L’aristocrazia della recitazione e una squisita mistione di Pasolini, Scorsese, Scianna e Caravaggio. “Ti mangio il cuore”, una recensione non professionale

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Dall’inizio della pandemia ho dirottato la bulimia da film dalle sale cinematografiche a tutte le piattaforme ad uso domestico possibili e sui DVD. Sono tornata per la prima volta al cinema per Ti mangio il cuore, il film (programmato nelle sale ancora mentre scrivo) tratto dal romanzo-inchiesta Ti mangio il cuore. Nell’abisso del Gargano. Una storia feroce, di Carlo Bonini, romano e vicedirettore di “la Repubblica”, e Giuliano Foschini, pugliese e inviato speciale per lo stesso quotidiano (Feltrinelli, 2019: https://www.lafeltrinelli.it/ti-mangio-cuore-nell-abisso-libro-carlo-bonini-giuliano-foschini/e/9788807493386?lgw_code=50948-B9788807493386&awaid=9507&gclid=Cj0KCQjw-fmZBhDtARIsAH6H8qji8DwCsjA7Z4aTEtdkIyosruE5OOPNcSNtOvYlBrZI7KxHFi3BkDoaAgqzEALw_wcB&awc=9507_1665076662_29bd8cf48bbfda25ad0d302c9a1650ce). 

 

La copertina della ristampa aggiornata (2022) del libro; la locandina di Ti mangio il cuore. Regia: Pippo Mezzapesa. Produzione: Indigo Film con Rai Cinema in collaborazione con Paramount + (Italia 2022)

 

Il primo trailer del film è stato diffuso lo scorso 24 agosto, il giorno in cui ho compiuto quarantacinque anni. Ho progressivamente constatato che l’opera veniva pubblicizzata fondamentalmente perché il bravo regista pugliese Pippo Mezzapesa, quasi mio coetaneo, era riuscito a convincere la famosa e attraente cantante pop trentaduenne Elodie, capace anche di esporsi meritoriamente a favore di diritti e battaglie civili, a interpretare la protagonista Marilena Camporeale per la sua prima prova da attrice.

La cantante sta catalizzando l’attenzione generale pure perché, grazie alla sua fama mediatica, il film raggiunge un pubblico giovane, coincidente con quello che seguiva già l’artista. La performance di Elodie è sorprendente e promettente: per l’artista, il ruolo da femme fatale meridionale sarà probabilmente il volano cinematografico che il ruolo di Malèna (2000) fu per Monica Bellucci: entrambe all’inizio attrici non professioniste, i loro personaggi le propongono come icone di una femminilità ancestrale, sacra e profana allo stesso tempo e in fondo assolutamente aliena dalla modernità, come le stupende Veneri siciliane fittizie che emergono dalla folla locale nelle foto di moda di Ferdinando Scianna.

 

Ferdinando Scianna, Monica Bellucci nella campagna pubblicitaria Dolce & Gabbana 1991

Elodie in Ti mangio il cuore

 

Ad Elodie è affiancato il ventiseienne Francesco Patanè, diplomato al Teatro stabile di Genova e fresco della partecipazione al film Il cattivo poeta (per cui è stato candidato ai Nastri d’argento) e alla (bella) miniserie Monterossi: in entrambe le produzioni, con Patanè c’era l’attore che interpreta suo padre in Ti mangio il cuore, Tommaso Ragno, la voce forse più multiforme e magnifica dello spettacolo italiano (soprattutto da quando manca quella malmostosa di Carmelo Bene). In primo luogo per vedere recitare il cinquantacinquenne Ragno e il settantaseienne Michele Placido nei ruoli di Michele Malatesta e Vincenzo Montanari, capofamiglia di clan mafiosi in una Capitanata pittoricamente secentesca, ho rimesso piede in un cinema.

Nella locandina del film i nomi di due dei maggiori attori italiani stanno nella sezione finale che spetta alle partecipazioni di particolare rilievo e a quelle straordinarie; ovviamente in apertura compaiono come da consuetudine quelli dei protagonisti, Elodie e Patanè; nella fascetta gialla (meno spaziosa di una locandina) che correda la ristampa del libro di Bonini e Foschini pubblicata a ridosso della presentazione del film al Festival del cinema di Venezia, compaiono soltanto i nomi del regista e della coppia di giovani protagonisti.

Il fatto è che per un’ultraquarantenne che per lavoro e per passione guarda film e serie televisive ma che va anche a teatro, legge moltissimo e compulsa audiolibri, Ti mangio il cuore è il film di Michele Placido e di Tommaso Ragno (affiancati con notevolissimi risultati da una magnetica Lidia Vitale e da un bravissimo Francesco Di Leva, appena visto come prete della Sanità nell’indimenticabile Nostalgia di Martone accanto a Ragno e a Favino): i due attori entrambi nati proprio in Capitanata (ad Ascoli Satriano e a Vieste), a Roma e a Milano sono diventati attori: Placido ha cominciato come poliziotto e ha intrapreso una carriera teatrale e cinematografica eclettica e di luminoso ininterrotto successo; Ragno ha studiato alla Civica Scuola di Teatro “Paolo Grassi”, fondata dall’omonimo impresario e giornalista con sangue di Martina Franca nelle vene insieme al triestino Giorgio Strehler (più o meno la Scuola Normale dello spettacolo). 

Riassumo i dati salienti della biografia dei due artisti, pur se notissimi a tutti i lettori miei coetanei e più vecchi di me, non solo perché una delle fisse di chi fa il mio mestiere è capire perché un artista si esprime in un modo o in un altro, risalendo alla sua gioventù e alla sua formazione. Mi piace ricordare qual è la genealogia professionale dei due attori, inoltre, perché una delle più macroscopiche pecche della divulgazione italiana è di allontanare chi di me è più giovane dalle forme e dagli interpreti più alti dell’arte moderna e contemporanea (vale per l’arte immateriale degli attori e per quella degli artisti performativi che al teatro attingono; vale per gli artisti che realizzano oggetti) a favore esclusivo di (pur capacissimi, sottolineo) artisti più giovani, per attrarre pubblico giovane. 

Un film come Ti mangio il cuore è un’occasione per avvicinare lo stesso pubblico giovane e/o disinformato che entra al cinema per vedere la cantante trentenne che esordisce nella recitazione accanto a due grandi attori professionisti che (insieme a Carlo Cecchi e a Toni Servillo, ma anche a Massimo Popolizio, a Fabrizio Gifuni, a Luigi Lo Cascio e a pochi altri) sono tra gli italiani degni di stare alla pari con le esibizioni di colleghi internazionali come Robert De Niro e Al Pacino e di lavorare con identici eccellenti risultati a teatro, in televisione, al cinema e alla radio. 

Ma tutto o quasi dipende dal tipo di pubblicità che riceve un film come Ti mangio il cuore. Alla luce di queste banali considerazioni non mi sono, quindi, unita al coro degli scandalizzati quando tempo fa un artista e imprenditore trentaduenne immerso nel presente come Fedez, nato e cresciuto nell’hinterland milanese, ha ammesso di non avere mai sentito nominare Giorgio Strehler, il genio assoluto che di Placido e di Ragno è stato uno dei mentori teatrali (l’episodio, avvenuto durante un’intervista di Fedez a Gerry Scotti per il podcast Il muschio selvaggio, è qui: https://www.ilfattoquotidiano.it/2022/06/21/la-gaffe-di-fedez-con-gerry-scotti-chi-cazz-e-strehler-raga-lui-reagisce-cosi-sui-social-si-scatena-il-dibattito/6634723/).

 

Paolo Grassi (30.10.1919 – 13.3.1981) e Giorgio Strehler (14.8.1921 – 24.12.1997)

 

Proprio Ragno, che in Ti mangio il cuore interpreta Michele Malatesta,  ha messo a confronto un presente composito, per molti aspetti decadente, con l’ âge d’or della cultura in Italia, rappresentata da Strehler e da chi, come lo stesso Ragno e Placido (protagonista nelle vesti di Calibano di un’edizione storica di La Tempesta nel 1978, dopo l’Orlando furioso con Luca Ronconi: https://milano.repubblica.it/cronaca/2022/04/19/news/michele_placido_la_mia_milano_tra_strehler_e_un_panino_alla_mortadella-345998537/), ha percorso accanto a lui e a pochi altri eccezionali maestri un tratto della sua formazione e del suo lavoro: 

“C’è una grande fortuna nel servire un re ed è quella di sentire di essere appartenuto a una aristocrazia che oggi quasi, in Italia, è introvabile, direi. Perché quando dico: ‘aver servito un re’ non è soltanto un re della scena; è proprio che cosa vuol dire, per un piccolo borghese come me arrivato dalla provincia, aver avuto la fortuna di sapere che ciò che mi differenzia è la mia immaginazione’’ (l’intervista integrale Strehler 100 | Intervista a Tommaso Ragno, del 1 giugno 2022, è sul canale You tube del Piccolo Teatro: https://www.youtube.com/watch?v=J_rVg-srez4). 

A fini pubblicitari è, in ogni caso, comprensibile e quasi sacrosanto che si punti sul nome di Elodie per attirare nelle sale anche un pubblico giovane, che legge poco o per niente libri e giornali e che altrimenti non andrebbe al cinema pagando un biglietto per vedere la trasposizione a tratti elisabettiana di una storia vera e durissima, resa sullo schermo con virtuosismi stilistici raffinati e in una lingua scabra. Le vicende del libro e del film coprono un periodo che va dagli anni Sessanta ai primi anni Duemila; espedienti in primo luogo linguistici (una lingua e un dialetto arcaici, quasi immutati) e visivi contribuiscono a collocare la vicenda fuori dal tempo, anche perché il film non si riduce alla sola storia principale, cioè il colpo di fulmine tra due giovani membri di famiglie nemiche da decenni, ma restituisce la complessità dei rapporti di amore e di amicizia. La lingua di Ti mangio il cuore, difatti, obbliga a un esercizio di attenzione che è uno dei punti di forza del film: è difficilmente comprensibile quando diventa un dialetto tanto stretto da dovere essere sottotitolato anche per chi, come me, è nata in Puglia, è andata via poco più che ventenne ed è tornata alla casella di partenza per insegnare dal dicembre 2018 nell’università che ha sede nella dilaniata Capitanata; per tali ragioni biografiche e professionali ho letto il libro Ti mangio il cuore quando è uscito e ho trovato nobilitati dalla fotografia (per la quale si veda oltre) luoghi, suoni e toni che mi sono familiari da poco più di un triennio. 

Sia il libro sia il film, pur se differenti per lingua (nel libro le affermazioni in dialetto sono rare, virgolettate nei dialoghi e comunque parafrasate), per genesi e per intenti principali, hanno valore civile prima ancora che artistico: rafforzano finalmente il lavoro degli inquirenti che ormai portano costantemente all’attenzione dei media nazionali un fenomeno mafioso ramificato, federale e ferocissimo che per decenni ha risolto i contrasti intestini con le faide tra famiglie, finché lo Stato sembrava, o decideva di essere, pressoché assente. 

La Prima Guerra del Gargano; l’organizzazione di una mafia che non sapeva di essere tale e che si scopre forte e autonoma grazie a una riunione all’Hotel Florio alla presenza di Raffaele Cutolo nel 1979; le due mafie di Capitanata, la cosiddetta “Società” di Foggia e la “Mafia dei Montanari” sul Promontorio; San Giovanni Rotondo e Vieste, tra turismo religioso e vacanziero e pizzo pagato volontariamente prima ancora che venga richiesto e per il quale si arriva perfino a emettere regolari fatture; le vittime sfigurate regolarmente o date in pasto ai maiali anche se si tratta di bambini (pp. 72-73: a tale episodio realmente accaduto ai Ciavarella il 28 marzo 1981 mi pare si ispiri liberamente l’inizio del film, retrocedendo la strage al 1960 e facendo poi partire dal 2004 le vicende da adulto dell’unico sopravvissuto alla strage, coincidente altrettanto liberamente con Ragno-Malatesta); le armi da guerra, di dimensioni e calibro sempre superiori alle effettive necessità delittuose, rapine o esecuzioni perpetrate da criminali noti con nomi di battaglia eloquenti come la “Belva del Gargano” (p. 103): tutto questo è condensato efficacemente dalle ricerche dei due autori del libro, con un risultato che illustra con un complesso chiaroscuro passato e presente della terra di Caradonna e di Di Vittorio, di padre Pio e dei Romito e dei Li Bergolis, dove per “anni Foggia e la sua provincia sono risultate al primo posto nelle statistiche nazionali della percentuale di omicidi commessi rispetto alla popolazione residente”; la terra dei Tarantino e dei Ciavarella e di Lidia Di Fiore detta Rosa, che ispirano le famiglie rivali e la figura di Marilena nel film (pp. 41, 46-49, 71-72, 74-75, 90, 108, 150, 178, 184). 

La terra nella quale succedono cose anche più efferate di quelle perpetrate in altre zone d’Italia da altre mafie per così dire storicizzate, ma che fino a pochi anni fa erano rimaste pressoché relegate alle cronache locali: “Fosse successo a Palermo, come dire, oggi tutti sapremmo cosa si intende se uno dice ‘grava di Zazzano’. E invece succede a Foggia e dunque non è una notizia. Ebbene, tutto questo ha una conseguenza. Un pieno controllo del territorio”. E la totale assenza di pentiti: dal dopoguerra al 2019 esisteva un solo collaboratore di giustizia, al quale se ne sono aggiunti altri dopo tale anno (pp. 14, 177, 200, 222). Anche questo è un aspetto della “questione meridionale”. 

Risulta intelligente e filologica la scelta di Mezzapesa di selezionare molta parte del team di Ti mangio il cuore tra attori e altri professionisti di origini pugliesi; uno degli attori ha anche garantito una dizione il più possibile vicina al vero, supportando i colleghi che, per ragioni biografiche e professionali, non praticano da decenni nella loro quotidianità il dialetto foggiano. Lo ha spiegato lo stesso regista durante un’intervista al “Corriere del Mezzogiorno”.

Il resto del cast è di grande esperienza e qualità, dai foggiani Michele Placido e Tommaso Ragno a Francesco Di Leva e Lidia Vitale, poi il protagonista Francesco Patanè. Come l’ha costruito?

“Io credo molto negli attori. In questo film era imprescindibile avere interpreti strutturati e capaci di mimesi per interpretare questi personaggi. Credo che con la direttrice del casting Teresa Monaco, anche lei pugliese, ci siamo riusciti. Lasciami citare l’attore foggiano Dino La Cecilia, che è l’anima di questo film. Oltre a interpretare uno dei Camporeale, ha fatto anche da dialogue coach per creare una lingua che restituisse la rocciosa anima garganica” (https://corrieredelmezzogiorno.corriere.it//bari/spettacoli/22_settembre_06/ti-mangio-cuore-titolo-dice-tutto-c-vendetta-insieme-all-amore-folle-4dffbfb0-2e1b-11ed-aed0-86f3fbd1f404.shtml).

Anche la colonna sonora di Ti mangio il cuore contribuisce all’ottimo risultato con le sue aspirazioni filologiche, pur se nel libro Bonini e Foschini offrono riferimenti addirittura puntuali quando ricostruiscono le azioni dei protagonisti durante le scene domestiche o che precedono estorsioni e mattanze. Francesca, moglie del superlatitante Franco Li Bergolis, identifica la propria storia in quella cantata in La mia storia con te da Alessandra Amoroso da Galatina, nel Salento (pp. 105-106 del libro). Per caricarsi prima delle spedizioni criminali a Manfredonia, Giannella, Conoscitore e Salvemini “cantavano a squarciagola” “Tutta mia la città / questa notte un uomo piangerà” che “lo stereo dell’Alfa 145 di Giannella” pompava di continuo “a tutto volume” “ (pp. 22-23 del libro); una conferma che le canzoni degli Équipe 84 fanno parte del bagaglio culturale pop della malavita organizzata tra anni Settanta e Novanta: cantando malamente a squarciagola Io ho in mente te la baby gang di Romanzo criminale celebra in auto il colpo con cui si apre il film sulla Banda della Magliana (ai rapporti di membri di primo piano della banda con esponenti altrettanto di primo piano dell’arte italiana degli anni Settanta e Ottanta ho dedicato il capitolo V del libro Con lo Zingarelli sotto il braccio. I libri per Mario Schifano, Roma 2022, liberamente scaricabile qui: https://www.accademiadellarcadia.it/notizie/il-bosco-parrasio/con-lo-zingarelli-sotto-il-braccio/). 

Le musiche originali di Ti mangio il cuore sono curate da Teho Teardo e comprendono un brano originale, Proiettili (Ti mangio il cuore), scritto e composto da Elisa Toffoli, dalla protagonista Elodie e da Joan Thiele (entrambe lo interpretano) con Emanuele Triglia, il cui videoclip è uscito il 16 settembre: Roberto Ortu lo ha girato nello scenario metafisico delle saline di Margherita di Savoia ed è stato montato con scene del film. Nella colonna sonora entrano inoltre brani pop contemporanei della vicenda raccontata: Calma e sangue freddo di Luca Dirisio (2004) fa da sottofondo al primo contatto diretto tra Marilena e Andrea nel camerino di un grande magazzino di fast fashion; Paky Malatesta canta sguaiato, forse anche strafatto di coca, El talisman di Rosana (1996) mentre guida per andare ad ammazzare l’ennesimo membro della famiglia nemica che però non gli lascia il tempo di compiere la vendetta; il tormentone Dragostea din tei (Amore sotto il tiglio) della boy band moldava O-zone cantata nel 2004 dalla italo-rumena Haiducii suona mentre i fratelli Malatesta si danno alla mattanza bestiale che nel film rievoca la strage di mafiosi e di innocenti a San Marco in Lamis del 9 agosto 2017 (pp. 155-169).

Di Dragostea din tei sono allusivi il testo (“Ciao, ciao, sono un fuorilegge / e, per favore amore mio, prendi la felicità”) e il contesto di provenienza geografica orientale: Bonini e Foschini nel libro spiegano diffusamente che i carichi di marjiuana il cui spaccio è prerogativa delle famiglie del Promontorio arrivano dall’Albania, mentre la cocaina arriva da Calabria e Campania (pp. 136, 174). Tu sì ‘na cosa grande (1964) di Domenico Modugno è la canzone d’amore del film, e ricorre in due occasioni; è il tema di un amore forte come la morte che si nutre di sangue, ma non si tratta dell’attrazione solo fisica tra Marilena e Andrea, bensì dell’amore che lega Teresa e Michele Malatesta: pochi minuti dopo l’inizio, Tommaso Ragno e Lidia Vitale che ballano stretti nell’aia lurida, sotto lo sguardo intenerito dei figli tra cani, gatti, oche e una gallina da spennare è, forse, la scena d’amore più bella, e anche straniante, del film.

 

Lidia Vitale e Tommaso Ragno in Ti mangio il cuore

 

La collocazione della vicenda del film in un tempo che, a ben guardare, potrebbe anche essere diverso da quello degli anni Duemila è raggiunta con il soccorso di un’abbagliante fotografia in bianco e nero, la vera cifra stilistica del film e, almeno ai miei occhi di storica dell’arte, un mezzo espressivo distintivo valorizzato dalle facce di Placido padre e figlio, Ragno, Vitale, Di Leva ed Elodie. Pippo Mezzapesa su tale scelta di stile ha detto:

“Istintivamente, con il direttore della fotografia Michele D’Attanasio, ci sembrava che la dettassero gli elementi della storia. La stessa ambivalenza del titolo: “ti mangio il cuore” può essere una condanna a morte e una richiesta d’amore. Il film ha queste due anime. La morte, la vendetta e l’amore folle che brucia tutto. Un contrasto che da subito mi ha suggerito i due colori, bianco e nero. […] Si gioca con il genere per andare oltre il genere”. (https://corrieredelmezzogiorno.corriere.it//bari/spettacoli/22_settembre_06/ti-mangio-cuore-titolo-dice-tutto-c-vendetta-insieme-all-amore-folle-4dffbfb0-2e1b-11ed-aed0-86f3fbd1f404.shtml).

Il mestiere che faccio richiede di tenere sempre desta la soglia dell’attenzione; so che gli artisti non rivelano mai tutte le ragioni del loro lavoro e che, anzi, depistano e giocano spesso al gatto e al topo, lasciando alla preparazione all’intuitività di chi hanno di fronte il compito di trovare tutti gli indizi da ricongiungere per spiegare genesi e significati di un’opera. Non so se Mezzapesa intendeva lasciare all’intuizione dello spettatore che la scelta del bianco e nero per un film che rientra nel genere del gangster movie (da Howard Hawks in avanti), ma anche in quello del melodramma che incrocia la storia di formazione (quella che in narrativa si chiama Bildungsroman, cioè “romanzo di formazione”, dato che Marilena e Andrea si evolvono, cambiando carattere e vita) ambisce a stare nel solco della fortuna storica delle opere del grande cinema italiano e americano, che del bianco e nero hanno fatto una scelta di stile: Mamma Roma, Accattone, Il Vangelo secondo Matteo, stanno in relazione con la dimensione visiva ed emotiva di Ti mangio il cuore, tanto più che si tratti dei riferimenti comuni ai classici elaborati da Martin Scorsese proprio in omaggio anche al cinema e agli attori di Pasolini, ma anche del Visconti di Rocco e i suoi fratelli. Ti mangio il cuore non è un capolavoro ad alto budget come Goodfellas e Casino, ma con entrambi condivide il superamento delle regole del genere: non si tratta di film sulla mafia ma di una storia di formazione e un apologo sulla fiducia e il tradimento nei quali l’uso del colore, la selezione musicale sofisticatissima, le citazioni e il montaggio travalicano i generi per crearne quasi uno a sé stante.

 Per restare nell’ambito italiano recente, Ti mangio il cuore è più manicheo ma altrettanto ambizioso di Romanzo criminale (2005), con il quale Michele Placido ha tradotto felicemente il romanzo scritto da un magistrato per raccontare un pezzo di storia italiana attraverso i percorsi personali di tre malavitosi. Ti mangio il cuore non è, tra l’altro, una parodia semiseria del genere, come a tratti sembra Lo spietato (2019, diretto da Renato De Maria, ambientato a Milano, girato a Foggia), in cui il malavitoso calabrese Santo Russo (Riccardo Scamarcio) si dichiara fiero di avere studiato “all’università di Buccinasco” per fare colpo su una pittrice francese (delle rielaborazioni visive e dei non trascurabili riferimenti del film al panorama della storia dell’arte italiana degli anni Ottanta, a cominciare da quello bolognese di cui fu prima attrice Francesca Alinovi, ho scritto nel libro Le conseguenze delle mostre. II. Dare forma al vuoto. La tradizione nella Performance Art, Roma 2021, pp. 228-231).

In ogni caso, non so se Mezzapesa ha avuto in mente, per esempio, il rapporto tra fotografia e musica pretesi da Martin Scorsese per Toro scatenato, con il bianco e nero sontuoso ottenuto da un Michael Chapman in uno stato di grazia tale da rendere epica la storia altrimenti miserabile del pugile colluso con la mafia, violento a casa e sul ring, Jake La Motta. Il ruolo garantì nel 1981 all’immenso Robert De Niro, metamorfico nel corpo e nell’uso della voce e della dizione, l’unico Oscar della sua carriera come attore protagonista (che il futuro protagonista di Re per una notte riceve recitando un discorso che nei ringraziamenti a genitori e nonni risulta perfino esilarante: https://www.youtube.com/watch?v=sH5c-WeE07c). 

Per Scorsese il bianco e nero e la colonna sonora sono scelte storicamente e visivamente filologiche (con l’eccezione anacronistica durante i titoli di testa dell’intermezzo da Cavalleria rusticana che rende commoventi i montanti di De Niro in accappatoio animalier sul ring). Infatti la memoria che Scorsese e i suoi coetanei hanno della boxe deriva dai media dell’epoca del successo di La Motta: “i nostri ricordi della boxe anni Quaranta sono in bianco e nero, come i cinegiornali e le foto di allora. Ogni scena si riferisce a una data precisa e le canzoni che si sentono sullo sfondo sono esattamente le canzoni che la radio trasmetteva in quel periodo. Nel corso del missaggio, riuscii anche a mettere in evidenza alcune parti dei testi che mi piacevano negli intervalli tra i dialoghi” (https://distribuzione.ilcinemaritrovato.it/per-conoscere-i-film/toro-scatenato/una-questione-di-stile). 

 

Martin Scorsese e Robert De Niro sul set di Toro scatenato, regia: Martin Scorsese. Produzione: Irwin Winkler, Robert Chartoff. (USA 1980).

 

Elodie e Pippo Mezzapesa sul set di Ti mangio il cuore (ho reso la fotografia in controparte)

In ogni caso, le citazioni e le rielaborazioni dai classici americani e italiani del Novecento elevano sempre al rango dell’epica vicende tormentose e sciagurate altrimenti pedestri. 

C’è un dato, però, che ai miei occhi appare eloquente più di ogni altro riferimento ai classici del cinema internazionale per spiegare compiutamente il valore del bianco e nero assoluti sulle facce e sui luoghi di Ti mangio il cuore. Il direttore della fotografia Michele D’Attanasio ha lavorato a Ti mangio il cuore mentre lavorava a L’ombra di Caravaggio, diretto da Michele Placido e di imminente distribuzione nelle sale (dal 3 novembre; mi attengo a quanto leggo sul sito personale di D’Attanasio e nell’internet in relazione alla cronologia di entrambi i film).                       

D’Attanasio ha già collaborato a opere in debito strettissimo con la storia dell’arte dirigendo nel 2018 la fotografia di Capri revolution di Mario Martone, la cui seducente dimensione visiva ha ricevuto un contributo determinante della co-sceneggiatrice e moglie del regista Ippolita di Majo, che nella vita professionale precedente ha fatto la storica dell’arte con esiti egregi. Vale per il direttore della fotografia ciò che ipotizzo a proposito del regista: non so se la necessaria familiarità con i film del neorealismo italiano e con i gangster movies americani classici e contemporanei per fare Ti mangio il cuore e la contigua familiarità con la pittura di Caravaggio per fare L’ombra di Caravaggio si è riversata in una anarchica e felice rielaborazione in entrambi i film. Non so se Mezzapesa e D’Attanasio hanno lavorato tenendo davanti gli zoom sui particolari dei quadri nel migliore libro recente in circolazione su Caravaggio, quello della Direttrice della Galleria Borghese, Francesca Cappelletti (Caravaggio. Un ritratto somigliante, Electa 2010: https://www.ibs.it/caravaggio-ritratto-somigliante-libro-francesca-cappelletti/e/9788837069506). Pasolini lavorò così per i quadri viventi di La Ricotta, portandosi sul set il libro di Giuliano Briganti sul manierismo. 

 

Pasolini crea l’iconografia di uno dei quadri viventi di La ricotta (1963) usando le riproduzioni della Deposizione di Pontormo nel libro di Giuliano Briganti, Il manierismo e Pellegrino Tibaldi (1945); la copertina di Francesca Cappelletti, Caravaggio. Un ritratto somigliante, Electa 2010.

 

In Ti mangio il cuore i miei occhi di storica dell’arte che per più di un decennio si sono immersi nella pittura e nella scultura del Seicento hanno condizionato la ricezione del film, nel quale spesso mi è parso di vedere certi passi di Caravaggio, mescolati al senso per Pasolini e per Scorsese (che non sta solo nella filologia musicale ma anche in alcune riprese di scene dinamiche drammatiche dall’alto, o nelle splendide sequenze sempre più fosche in cui il pastore Ragno-Malatesta va a morire, sonorizzate solo da un campanaccio), in certi primi piani maschili, nelle scene collettive, nell’espressione della maternità, della furia e della violenza.

 

Caravaggio, Cena in Emmaus, 1606, olio su tela, 141 x 175 cm, Milano, Pinacoteca di Brera

 

Gene Ruffini, Dominick Grieco, Pasquale Cajano, Joseph Rigano, Vinny Vella in Casino, regia: Martin Scorsese. Produzione: Barbara De Fina. Fotografia: Robert Richardson (USA 1995)

 

Giovanni Trombetta, Francesco Patanè, Tommaso Ragno, Francesco Di Leva, Daniele Sciacovelli, Lidia Vitale, Letizia Pia Cartolaro in Ti mangio il cuore

Caravaggio, Cattura di Cristo, 1602-1603, 133,5×169,5 cm, Dublin, National Gallery of Ireland

Michele e Brenno Placido in Ti mangio il cuore

Caravaggio, Giovanni Battista, 1604-1606, olio su tela, cm 94 x 131, Roma, Galleria Corsini, Inv: 433 (qui la scheda del quadro sul sito del museo: https://www.barberinicorsini.org/opera/san-giovanni-battista/); Caravaggio, Giovanni Battista nel deserto, 1604 c., olio su tela, 173×133 cm, Kansas City, The Nelson-Atkins Museum of Arts, Accession Number 52-25 (qui la scheda del quadro sul sito del museo: https://art.nelson-atkins.org);
Tommaso Ragno in Ti mangio il cuore

Caravaggio, Adorazione dei pastori, 1609, olio su tela, 314 x 211 cm. Messina, Museo Regionale

Margherita Caruso in Il Vangelo secondo Matteo, Regia: Pier Paolo Pasolini. Produzione: Alfredo Bini (Italia, Francia, 1964)

Letizia Pia Cartolaro ed Elodie in Ti mangio il cuore

 

Reagendo alle recensioni che avevano visto in Ettore sul letto di contenzione nel finale di Mamma Roma una citazione dal Cristo morto di Andrea Mantegna, il 4 ottobre 1962 Pier Paolo Pasolini scrisse a Roberto Longhi, responsabile della sua “fulgurazione figurativa” e al quale era dedicata la sceneggiatura del film. Insegnandogli la storia dell’arte all’università di Bologna il professore aveva, in verità, insegnato a Pasolini a concepire il suo cinema; a fare cinema Longhi aveva provato in prima persona nel 1948 con Umberto Barbaro, direttore del Centro sperimentale di cinematografia dal 1945 al 1948, creando nel 1948 i documentari Carpaccio e Caravaggio: Barbaro li diresse, Longhi ne fu voce narrante. Dopo questi esperimenti, a Caravaggio “inventore dei più meditati fotogrammi” Longhi dedicò la prima mostra pubblica della storia nel 1951 a Palazzo reale a Milano. Dopo la mostra, Longhi è in grado di rileggere l’opera di Caravaggio legandola da quel momento alle parole chiave e ai concetti del cinema: “campo visivo”, “taglio”, “primo piano”, “emergenza”, mettendo in secondo piano la sua “vicenda tormentosa e sciagurata”  altrimenti degna solo della cronaca nera (così Giovanni Previtali nell’Introduzione a Roberto Longhi, Caravaggio, p. XXX). 

 

L’appello di Pasolini a Longhi esce sul settimanale di area comunista “Vie Nuove”. Pasolini insieme alla citazione iconografica da Mantegna rivendica anche la complessità di una citazione di stile e, quasi, di metodo che rinvia la posta in gioco ai quadri di Caravaggio:

Ah, Longhi, intervenga lei, spieghi lei, come non basta mettere una figura di scorcio e guardarla con le piante dei piedi in primo piano per parlare di influenza mantegnesca! Ma non hanno occhi questi critici? Non vedono che il bianco e nero così essenziale e fortemente chiaroscurato, nella cella grigia dove Ettore (canottiera bianca e faccia scura) è disteso sul letto di contenzione, richiama pittori vissuti e operanti molti decenni prima del Mantegna? O che se mai, si potrebbe parlare di un’assurda e squisita mistione di Masaccio e Caravaggio?”.

L’aristocrazia della recitazione italiana e una squisita mistione di Scorsese, Pasolini, Scianna e Caravaggio: questo ho visto io in Ti mangio il cuore.

 

Floriana Conte – Professoressa associata di Storia dell’arte a UniFoggia (floriana.conte@unifg.it; Twitter: @FlConte) e Socia corrispondente dell’Accademia dell’Arcadia

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Il Censis fotografa il mondo della Comunicazione

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