All’inizio degli anni Sessanta due bambini di poco più di dieci anni, immersi nel cinema contemporaneo e destinati a fare del cinema il loro mestiere, entrano al Louvre accompagnati dai genitori e restano folgorati da due grandi scene di massa: La Libertà guida il popolo (28 luglio 1830) di Eugène Delacroix e Napoleone incorona Giuseppina di Jacques-Louis David.
È il primo ricordo di Enrico Vanzina del suo ingresso in un museo, in compagnia del fratello Carlo, della madre Maria Teresa Nati e del padre Steno. Non sembri strano che il primo museo visitato da due bambini figli di un regista che abitava a Roma sia stato il Louvre. Allora il Louvre era “il” museo, e anche ora funziona così (a giudicare dalle uscite ripetute di un politico nostrano che l’anno scorso ha proposto di svuotare tutti i musei romani per creare una specie di Louvre da visitare in un’unica sede).
Per gli artisti visitare il Louvre in quel periodo equivaleva a entrare in una sorta di luna park che forniva coordinate e segreti da trasferire nella pittura (la grande protagonista degli ambienti più visitati del Louvre) e nel cinema. Il Louvre, tra l’altro, con i suoi grandi spazi da percorrere lentamente (o di corsa, come i tre ragazzi di Godard e Bertolucci nella Grande Galerie), e tutti i musei in generale, richiedono una forma di fruizione familiare a chi fa cinema e teatro: ogni opera esposta in un museo è strappata dal proprio contesto originario ed è una cosa inanimata se non c’è uno spettatore che la guarda, trasformandola di nuovo in opera d’arte.
Si tratta di un meccanismo di fortuna del museo presso gli artisti messo a fuoco nel 1967 in un libro ormai classico, Louvre, mon amour. Undici grandi artisti in visita al museo più famoso del mondo (tradotto per Johan & Levi Editore nel 2012 da Ximena Rodríguez Bradford) nel quale Pierre Schneider raccoglie i dialoghi con undici artisti scelti accuratamente (tra i protagonisti delle conversazioni ci sono Marc Chagall, Joan Miró, Alberto Giacometti, Barnett Newman) per sentire cosa avevano da dire davanti alle opere durante una visita al museo più famoso del mondo.
Del resto, gli anni Cinquanta e Sessanta sono gli anni in cui in Italia l’accresciuta familiarità con le tecniche narrative e i lavoratori del cinema (primo tra tutti Umberto Barbaro) permette a Roberto Longhi di ripensare, in meglio, la lingua e il montaggio delle immagini con i quali raccontare a stampa proprio la pittura, a partire da quella di Caravaggio.
Enrico Vanzina è uno dei non numerosi artisti italiani che scrivono. Vanzina non scrive soltanto sceneggiature.
Scrive articoli di costume, società, letteratura e spettacolo per la rubrica domenicale “Che ci faccio io qui?” su “Il Messaggero”, e romanzi. Tra il 2018 e quest’anno ha pubblicato tre romanzi gialli ambientati in tre città: La sera a Roma (così, senza punteggiatura, come mi spiegò quando uscì), Una giornata di nebbia a Milano e ora Il cadavere del Canal Grande.
A Roma Vanzina è nato e abita, a Milano ha vissuto per qualche tempo e ha ambientato film importanti, Venezia è una città d’arte che si presta a una storia di misteri anche perché è sede della festa in maschera più celebre del mondo. Per una trilogia di romanzi su tre città italiane scritti da un lettore colto come Vanzina viene in mente anche un rinvio concettuale alla formula del diario autobiografico attraverso il racconto disteso su tre città, come fece Stendhal: senza fare spoiler, in Il cadavere del Canal Grande i generi letterari si mescolano e si fondono in una scrittura che sembra già pronta per un film, di cui è protagonista il venticinquenne pittore bretone Jean de Briac che va a Venezia per collaborare con Tiepolo alla decorazione della chiesa della Pietà (e torna la voglia di rileggere Tiepolo e l’intelligenza figurativa di Svetlana Alpers e Michael Baxandall, tradotto per Einaudi da Michele Dantini nel 1996: oltre che di andare a rivedere il miglior documentario sull’artista, Gli abissi del Tiepolo, condotto da Tomaso Montanari nel 2020 con la regia di Luca Criscenti per la RAI).
Vanzina è uno degli intellettuali meno snob che io conosca perché è veramente colto, per certi versi anche più di certi miei colleghi che colti dovrebbero essere per mestiere e per dovere; invece tra chi fa il mio mestiere ci sono alcune delle persone più orgogliosamente ignoranti nelle quali sia possibile imbattersi nel corso di una vita e io stessa mi accorgo ogni giorno di non sapere tutto ciò che dovrei e vorrei sapere.
Come è naturale aspettarsi nella vita di un artista che pensa per creare immagini e scriverne, l’esistenza quotidiana di Vanzina è fatta di persone vere e soprattutto di persone che vivono nella letteratura e nelle arti visive: “amici virtuali, scrittori, poeti, romanzieri, commediografi”, li definisce lui. E ci scappa un’affermazione degna di Midnight in Paris di Woody Allen: “La Parigi di Gertrude Stein è come se l’avessi frequentata”. Una mescolanza tra una realtà non sempre interessante e immaginazione ardente che è costante quando si interroga un artista che è anche scrittore; davvero funziona così per tutti i mestieri implicati con la ricerca, le immagini e la scrittura.
Nel dialogo che abbiamo avuto, Vanzina scrive con sintesi apodittica di tradizione (“Il cinema è camaleontico, ripropone sempre degli stilemi del passato, aggiornati”), di storia dell’arte che per lui coincide con la pittura (“l’arte è “eleganza’”, “in alcuni film ho cercato di rappresentare l’eleganza”) e del ruolo inesorabile dell’adolescenza nelle felicità e infelicità future, spiegandolo attraverso i libri: “Il sesso non lo capisci se non hai letto Updike o Nabokov”.
Come ha fatto Tommaso Ragno nella conversazione che ha preceduto questa e come faccio pure io, anche Vanzina mette Nabokov nel canone degli autori dei libri che spiegano la vita e aiutano a restarci dentro. Effettivamente, in quella specie di parodia di trattato scientifico e autobiografia che apre il tremendo e meraviglioso Lolita, Nabokov spiega con implacabilità chirurgica attraverso quali inesorabili meccanismi proveremo sempre e comunque la stessa forma di desiderio per lo stesso tipo di persona con la quale avremmo voluto vivere e morire quando eravamo adolescenti.
Questa immagine fisica può derivare dall’immaginazione, cioè dalla realtà recitata da qualche attore a teatro e al cinema e dal cui desiderio non ci si libera più, o dalla frequentazione vera e propria di una coetanea o un coetaneo in carne e ossa, come succede al futuro professor Humbert a partire dalla “fase Annabel”. Da adulti finiremo sempre per essere sedotti dalla nostalgia di ciò che abbiamo desiderato da adolescenti, cercando per sempre l’incantesimo iniziale, vero o fittizio, consumato o interrotto, in un’altra persona con le stesse sembianze e la stessa età di allora, rendendo irreparabile “la crepa che percorre” la nostra vita, ubriachi “del passato impossibile”.
Dopo le folgorazioni al Louvre, verso “i sedici anni” Vanzina “banalmente” prende “una cotta per Picasso”. Intorno al 1965 non è così banale appassionarsi a ciò che fa Picasso, che anche mediaticamente è il personaggio del momento: nel 1964 la pittrice Françoise Gilot, l’unica donna che non ambiva a diventare “la vittima o la martire” di Picasso, aveva divulgato ufficialmente a stampa in lingua inglese in tutto il mondo chi era Picasso anche in privato nel libro, scritto con Carlton Lake, Life with Picasso.
Ottimo viatico per avvicinarsi anche all’opera di Picasso per la prima volta, La mia vita con Picasso (ristampato da Donzelli nel 2016) era stato subito tradotto in italiano nel luglio 1964 per volontà della stessa Gilot da Garibaldo Marussi, scrittore, poeta, letterato, critico e storico d’arte, fondatore e direttore del mensile “Le Arti”, e dalla moglie Liana Marussi (di queste vicende mi sono occupata nel libro Le conseguenze delle mostre. II. Dare forma al vuoto: la tradizione nella Performance Art, uscito nella collana “Monografie” di “Horti Hesperidum” nel 2021).
Proprio Picasso, capace di innovare e di prendere le distanze da tutte le avanguardie, voleva appendere le sue tele in mezzo ai capolavori della Grande Galerie del Louvre per vedere se “tenevano”, cioè “se possedevano anch’esse quel quid che le accomuna alle grandi creazioni di tutti i tempi e che gli stessi pittori, glissando sull’oscurità del termine, chiamano bello, al pari del pubblico, forse soddisfatti di trovare in esso quel barlume di permanenza evocato da Mallarmé: ‘Non vedo svanire nulla che sia stato bello nel passato’” (cito da Pierre Schneider, Louvre, mon amour, p. 19).
Nei film scritti da Enrico Vanzina con il fratello Carlo ci sono anche riferimenti concreti e corretti al mercato dell’arte e ai destinatari privilegiati di truffe perpetrate smerciando falsi, oppure alla presenza di quadri grandi nelle case dei ricchi che li acquistano come beni di posizione. In entrambi i casi, si tratta di quadri del Novecento. In Un matrimonio da favola (2014), Casimiro Guallinetti (Teco Celio) mostra a un cliente russo della sua banca il suo ultimo acquisto per la propria casa di Zurigo: “è un Paul Klee del ’32. Ho fatto un affarone. Figurati che l’ho appena comperato per soli 7 milioni di dollari”.
Soprattutto una scena di In questo mondo di ladri (2004) spiega meglio di qualunque pagina di storia del mercato dell’arte e del collezionismo che a partire dall’inizio degli anni Novanta certe case romane (e non solo) sono piene di falsi realizzati in serie perché i mercanti li vendano come originali.
Lo esemplifica il personaggio del falsario Gastone, interpretato da Ricky Tognazzi, il cui padre Ugo fu tra i primi tra la gente del cinema a comprare quadri originali di Mario Schifano degli anni Sessanta non direttamente presso il pittore ma dalla Galleria La Tartaruga che lo rappresentava a Roma.
Gastone riceve i complimenti da Fabio (Carlo Buccirosso) per i “quadri veri-falsi” che il falsario realizza nella casa in cui è agli arresti domiciliari. Gastone è impegnato a finire un falso Particolare di propaganda con il logo della Coca-Cola, ma in precedenza ha realizzato altri Schifano messi in vista dalla macchina da presa: un Segno di energia con il logo della Esso, un monocromo, un albero e pure un falso Giovane che guarda Lorenzo Lotto di Giulio Paolini.
Tutti questi “quadri veri-falsi” hanno dimensioni diverse, ridotte o maggiori, rispetto agli originali che imitano (per esempio, il falso Paolini di Gastone è un quadro grande, mentre la tela emulsionata di Paolini del 1967 misura 24 x 30 cm). La relativa semplicità delle tecniche e la relativa facilità di approvvigionamento dei materiali hanno contribuito davvero ad accrescere il numero delle contraffazioni dei quadri di Schifano dei quali, a un certo punto, i mercanti suscitano una notevole richiesta (me ne sono occupata nel capitolo V di Con lo Zingarelli sotto il braccio. I libri per Mario Schifano, uscito quest’anno nella collana “Il Bosco Parrasio” dell’Accademia dell’Arcadia).
La Pop Art italiana, la cosiddetta “Scuola di Piazza del Popolo”, è costantemente presente nel lavoro di sceneggiatore di Vanzina e nelle immagini in cui vive quotidianamente. Nel 1987 Enrico ha realizzato con Carlo I miei primi quarant’anni, il film tratto dall’autobiografia dell’amore più tormentato di Franco Angeli (nel film è il personaggio corrispondente a Roberto D’Angelo), Marina Ripa di Meana. Un’opera a tecnica mista su carta di Schifano e gli Half Dollars di Angeli sono alla base di uno dei fotocollage digitali che Vanzina ha esposto l’anno scorso alla mostra personale Variazioni Pop a Torino, consolidando una recente attività di fotografo del tutto logica per un professionista del cinema che è figlio di un regista che era anche un disegnatore.
Nelle domande che ho mandato a Vanzina ho dovuto, quasi inevitabilmente, ricorrere un paio di volte a episodi della biografia professionale di artisti e storici dell’arte che hanno frequentato le case romane di suo padre Steno e di Luchino Visconti. Frequentazioni comuni tra casa Vanzina e casa Visconti fanno mettere a fuoco che a un certo punto ci fu una sorta di passaggio di testimone.
Il grandissimo Visconti fu colui che mise insieme, nell’episodio sublime di Boccaccio’70, Il lavoro (1962), la ex Sissi tutta sorrisi Romy Schneider futura perturbante Elisabetta in Ludwig e il futuro ‘er Pirata’ ed ‘er Monnezza’ Tomas Milian. Tutto si tiene guardando al neofascista con la zazzera bionda sinistramente simpatico, alla sua fidanzata carina disinibita mai misteriosa, all’aristocratica volgare in Fendi-Lagerfeld sposata a un golpista, al bellissimo figlio di poveri passato dalla storia dell’arte alla lotta armata e infine alla vita da mantenuto tra vacanze in montagna e pranzi al mare, al professore ferito capace di avere rapporti emotivi solo con gli oggetti, che Visconti obbliga a riunirsi in Gruppo di famiglia in un interno: nel film del 1974 si incontrano i personaggi e il clima culturale (ormai poco Mozart e mal cantato, tanto Cristiano Malgioglio-Iva Zanicchi e Caterina Caselli, una falsa palma di Schifano in casa, tanto importa solo che sbrilluccichi come una vera, la voce alta e tanta ignoranza, ecc.) che poco dopo si trasformeranno progressivamente negli uomini, nelle donne e nei loro figli, nipoti e parenti anziani delle sceneggiature e regie dei fratelli Vanzina più rappresentative per la narrazione della società ricca e berlusconiana italiana: Le finte bionde, Via Montenapoleone, Yuppies, la serie di Vacanze di Natale ecc.
A leggere il dialogo con Vanzina finisce anche stavolta che i riferimenti vanno cercati dentro e fuori la disciplina che si pratica, ma più spesso soprattutto fuori, e che la morale che vale per tutti è: leggere, guardare, osservare tutti i giorni.
D.: Enrico Vanzina, hai raccontato nella tua rubrica di domenica 11 dicembre 2022 su “Il Messaggero” che Steno, che aveva anche frequentato l’Accademia di Belle Arti e sapeva disegnare benissimo, ha incoraggiato te e Carlo a conoscere la storia dell’arte, in particolare la pittura, per affrontare al meglio il lavoro nel cinema. Hai ricordi precisi di visite a chiese, mostre e musei con vostro padre che ti hanno particolarmente formato e di letture di libri di storia dell’arte ugualmente legati alle predilezioni o ai consigli di Steno? Nel tuo articolo elenchi gli artisti adatti a un ideale “campionato del mondo di pittura”: sono pittori che hanno fatto anche gli scultori come Michelangelo, Modigliani, Picasso, Degas, Gauguin, De Kooning ecc. La scultura ti attrae meno o ha avuto un posto nelle tue predilezioni figurative?
R.: Ho un ricordo indelebile. Parigi, primi anni ’60. Per mano a papà e mamma, Carlo ed io entriamo al Louvre. Restammo folgorati. Come quando anni dopo andammo a Disneyland. Non parlammo mai durante le due ore di visita. Scoprimmo tutta in una volta la potenza della pittura. Papà ci spiegava con leggerezza cosa rappresentano i colori e le visioni su tela della realtà. Fu come vedere un film. Quello che è incredibile è che La Gioconda fu il quadro che piacque di più a me e a Carlo. Evidentemente quel quadro ha qualcosa in più anche agli occhi di due bambini. Anche il famoso quadro di Delacroix sulla libertà alla guida del popolo mi entrò nel cuore.
Carlo invece rimase colpito dal quadro di David sull’incoronazione di Napoleone. A casa aveva molti soldatini di epoca napoleonica e si entusiasmò. Quello fu il primo impatto con la grande pittura. Negli anni successivi, Papà ci portò al Prado, alla National Gallery, agli Uffizi. E in quasi tutte le grandi chiese delle capitali europee. I suoi consigli diventarono sempre più precisi. Diceva che se mai avessimo fatto il cinema dovevamo amare Paolo Uccello e i fiamminghi. Io rimasi molto colpito da Goya e dagli impressionisti. La pittura francese mi ammaliò. Amavo i colori. Solo verso i sedici anni cominciai a capire l’astrattismo. E, banalmente, presi una cotta per Picasso. E quando ero già grandicello ebbi la stessa cotta per Hopper. Forse il più cinematografico di tutti. La scultura invece non l’ho mai capita del tutto. Mi spaventa un po’ perché mette troppo in risalto le forme. Io preferisco le allusioni della pittura. Ma è un mio limite.
Per me la pittura è la vita raccontata con delle immagini e dei segni stesi su tela. La nostra vita non ha senso senza il contatto con le parole scritte dei libri, le immagini in movimento del cinema, le note orchestrate della musica, le visioni solide della scultura, ma soprattutto senza i colori, le suggestioni, le intuizioni e le rappresentazioni grafiche della pittura.
Perché abbiamo bisogno della pittura? Uso un gioco di parole: abbiamo bisogno della pittura perché la pittura è un bisogno. Quale? Quello di vedere le stesse cose che percepiamo attraverso i nostri sensi, nel corso del quotidiano, filtrate dagli occhi di chi, rispetto a noi, “vede” più in profondità. Un ritratto di Rembrandt, per esempio, ci mostra un volto, ma lo fa mettendo in risalto molti dettagli che a noi sfuggirebbero se ci trovassimo di fronte a quel volto. Si tratta di dilatazioni delle proporzioni, modificazioni della luce, sfumature di colore, tessitura della pelle, insieme a impercettibili tocchi che ci riportano “l’anima” di chi è stato ritratto.
La stessa cosa succede quando osserviamo in un museo certi paesaggi della natura, penso a Turner, o a Claude Lorrain, o a Van Gogh, o a Matisse, o a Fattori, o addirittura agli sfondi dei quadri di Leonardo. Questi spettacoli naturali, su tela, prendono una forma “significante”. Cosa intendo? Che sono una finzione usata per rappresentare il vero. Il vero non esiste. È sempre modificato da un punto di vista. Culturale, sentimentale, tecnico, storico. Un tramonto visto da un gruppo di turisti è pressoché lo stesso per tutti. Il pittore, invece, ce lo riporta come non lo avevamo percepito. Limando l’apparenza (la quale spesso è un banale luogo comune) e mettendo al suo posto una “interpretazione”. Che non è vera. Ma ci svela il vero.
Quello che sto cercando di dire, con fatica perché l’argomento è complesso, diventa ancora più comprensibile se parliamo di pittura astratta o contemporanea. Di fronte ai quadri di Picasso, o di Dalì, o di Klee, o di Pollock, o di Rothko, ma anche se osserviamo i racconti a colori della Pop Art, o i sacchi di Burri, o i tagli di Fontana, fino all’arte povera di Boetti o a quella concettuale di Sol Lewitt, la pittura ci svela la realtà con metodologie sempre più sofisticate. Abbandona la bidimensionalità, oppure percorre le strade dell’inconscio, si affida alle geometrie, propone accostamenti antropologici, provoca, stimola. Lo scopo, però, è sempre quello della pittura classica. Dare un senso alle cose che ci circondano. Sistemarle all’interno di un perimetro critico per far crescere la nostra sensibilità percettiva.
Mi ha sempre accompagnato una frase del pittore romagnolo Alberto Sughi: “Il lavoro del pittore non finisce con il suo quadro; finisce negli occhi di chi lo guarda”. Insomma, vi sto dicendo di uscire di casa, entrare in un museo e guardare. Questo semplice movimento deambulatorio vi farà vivere meglio. Vi farà capire meglio. Vi spiegherà molte delle cose che appesantiscono la vostra esistenza proprio perché le avete sempre viste male. E vi darà gioia. Una inspiegabile gioia che consola l’anima.
D.: Hai un’esclusiva con la Galleria Biasutti &Biasutti di Torino, dove hai esposto l’anno scorso la tua serie di fotocollage digitali alla mostra Variazioni Pop, sul tema della cultura pop americana tra i Sessanta e i Settanta. I tuoi fotocollage, che avevi cominciato a esporre anche in altre sedi dal 2018, contengono riferimenti al mondo delle immagini in cui sei quotidianamente immerso: gli attori, i libri che ami, i quadri che vedi tutti i giorni, l’universo della moda che è stato così importante per vari vostri film. Si tratta anche dell’evoluzione contemporanea del figlio di un bravo disegnatore che diventa fotografo e che guarda alle immagini quotidiane e ai mezzi che le veicolano come facevano gli artisti pop italiani e americani, soprattutto Schifano e Warhol.
R.: Negli ultimi anni ho approfondito la fotografia. Sui monitor delle nostre televisioni, sui tablet, sugli schermi dei cellulari, è un continuo scorrere di immagini le quali “storicizzano” il tempo. Fotografando riesco a mettere insieme il cinema e qualche ricordo della pittura. Forse una rivincita sul fatto che non so disegnare. Farò un’altra mostra in primavera.
D.: Giuliano Briganti, grande conoscitore e storico dell’arte vicinissimo a Roberto Longhi, frequentava casa vostra. Quando ci siamo conosciuti, ormai molti anni fa, la prima cosa che mi hai raccontato quando ti ho detto che ero una storica dell’arte e che stavo scrivendo un libro su Salvator Rosa riguardava una perizia che Steno chiese a Briganti per un quadro in casa vostra. Briganti avrebbe dovuto stabilire se si trattava di un’opera attribuibile all’artista scrittore napoletano. L’attenzione dell’editoria scientifica storico-artistica per le varie attività di Briganti ha avuto tre uscite recenti importanti: i libri gemelli Giuliano Briganti-Roberto Longhi, Incontri. Corrispondenza 1939-1969 e Giuliano Briganti, Roberto Longhi, a cura di Giovanni Agosti (usciti nel 2021 per Archinto).
Nel libro pubblicato un paio di mesi fa per cura dello stesso Agosti, Giovanni Testori, Luchino (Feltrinelli 2022; con un ricchissimo apparato di note e due saggi, è adesso il lavoro di riferimento sulle fonti e le predilezioni figurative di Visconti) la familiarità di Briganti con i contesti più alti del cinema e del teatro italiani emerge chiaramente: per dirne un paio, spetta a Briganti l’expertise (scritta sul retro della fotografia del dipinto presente nel Fondo Visconti) del quadro più antico posseduto da Visconti in via Salaria, visto da Enzo Siciliano, il giovanile La partita a carte del caravaggesco pittore di Taverna Mattia Preti. Spetta pure a Briganti l’ingresso nella bibliografia scientifica del ritratto di Visconti fatto da uno dei più raffinati artisti-scrittori del Novecento, ma anche uno dei più falsificati, Filippo De Pisis, i cui rapporti con Visconti cominciano nel 1939, continuano con entusiasmo ai tempi di Ossessione e finiscono, forse, nel 1947 (tutte queste notizie sono frutto della ricerca di Agosti confluita in Luchino, pp. 237, 342-343).
Nel 1949 in occasione della tua nascita, De Pisis ha regalato una sua natura morta a Steno. Puoi precisare il rapporto tra Steno e De Pisis? Che ricordi hai tu di Briganti?
R.: Briganti venne due volte a casa nostra. Sua figlia stava a scuola con me. Una volta fece una expertise su un quadro attribuito a Salvator Rosa. Ma era della “scuola di”. La seconda volta venne a giudicare due “ponti” che papà aveva comprato su consiglio di Leo Longanesi, attribuiti a Vanvitelli. In realtà venne fuori che erano di Paolo Anesi [molto probabilmente sono Veduta del Tevere, Roma con l’isola Tiberina e il Ponte Quattro Capi e Veduta del Tevere, Roma, Ponte Rotto e l’isola Tiberina, olio su tela, ciascuno cm 31 x 40,5, in cornice, riemersi in asta il 6 ottobre 2009 a Vienna, Palais Dorotheum, accompagnati dalle perizie di Briganti, propenso alla totale autografia, e di Laura Laureati, incline a credere alla mano di un collaboratore; i quadri sono descritti ma non illustrati sul sito della casa d’aste).
Quei quadri mi furono lasciati da Steno ma mia madre, che era in lite con me, li ha venduti sotto al naso… La perdono. Era una donna complessa, bipolare. La sua vita è stata una lunga cavalcata nella disperazione. Quanto al quadro di De Pisis, che conservo tutt’ora, mi fu dedicato dall’artista quando nacqui. La cosa incredibile di questo quadro è che rappresenta una penna e un calamaio. De Pisis aveva già intuito che da grande avrei fatto lo scrittore. Papà amava molto i pittori. Era amico di Orfeo Tamburi che andammo a trovare a Parigi. E di Avenali. E di Maccari. E a Cortina passeggiava spesso con Campigli e Sironi.
D.: Su entrambi i versanti (visite a luoghi d’arte, a Roma e fuori; letture di libri di narrativa e specializzati), cosa hai visto e letto fin da ragazzo da solo che ancora oggi ti serve nel tuo immaginario professionale? Qui è là nei tuoi romanzi dissemini tracce rivelatrici: “Ma questo è il cinema. O almeno, a me lo hanno insegnato così. Spietato. Se no, Fitzgerald non avrebbe scritto Gli ultimi fuochi”; in un appartamento in centro a Roma “di gusto totalmente giapponese” descrivi “grandi quadri di arte americana del Novecento, Pollock e Rothko”, come se l’arredamento fosse stato impostato negli anni Sessanta-Settanta e i quadri fossero sopravvissuti alle peripezie del gusto; i camerieri che circondano un tavolo a palazzo Orsato della Torre sembrano “usciti da un quadro di Watteau” (pp. 13, 25, 39 di La sera a Roma); poi in mezzo al“la confusione esistenziale di Céline e di Joyce”, ci scappa un “adoro come parlava Holden”; e poi Sartre e de Beauvoir; “Cuore di tenebra, magnifico e potente, ma anche il sorprendente racconto di Daphne du Maurier, Rebecca la prima moglie”, entrambi alla base dei capolavori di Coppola e Hitchcock; poi Madame Bovary, Anna Karenina, Pastorale americana e “lo stanco gioco di società nei libri di Updike”, Lolita con la “copertina verde della Medusa Mondadori che ricordo ancora nella libreria di Mamma”, Colazione da Tiffany di Truman Capote, “Malamud e la Compton-Burnett”, “le memorie di Giacomo Casanova” lette a quattordici anni, Haruki Murakami, I miserabili, Furore, Il grande Gatsby, Huckleberry Finn. Soprattutto, un viatico quasi ineluttabile per un artista e uno scrittore, La recherche di Proust e la sua “melodia linguistica” iniziale della quale ricordi, un po’ da lettore filologo, la fortuna resa immortale dalla risposta di Robert De Niro all’inizio del viaggio a ritroso nella memoria di C’era una volta in America: “–Che hai fatto in tutti questi anni, Noodles? –Sono andato a letto presto” (pp. 47-48, 53-54, 58, 85, 87, 97, 101, 104-105, 152 di Una giornata di nebbia a Milano).
R.: La pittura e la letteratura mi hanno fatto compagnia nel corso della vita. Ho vissuto con amici veri e tantissimi amici virtuali, scrittori, poeti, romanzieri, commediografi. Chi fa il cinema non può fare a meno di vivere accanto alle rappresentazioni degli altri. Proust e Vermeer per me sono la stessa cosa. La Parigi di Gertrude Stein è come se l’avessi frequentata. Rothko è un compagno di pensiero. Quando invento un film cerco sempre un appiglio in qualche grande romanzo. Per trovare un modo di raccontare o per far parlare i personaggi. Hemingway ha inventato il dialogo moderno. La prosa di Céline è irrinunciabile per entrare nella modernità. Il cinema è camaleontico, ripropone sempre degli stilemi del passato, aggiornati. Il sesso non lo capisci se non hai letto Updike o Nabokov. E non capisci l’Italia se non hai letto Flaiano. Il cinema è la grande rappresentazione del pensiero passato. È un parassita (sano) della grande cavalcata nell’Arte.
D.: Ogni artista si porta dietro interessi, idiosincrasie e passioni fin dall’infanzia, quando si fanno molti dei giochi che conteranno in futuro. Oltre alla presenza costante di un padre interdisciplinarmente colto e pieno di interessi come il tuo, che ruolo ha giocato l’istruzione scolastica nella tua vocazione di scrittore e sceneggiatore? Hai frequentato il liceo francese a Roma, poi ti sei laureato in Sapienza in Scienze politiche. Che studente sei stato, al liceo e all’università? Quali discipline prediligevi? C’è stato qualche insegnante che ha avuto particolare importanza nella tua formazione, insieme a tuo padre?
R.: Papà diceva: la cultura è quello che resta quando si è dimenticato tutto. Aveva ragione. Io già da studente cercavo di capire come orientarmi. Saper mettere le cose in ordine arrivando in una città, vedendo un quadro, leggendo un libro. La cultura è un continuo paragone. Io ero uno studente onnivoro. La cultura francese è stata fondamentale per capirne altre. Ma soprattutto ho istintivamente avvicinato quasi tutto con leggerezza. Odiavo la cultura pedante. Volevo solo provare emozioni. Puoi studiare Scienze Politiche e finire a fare il poeta. O suonare il pianoforte e poi fare il fisico. La cultura non è una lista di conoscenze, è un modo di interpretare la vita.
D.: Tu e Carlo siete stati i primi in Italia a realizzare un film da un romanzo dello scrittore israeliano contemporaneo Eskhol Nevo. Il suo La simmetria dei desideri è alla base di Un matrimonio da favola. In Italia Nevo è diventato così pop da scrivere per la rubrica Anatomia dei sentimenti su “Vanity Fair”. Un altro suo romanzo è stato usato da Nanni Moretti per la sceneggiatura del suo ultimo film, Tre piani. Come sceglievate tu e Carlo i libri da valutare per i film?
R.: Facile. Quelli che ci piacevano. Magari solo come intenzione. Sotto il Vestito niente [di Marco Parma uscito da Longanesi nel 1983] non lo abbiamo letto. Abbiamo fatto un film partendo dal titolo e dall’idea di fare un thriller nel mondo della moda. Ho sempre pensato che l’arte è “eleganza”. Per questo, in alcuni film, ho cercato di rappresentare l’eleganza. Ho sempre amato la moda, che è il raccoglitore più complesso del mondo moderno di tendenze industriali miste a sprazzi di arte pura.
D.: Sotto il vestito niente (1985) è uno dei cult assoluti del cinema italiano degli anni Ottanta. Il film documenta anche un momento di storia della scultura pubblica contemporanea perché vi si vede in azione il Grande disco (1972) rotante di bronzo di Arnaldo Pomodoro che era dal 1980 in piazza Meda a Milano. La scelta di riprendere la scultura in movimento è stata casuale o una vostra scelta di stile?
R.: Scelta voluta. Volevamo dare l’idea di una città italiana che cambia forma con il tempo. Quel disco di Pomodoro è una sorta di manifesto dell’anima di Milano. Votata al nuovo. Correndo naturalmente rischi enormi. Il contemporaneo passa rapidamente di moda. E Milano per inseguire il futuro ha perso il contatto con una sua anima antica forse più autentica.
D.: Da storica dell’arte mi interessa la scelta di uno scrittore di cinema di scrivere romanzi di genere. Per la storia dell’arte il giallo è il genere narrativo per eccellenza, insieme al romanzo, legato alle forme di composizione e di narrazione di un testo scientifico: anche lo storico dell’arte mette insieme un paradigma indiziario alla ricerca di un assassino (l’artista, l’iconografia, la provenienza di un’opera ecc.). Non a caso Federico Zeri, che era soprattutto un conoscitore e poi, a volte, anche storico dell’arte, era un onnivoro lettore di gialli ed era convinto di possedere la maggiore raccolta privata di gialli in Europa. I vostri film gialli sono stati in qualche modo sperimentali: Sotto il vestito niente combina vari generi in quello del giallo. Tre colonne in cronaca, in cui avete adattato nel 1990 il libro di Corrado Augias e Daniela Pasti del 1987 facendone un giallo sul fenomeno delle concentrazioni editoriali (la scalata Berlusconi a Mondadori e la competizione con De Benedetti) e su esperienze nella redazione di “la Repubblica”, aveva Gian Maria Volonté protagonista, la fotografia di Luigi Kuveiller, storico collaboratore di Elio Petri, e la colonna sonora firmata da Ennio Morricone reduce da The Mission con Robert De Niro e Jeremy Irons. Che tipo di lettore sei stato, per arrivare a scrivere tre romanzi gialli pensati come opere autonome, non per il cinema?
R.: Leggo. Tutto qui. Ma Venezia la amo perché l’ho scoperta attraverso gli occhi di Peggy Guggenheim. Era la nonna di un mio compagno di scuola e ho frequentato diverse volte la sua casa da ragazzo. Poi Venezia è la città di Casanova. La storia della sua vita è tra i tre libri più belli della letteratura italiana.
D.: La tua voracità di lettore si riversa anche nella ricerca linguistica per i vostri film. Anche in questo aspetto della vostra professionalità è stato fondamentale vostro padre. Steno era molto attento a questioni linguistiche; per esempio, negli anni Trenta durante la sua collaborazione al “Marc’Aurelio” pubblicò un intervento in cui si interrogava sulle prime attestazioni, nel romanesco di allora, di racchia con il significato di ‘bruttona’.
Una volta mi hai raccontato che avete sempre scelto di usare l’italiano regionale quando è stato necessario, facendolo recitare ad attori in grado di parlarlo (di un’attrice molto nota mi hai detto: “non parla il romanesco perché non è nata a Roma ma vicino a Roma”); addirittura avete creato una sorta di lingua a sé, fatta di tante forme di italiano regionale quanti sono i luoghi e i gruppi frequentati dai personaggi, come nel caso di Eccezzziunale…veramente (1982). Si tratta di scelte che oggi il cinema italiano pratica spesso, sia nelle commedie sia nei film drammatici: penso, per esempio, ai ruoli interpretati da Pierfrancesco Favino tra 2018 e 2022 per Giovanni Veronesi, Marco Bellocchio e Mario Martone.
La lingua italiana, il suo uso variabile in forma scritta e orale anche nella tua arte è molto importante per te e viene prima della dimensione figurativa?
R.: Flaiano diceva che l’italiano non esiste. È la lingua dei doppiatori. L’italiano è la somma dei suoi dialetti che segnano anche un punto di vista sulla vita. Ascoltare la gente parlare è la base della scrittura cinematografica. È come la cucina. Tanti sapori e tante ricette. Si diventa scrittori se si ha orecchio. Ma per arrivare a capire che il cinema è la parola “orale” ci vuole tempo. Tutti insistono sul contenuto. Mentre il contenuto è già tutto nella lingua popolare.
D.: La maggior parte dei miei colleghi legge molto meno di quanto mi pare faccia tu e quelli davvero bravi leggono ancora e sempre moltissimo. Del resto, per scrivere, e scrivere bene, bisogna leggere ed essere costantemente immersi nell’immaginazione altrui per averne una propria. Quali libri di narrativa sono stati indispensabili per te fin da giovane e quali di questi libri ti sono ancora oggi indispensabili, nella tua emotività e nel tuo lavoro? Quanto è autobiografica la dichiarazione del protagonista di La sera a Roma (pp. 54-55)? “I libri. […] Era inutile illudermi: molti di loro, agognati da tempo, sarebbero rimasti intonsi sugli scaffali della mia libreria. Me ne sarei andato prima, senza aver mai sfiorato i Dialoghi di Platone, Tacito, Seneca, Sant’Agostino sarebbe stato un altro mio rimpianto. Così come molte commedie di Shakespeare e una parte consistente della letteratura russa. Sarei andato via senza aver letto uno dei tanti capolavori di Thomas Mann. Senza le poesie di Milton. Sartre lo avevo annusato solo da ragazzo. Forse senza capirlo. E lo stesso era successo con Malaparte, Joyce, Faulkner. E con tanti altri, troppi scrittori”.
R.: Leggere, come scrivere, deve essere una abitudine. Non aver letto la gran parte di quello che bisognerebbe leggere serve a stimolare la voglia di non arrendersi mai. I libri non letti sono dei sogni importanti. Stimolano la voglia di poterli leggere un giorno. Leggere è come amare. Non bisogna mai smettere.
Floriana Conte – Professoressa associata di Storia dell’arte a UniFoggia. Socia corrispondente dell’Accademia dell’Arcadia floriana.conte@unifg.it; Twitter: @FlConte; Instagram: floriana240877