L’on. Fabio Rampelli, esponente di punta di “Fratelli d’Italia” (è vicepresidente della Camera) vuole sanzionare chi nella pubblica amministrazione si azzarderà a chiamare meeting quello che i patrioti definiscono riunione. Dalle fila leghiste invece spunta fuori un progetto di legge perché lo Stato riconosca il dialetto piemontese. “L’Italia non ha ancora ritenuto di valorizzarlo tra le lingue regionali e minoritarie legalmente riconosciute ma, considerata la storia di tale idioma, appare opportuno riconoscerle la valenza di minoranza linguistica storica”, afferma l’on. Andrea Giaccone (Lega), primo firmatario del testo.
Basta leggere l’unico articolo di cui si compone il progetto – che rimanda alla legge 482 del 1999 – per accorgersi che l’eventuale consacrazione normativa non relegherebbe il piemontese in una teca museale: la lingua di Vittorio Emanuele II potrebbe essere usata nei Consiglio comunali, negli atti della pubblica amministrazione e persino come strumento di insegnamento nelle scuole materne, elementari e secondarie (si potrà forse tenere una lezione sull’eccidio di Pontelandolfo nella lingua di Cialdini?).
Il piemontese, incalza l’on. Giaccone, “lo riteniamo un pilastro risorgimentale che ha contribuito alla nascita di questo Stato, merita un riconoscimento che non intacca minimamente l’unicità e la viabilità della lingua nazionale. È stata la lingua del primo Parlamento italiano”. Nel dialetto dove il “neh suona”, tuttora parlato da due milioni e mezzo di persone in Piemonte, sono state in effetti scritte auree pagine della storia nazionale: dalle prime prediche in volgare del XII secolo agli infiammati appelli di Angelo Brofferio e di Norberto Rosa per il Risorgimento italiano, dalla satira politica del medico Edoardo Ignazio Calvo alla prosa critica e scientifica del Novecento. “Nel secondo Ottocento si assiste poi a un fenomeno forse unico in Italia: la nascita di molti giornali in lingua regionale”, si legge nell’atto parlamentare.
Eleonora De Fonseca Pimentel – eroina della rivoluzione napoletana di fine Settecento – scriveva in dialetto sul Monitore proprio per farsi capire dagli ultimi. Giaccone e gli altri deputati leghisti non ne fanno invece una questione sociale: anzi ammettono candidamente che “parlare piemontese non comporta oggi alcuno stigma, come avviene invece in molte altre parti d’Italia in cui l’uso dialettale dichiara una collocazione culturalmente e economicamente inferiore. In Piemonte chi si esprime in lingua piemontese non solo non viene socialmente penalizzato, ma, anzi, l’interlocutore risponde volentieri”.
Viene da domandarsi – sia perdonata la malizia- cosa pensano i loro alleati patrioti, sempre critici con i cugini d’Oltralpe, leggendo quello che i seguaci di Alberto da Giussano affermano sui Natali del loro idioma: “La lingua piemontese presenta caratteri linguistici marcatamente diversi dall’italiano e gli abitanti delle restanti regioni, eccetto in parte quelle contigue, non sono in grado di capirlo né in forma orale né in forma scritta. Sono lampanti le affinità con il francese e con il provenzale”.
Non sappiamo come finirà la corsa, ma i vari fratelli d’Italia speriamo si mettano d’accordo anche sull’italiano. Non vorremmo che – pentiti di aver svenduto, linguisticamente parlando, alla perfida Albione il ministero dello Sviluppo economico chiamato con la locuzione di “Made in Italy” – finissero per costringerci a indicare un Atelier con il nome arcitaliano di laboratorio di moda. A quel punto solo a Torino, Biella e Asti potremmo rivendicare la filologia per evitare la multa.
Andrea Persili – Giornalista