della loro integrazione.

Ne consegue che, esattamente come avevano indicato i padri fondatori, il progetto federalista potrà raggiungere i suoi obiettivi solo se, opponendosi al «governo degli uomini» e ai suoi arbitrii, saprà essere «governo della legge». In uno scritto nel marzo del 1954, Einaudi ha affermato: «Nella vita delle nazioni di solito l’errore di non saper cogliere l’attimo fuggente è irreparabile. La necessità di unificare l’Europa è evidente. Gli stati esistenti sono polvere senza sostanza […]. Solo l’unione può farli durare. Il problema non è fra l’indipendenza e l’unione; è fra l’essere uniti o scomparire […]. Il tempo propizio per l’unione è soltanto quello durante il quale dureranno nell’Europa occidentale i medesimi ideali di libertà. Siamo sicuri che i fattori avversi […] non acquistino inopinatamente forza sufficiente a impedire l’unione; facendo cadere gli uni nell’orbita nordamericana e gli altri in quella russa?».

Einaudi aveva perfettamente ragione. Bisogna saper cogliere l’«attimo fuggente». Occorre evitare che le situazioni si capovolgano e che, da favorevoli, diventino sfavorevoli o, forse, è necessario comprendere che non è sufficiente proclamare gli ideali una volta per tutte. Bisogna lottare sempre per essi. Soprattutto, se l’Unione Europea non è quella che vogliamo, tocca a noi fare in modo che lo sia.

 

Relazione tenuta a un convegno in parlamento sulla figura e l’opera di Luigi Einaudi

 

Lorenzo Infantino – Economista, sociologo. Presidente della Fondazione Friedrick A. von Hayek 

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