Lo “Stato virtuale” di Enrico Letta e la “clausola della libertà preferita”

Due proposte "non troppo utopistiche" per contribuire a sbloccare lo stallo dell'Unione europea

Enrico Letta

L’Unione europea gliel’ha chiesto e lui l’ha fatto.

Enrico Letta ha compiuto un lungo viaggio nelle città d’Europa e tra persone rappresentative della società europea per redigere un rapporto sul Mercato unico. N’è venuto fuori un libro, edito dal Mulino, intitolato Molto più di un mercato. Viaggio nella nuova Europa. Delle molteplici considerazioni e soluzioni, che Letta svolge e prospetta nel rapporto, intendo occuparmi della proposta che egli stesso riassume e definisce con l’espressione “Stato virtuale”, molto suggestiva, come vedremo, anche perché sembra un’antinomia controfattuale.

Enrico Letta

A riguardo, Enrico Letta ha chiarito: “La complessità dell’Europa impone piani di lungo periodo. Ma la burocrazia è veramente troppa. Nel piano, per esempio, propongo la creazione di un ventottesimo Stato virtuale, con un proprio ordinamento commerciale. Le imprese, soprattutto quelle piccole e medie, potrebbero scegliere se usare leggi nazionali o il nuovo regolamento, unico e valido in tutta Europa. Ho trovato il favore di Cna e Confartigianato. Gli Stati Uniti ne sarebbero felici per poter investire. Ursula von der Leyen ha rilanciato il progetto nel suo discorso d’insediamento” (Sette, Corriere della Sera, 6 settembre 2024). Ed ha meglio specificato: “L’idea è quella di costruire un Ventottesimo Stato Virtuale Europeo con un suo diritto commerciale, e magari domani un suo ordinamento fiscale, e di rendere applicabile dovunque in Europa questo sistema. Un’impresa cioè che, scegliendo il diritto del 28mo Stato Virtuale eviterebbe, operando nei diversi Paesi europei, di dover passare da un sistema all’altro. Un diritto commerciale unico valido dovunque nell’Ue. Si tratterebbe di un enorme passo in avanti verso la semplificazione e l’integrazione. E lo si farebbe attraverso una opzione e non una imposizione. In molti campi infatti in Europa i negoziati per costruire normative unitarie si scontrano con la volontà degli Stati membri di mantenere alta la bandiera nazionale e di non abbandonare le proprie tradizioni normative. Superare queste frammentazioni è invece fondamentale per competere a livello globale e sfruttare fino in fondo i vantaggi del Mercato Unico. Per farlo, la scelta del 28mo Stato Virtuale con il suo ordinamento che si aggiunge e non cancella quelli nazionali mi pare l’unica pragmaticamente percorribile. Nessun timore che una aggiunta simile finisca per essere un’ulteriore complicazione. È esattamente l’opposto” (Corriere della Sera, 2 settembre 2024).

Lo “Stato virtuale”, preconizzato da Letta, merita tutta l’attenzione che invece non ha ricevuto finora, specialmente da chi, governanti nazionali e istituzioni europee, avrebbe dovuto dedicarvela.  La proposta, che ovviamente dovrà (dovrebbe!) essere configurata in ogni aspetto con precisione e realismo, contiene tuttavia, già così com’è, un nucleo essenziale da coltivare per contribuire o tentare di contribuire a sbloccare lo stallo dell’Unione europea. Non è poi così tanto utopistica quanto appare a certi frenanti europeisti tiepidi, ai quali lo status quo fa molto comodo, standosene nascosti al riparo ipocrita dell’europeismo di maniera, che consente loro “giri di valzer” e “mani libere”.  Professano l’europeismo quanto praticano l’antieuropeismo.

Lo “Stato virtuale”, il ventottesimo dell’Ue, proposto da Letta, mi ha colpito perché, senza l’ufficialità del politico italiano, ma da liberale europeista, favorevole a tentare ogni via per integrare l’attuale confederazione europea in una Federazione propriamente detta, cioè gli Stati Uniti d’Europa, nel 2001 avevo prospettato e articolato un’idea nascente dallo stesso humus, similmente impostata, ma in via di principio nel campo della giustizia anziché dell’economia. Eccone la motivazione, la spiegazione, la formula.

L’Unione europea permane incompiuta, in bilico tra confederazione disgregata e federazione sfuggente.

Il tentativo di dotarsi di una vera Costituzione è abortito nel 2005 per il rifiuto di alcuni popoli di ratificare il Trattato costituzionale. Dare una Costituzione a tante e così diverse nazioni mediante un trattato formulato da una Convenzione di delegati anziché da un’assemblea costituente eletta, è stato un grave errore di metodo e di merito. Il testo costituzionale bocciato constava di 448 articoli, prolissi e confusi. La nostra, che pure è catalogata tra le Costituzioni “lunghe”, ne ha 139. Quella americana ha 7 articoli, sebbene con più Sezioni, e 25 Emendamenti (in realtà 27 perché l’emendamento sulla proibizione degli alcolici fu prima introdotto e poi abrogato), in genere di poche righe. Ai 448 articoli del Trattato avremmo dovuto aggiungere i 54 articoli della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, proclamata solennemente nel vertice di Nizza del dicembre 2000, ma di dubbio valore giuridico vincolante da legittimare i cittadini europei ad avvalersene direttamente in giudizio. Un castello di carta e di Carte.

Eppure l’Europa, come non smette di ricordare saggiamente il presidente Mattarella, è patria di libertà e diritti, che devono essere salvaguardati e tramandati. Purtroppo sono distribuiti in ordinamenti disomogenei che non possono essere facilmente unificati a causa delle incompatibilità giuridiche e delle storiche tradizioni nazionali. Una Carta costituzionale del tipo invocato o tentato può rivelarsi inefficace. Mentre, perché funzioni, è meglio configurarla come “Costituzione aperta”, in modo da preservare e rafforzare la libertà nei suoi potenziali sviluppi. Dovremmo mirare a una Costituzione che inglobi automaticamente e dinamicamente il meglio che ciascuna nazione acquisisce in termini di libertà e diritti. Allo scopo, una lunga Carta non pare indispensabile. Invece risulterebbe efficace una disposizione immediatamente azionabile in giudizio, che scatenasse la concorrenza tra sistemi, norme, soggetti giuridici, determinando la progressiva espansione nella Ue della sfera protetta delle libertà politiche, civili, economiche, e dei diritti conseguenti.

 

Per sintetizzarne il principale carattere, ho voluto definirla “Clausola della libertà preferita” e concepirla così: “Ogni cittadino di uno Stato dell’Unione Europea potrà invocare davanti a un giudice, in qualsiasi situazione e senza restrizioni, nel proprio Stato e nei rimanenti Stati, i diritti più favorevoli riconosciuti da ciascun altro Stato ai suoi cittadini.” La clausola dovrebbe essere inserita nelle Costituzioni degli Stati dell’Unione europea o da essi ratificata come trattato.

Nel 2001, quando proposi questa “Clausola” (nel mio libriccino “Orazione per la Repubblica. Una critica della Costituzione italiana”, Liberilibri Editore, Macerata, 2001, pag. 22) ne potevo presagire gli embrionali svolgimenti giuridici effettivamente verificatisi solo in anni recenti nell’esperienza dei sistemi legali europei. Un fenomeno al quale è stato assegnato il nome, alquanto commerciale ma evocativo, di “turismo giudiziario” perché, con riguardo a poche particolari controversie, gli attori cercano d’incardinare la causa nel Paese comunitario dove esistono maggiori potenzialità e appare più facile ottenere ragione. D’altra parte, se l’Unione europea è destinata a durare e perfezionarsi, la spinta ad uniformare parti fondamentali degli ordinamenti diventerà viepiù incoercibile per effetto del principio cardinale della democrazia chiamato dai Greci “isonomia”, un nome che racchiudeva tre significati coessenziali: stessa legge, stessa uguaglianza, stessa giustizia.

Siano lo “Stato virtuale” o la “Clausola della libertà preferita” (“je suis totalement d’accord avec votre suggestion de ‘clausola della libertà preferita’. Il est important de faire connaître cette idée”, mi scrisse Pascal Salin) o altre “innovazioni comunitarie” del pari attinenti al sottostante fine politico e giuridico, resta che l’Unione europea, come dimostrano le guerre in atto, anche ai suoi confini, e i venti di guerra altrove, ha disperato bisogno della veloce e definitiva integrazione politica nella libertà, non di arrangiamenti economici e cincischiamenti amministrativi originati da una prudenza meno virtuosa che timorosa, improduttiva del salto vitale ormai indifferibile e indispensabile a realizzare finalmente, in diritto e in fatto, l’ideale federalista. Nelle parole del potente quanto allarmato monito sull’Unione europea, pronunciato quest’anno dal presidente Mattarella in Aosta il 7 settembre, “L’edificio europeo va perfezionato ed ultimato perché non può restare a lungo incompleto: non reggerebbe all’urto degli eventi della vita internazionale.” Crollerebbe. Dunque, Salus Europae suprema lex esto!

 

 

Pietro Di Muccio de Quattro

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