La scienza come “cultura delle culture”

Riprende su BeeMagazine il dibattito sulle “due (tre) culture”, avviato con un articolo del professor Mario Capasso su “Cultura umanistica e sostenibilità”, e poi seguito da interventi di umanisti, scienziati, sociologi, scrittori, docenti universitari.Oggi pubblichiamo un contributo di Enza Biagini, prof. emerito di Critica letteraria e di Letterature comparate, dell’Università di Firenze.

“La cultura scientifica mantiene saldo il suo ruolo di bussola epistemica”.

“Una proposta che viene da neuroscienziati:  chiedono agli umanisti di recuperare una consapevolezza identitaria, di essere se stessi,  creare oggetti di bellezza, svolgere molte funzioni critiche”.

“L’orizzonte di una scienza unitaria: è questa la “prerogativa” ontologica che la cultura scientifica riconosce alle humanities”.

 

La comparatistica dei saperi è la nuova versione gnoseologica a cui dobbiamo tendere, per significare un mondo che la tecnica ci offre allo sguardo e che l’arte del comprendere deve codificare in modo multidisciplinare (C. A. Augieri, Il mito delle due culture, quale distrazione di riconoscimento, “BeeMagazine”, 26 febbraio 2022, p. 8).

Si impone il doppio imperativo antropologico: salvare l’umanità e salvare la diversità umana. Sviluppare le nostre identità nel contempo concentriche e plurali: quella della nostra etnia, quella della nostra patria, quella della nostra comunità di civiltà, quella infine di cittadini terrestri. Siamo impegnati, a livello dell’umanità planetaria, a continuare l’opera essenziale della vita che è resistere alla morte. (Edgar Morin, I sette saperi necessari all’educazione, Milano, Cortina, 2001, p. 80).

Sul finire degli anni Sessanta Piero Bigongiari, studioso, poeta e allora professore, usava inaugurare il suo corso di letteratura italiana moderna e contemporanea (una disciplina di recente acquisizione all’Università di Firenze), dedicando preliminarmente alcune lezioni ad illustrare l’importanza delle scoperte scientifiche del primo Novecento e ci sorprendeva nel “raccontare” le teorie della relatività, le scoperte sulla fissione dell’atomo, il principio di indeterminazione di Heisenberg, i quanti di Max Planck, l’epistemologia di Elya Prigogine, sottolineandone, a latere, il fondamentale contributo delle scienze umane alla cultura italiana (ma non solo: la psicanalisi, la linguistica, la cibernetica, l’antropologia, la sociologia).

Il rituale era inusitato e il suo era veramente un corso dalle prospettive aperte, dove gli eventi letterari, le figure poetiche, i movimenti tra avanguardia e (già) neo-avanguardia venivano rigorosamente contestualizzati entro un vasto terreno culturale di contaminazione artistica (cinema, fotografia, pittura – tanto il Seicento fiorentino quanto l’ informale – Lotto, Furini, Morandi, Morlotti, Pollock e Balthus…)  e scientifica, dove  i nomi di Bergson, Freud, Saussure, Heidegger, Jakobson, Bachelard servivano a farci entrare con altri strumenti, linguistici , percettivi e spazio-temporali, negli universi espressivi di poeti come Valéry, Mallarmé, Apollinaire, Rimbaud, Breton, Eliot, Dylan Thomas, Palazzeschi, Ungaretti… nomi che ricorrevano nei sui saggi e ognuno apriva un mondo  per gli allievi che si aspettavano dalla voce di un poeta tra quelli viventi della sua generazione parole illuminanti sulla poesia di Ungaretti, Montale o Luzi, suoi compagni di strada.

Credo che pochi capissero la funzione di quelle incursioni in campi minati per aspiranti umanisti spesso in difficoltà nella sola decifrazione dei versi montaliani. Il suo era un modo pratico per mostrare come la collaborazione tra “le due culture” – (scientifica e umanistica), un argomento molto dibattuto nei decenni intorno al famoso saggio di Charles P. Snow e ancora di attualità – fosse possibile e comunque inevitabile. La scienza gli appariva come “cultura delle culture”. Non intendeva sminuire riserve, aspetti negativi, diffidenze tra scienziati e umanisti i rischi di una scienza egemonica in ogni campo; pensava piuttosto che fossero da attribuire a ignoranza reciproca.

Tuttavia, nell’illustrare i termini del difficile dialogo fra le due culture, era interessato a spiegare, al- dilà di certi antagonismi, considerati irrazionali, lo stato di fatto della contaminazione tra scienza, letteratura e arte in genere, specie durante il Novecento. Era un studioso attento e informato di scienza ed epistemologia e riteneva che la letteratura ne fosse la parte vitale, esperienziale, e se non è mai arrivato alla stregua di Italo Calvino a concepire la “letteratura come filosofia naturale” (sono parole ricordate da Pierpaolo Antonello in Scienza, filosofia, tecnica nella letteratura italiana del Novecento, 2005, p. 6), non ha esitato a definire la propria poesia come “scienza nutrita di stupori” (in La sfida della ragione, 1996).

Il Novecento, diceva Bigongiari, aveva fatto cadere i confini tra immaginario scientifico e poetico – artistico, rimescolando gli sguardi della logica e della percezione epifanica della realtà (ne trattò in diversi studi e in particolare in alcuni scritti esemplari della sua bibliografia riflessiva su pittura, poesia e teoria: Il caso e il caos, 1961, La poesia come funzione simbolica del linguaggio, 1972 e L’evento immobile, 1897).

Retrospettivamente, mi appare chiaro che la visione “conciliante” di Piero Bigongiari, mai venuta meno, faccia parte di quella temperie culturale novecentesca, non soltanto italiana, attraversata da una più o meno esplicita fascinazione esercitata  dalla scienza sulla letteratura e su tutta l’arte. A simile atteggiamento era molto vicina Adelia Noferi, anche lei docente presso la stessa Università in quegli stessi anni, che ci stupiva parlando dello spazio/tempo, del concetto di tempo non più lineare (bensì “retroattivo”) di Freud, del “futuro anteriore” lacaniano e del “tempo negativo” della fisica moderna.

È noto che la fascinazione culturale ha resistito ai rifiuti polemici, ai non pochi atteggiamenti antiscientifici di nomi illustri – basti ricordare per tutti la sequenza degli assiomi  enunciati da Benedetto Croce (“L’arte non è scienza … non è immaginazione … non è sentimento…”) nel suo Breviario di Estetica (1912) –  ed è cresciuta  a misura dei successi  esperiti dagli specialisti in campo scientifico e tecnologico.

Sul piano culturale il successo viene da lontano e reca con sé i trascorsi delle grandi “sistemazioni” filosofiche ed epistemologiche del Settecento, quando Batteux sosteneva la necessità di “ridurre a un medesimo principio” l’arte intera (1746), seguendo il modello di oggettività della scienza e stabiliva  i primi Principi della letteratura (1764).

E allo stesso modo Madame de Staël, anche lei convinta fautrice dell’autonomia della letteratura rispetto agli altri saperi, inaugurava l’Ottocento proprio favorendo l’ingresso della sociologia, quella futura “terza cultura”, figlia del positivismo (attualmente già l’Intelligenza Artificiale fa salire il numero a quattro), che renderà più complicato il già impegnativo dialogo fra le due culture.

Ma la divaricazione – l’ha ricordato proprio Silviero Sansavini in un saggio in cui ripercorre gli snodi principali del cammino della scienza attraverso i secoli fino all’avvento delle “tre culture” (scienze naturali, sociali e umanistiche) – si era già prodotta nel momento in cui si veniva indebolendo, fino a cessare, l’equilibrio edenico di “quella sola cultura, che aveva fatto procedere, tenendosi per mano, la filosofia, la poesia e la scienza”, rimasto vivo nel pensiero greco e latino fino a Galileo e Keplero.

Come ha notato Nathalie Kremer, a proposito di Charles Batteux, l’astro della scienza ha comportato un accresciuto prestigio delle scienze naturali rispetto alle humanae litterae che si è manifestato in modo piuttosto paradossale: la cultura umanistica nel momento in cui comincerà ad affermare la propria autonomia rispetto a quella scientifica finirà per farne un costante uso di “pietra di paragone” per una auto-definizione; affermando, in modo piuttosto ambivalente, che l’arte non è scienza ma lasciando intendere che le presta radici, nutrimento creativo, immagini e, in ambito riflessivo,  metodi (Batteux scriveva: “Imitiamo i fisici autentici che raccolgono esperienze e ne fanno la base per edificare un sistema di principi”[1]), criteri di valutazione, in fatto di utilità ed esiti verificabili.

Nel contesto teorico-riflessivo, è proprio la critica letteraria, nata insieme alla storiografia ottocentesca, ad  avanzare esigenze scientifiche: Wolf Lepenies (in Le tre culture. Sociologia tra letteratura e scienza, 1987) ha notato che nella cultura inglese dell’Ottocento la critica letteraria è stata una temibile concorrente delle scienze sociali, per metodi e fini, non solo letterari ma anche di attenzione ai valori sociali e morali (di cui si occuperà in modo specifico, e per “tacito accordo”, dice Wolf Lepenies,  la Sociologia della letteratura).

Si può pensare che sia equivoco nel girare intorno a un uso – un senso – metaforico e a una concezione molto approssimativa di “scienza”, vertendo implicitamente più sul termine comune (scienza) senza sottolineare che la formula “scienze umane” suona quasi come un ossimoro. È indubbio, però, che il solco dello sperimentalismo letterario e artistico tracciato sin dalla fine dell’Ottocento (ma si potrebbe risalire al Seicento) e mai totalmente abbandonato nel corso del secolo scorso trae origine da questa specie di anfibologia.

È un solco creativo e riflessivo di “accompagnamento”, dato che ogni momento culturale crea i propri strumenti ermeneutici e i suoi elaborati gnoseologici. Tutti ricordano che il progetto di “romanzo sperimentale” è contemporaneo del primo affermarsi della “critica scientifica” – l’Estopsicologia di Hennequin – mentre René Ghil teorizzava la “poesia scientifica” in un periodo in cui la sociologia, la psicologia e la linguistica cominciavano a mettere in crisi l’impressionismo critico e creativo.

Anche le avanguardie artistiche e letterarie sono contemporanee delle varie fasi formalistiche, strutturalistiche e semio-psicanalitiche (del primo e secondo Novecento). Senza il contagio delle affermazioni scientifiche si spiegherebbe difficilmente il fiorire dei movimenti artistici d’avanguardia, il successo di certi generi – la science fiction, ad esempio la teoria della letteratura, alonata di maggiore scientificità rispetto alla critica.

Restringendosi al mero campo artistico-letterario (ma la fascinazione dell’immaginario scientifico era, è, quanto mai intrinseco al linguaggio e alle tecniche espressive della visione: pittura, fotografia,  cinema, fumetto… ), ci si è serviti a piene mani della psicanalisi, della linguistica e della semiotica – le più letterarie delle scienze –, e si sono  utilizzati gli strumenti della sociologia, rendendo familiari habitus e campi, attingendo ai principi dell’antropologia, della cibernetica.

Specie negli anni Settanta si è fatto largo uso del concetto di “metodo”, mitizzandone l’aspetto scientifico-sperimentale e si è pensato di  praticare quella che Barthes definiva la  “Scienza della letteratura” (un’utopia che avevano già sognato tra il 1915 e il 1930 i Formalisti Russi); si sono maneggiati schemi, diagrammi e scomposizioni di analisi, intersecando teoria e pratica, persino in poesia (valga per tutti l’esempio di Lamberto Pignotti nel suo Manuale dell’uso degli ultimi modelli della poesia del 1968).

Nel romanzo si è tracciata una ideale linea di continuità tra il “Romanzo sperimentale” di Zola, il Nouveau roman e quello del Gruppo 63, e se Vittorini si è limitato a dichiararsi dentro la partita, giocando nei dibattiti (ad esempio, su “Il menabò” del 1967, dedicato a Calvino[2]) un  ruolo tra i convinti fautori della cultura della scienza, Italo Calvino, per sua scelta, ha ampiamente dimostrato che si può al contempo “contare e raccontare”  (Carlo Bernardini e Tullio De Mauro, 2005) e che  l’immaginazione artistica e la logica scientifica non sono antagoniste.

Proprio il suo nome ci serve per ricordare come fino agli anni  Settanta e oltre, l’idea (e la pratica) dell’arte  abbia fatto riscoprire – rinnovandolo – l’alveo originario  della techne.  Si dirà che si è trattato di un periodo di fuochi fatui e che,  ricordarli, non aggiunge nulla di nuovo agli  affreschi, intorno alle dinamiche delle alterne fasi dialogiche o discordi tra “le due culture” nell’Ottocento e nel Novecento, compiuti da Wolf Lepenies (Le tre culture. Sociologia tra letteratura e scienza, 1987) o Jerome Kagan (Le tre culture. Scienze naturali, scienze sociali e discipline umanistiche nel XXI secolo, 2013).

Sono però scenari assodati che permettono di tornare a rileggere con diversa consapevolezza le motivazioni (le paure) delle riserve critiche argomentate da scrittori – sicuramente non oscurantisti – come Alberto Moravia, Pasolini o Elsa Morante (in Pro o contro la bomba atomica e altri scritti, 1987) e riscoprire, invece, le teorie di nomi del primo e secondo Novecento, citati da P. Antonelli (ne richiamo solo alcuni: Bontempelli, Marinetti, Svevo, Palazzeschi, Gadda, Buzzati, Primo Levi, Del Giudice, Zanzotto, Volponi, Magris, Giorgio Celli…[3]), che hanno accompagnato le voci autorevoli di Vittorini e Calvino, dal campo avverso.

E oggi? In Italia, sebbene non si siano alzate le folate di vento a disperdere il particolare scientismo spinto che ha caratterizzato la cosiddetta French Theory (anni Sessanta-Ottanta), la presa della fascinazione sembra essersi attenuata. Gli umanisti, specie i critici, si sono sentiti nuovamente liberi di proclamarsi a “casa propria”. Ciò non toglie che la penetrazione scientifica (e tecnologica) sia diventata anche più estesa,  sebbene i campi di riferimento siano cambiati: il primato, fortemente logocentrico, dalle teorie linguistiche e psicoanalitiche è passato alle culture digitali, alle neuroscienze, a quelle ambientaliste e sociologiche, mentre gli strumenti dell’IA (Intelligenza Artificiale) si stanno diffondendo in settori che riguardano la ricerca medica, la formazione, l’informazione.

Insomma  la cultura scientifica mantiene saldo il suo ruolo di bussola epistemica. Tuttavia la cultura digitale ci ha messo davanti a uno scenario di piani antagonisti: l’uno è rappresentato dai fenomeni mediatico-social– dove le  discussioni intorno agli eventi (non esauriti) del recente disastro pandemico  hanno fatto scendere di livello il dibattito fino ai gradi più infimi di una delegittimazione della scienza da parte di  denegatori di professione (anche culturalmente elevati), con scene e forme di aggressività e irriconoscenza mai viste nei confronti degli scienziati. L’altro piano, quello culturale, più affidabile e razionale, mostra di essersi liberato da atteggiamenti fideistici e di poter fare affidamento su menti illuminate. Alcune di queste le troviamo richiamate nel saggio di  Silviero Sansavini – “tecnologo e studioso di biologia vegetale-agraria” [4]–  che, nel ricomporre il quadro attuale, adotta la linea di condotta  di quanti  (Andrea Battistini, Ezio Raimondi, Giorgio Celli, Umberto Eco…) hanno fatto propria l’idea della necessità di una «cultura e più linguaggi» tra loro dialoganti.

E di dialogo parlano anche nelle loro meditate riflessioni gli interlocutori (Carlo Alberto Augieri, Mario Capasso, Dacia Maraini, Carlo Doglioni, Gabriella Sava, Beatrice Stasi) che si sono avvicendati sulle pagine di “BeeMagazine”, dove, ognuno da una propria visuale originale, lucidamente “riconciliante”, considera insussistente il dualismo che oppone scienze dello spirito e scienze naturali, riconducendolo nella direzione dell’urgenza di dialogo (il titolo dello scritto di Gabriella Sava, Dallo specialismo al dialogo tra le due culture, 10 marzo 2022 – mi sembra imprima, per tutti, una comune traiettoria di pensiero).

Si tratta di voci che evocano in modo convinto la necessità di approdo a superare ogni recupero di fascinazione o di divisione contrapposta; persino Beatrice Stasi nel suo articolo, Dialogo tra un fisico e un metafisico: Leopardi tra le due culture (14 marzo, 2022), è riuscita a comporre l’intento parodico del grande poeta e a configurarlo verso  obiettivi inediti,  oltre i previsti termini di una “non alleanza” o di “un’alleanza incerta” (è Luciano Gallino, ricordato da Stasi) e a ricomporre il dissidio tra “fisici e metafisici”, nel nome di una “convergenza più urgente che mai”: quella della “svolta etica”.

Ma chiarito che occorre, da una parte e dall’altra, tenere lontane le prode opposte sia del rischio di continuare a “disumanizzare le lettere” (Carla Benedetti, Disumane lettere, 2011), sia di lasciare  che la scienza si trasformi in una neutra pratica robotica, come realizzare simile convergenza di dialogo?

Una proposta  sembra venire proprio dal campo di neuroscienziati, come Semir Zeki, Jerome Bruner, Vilayanur S. Ramachandran, Jean-Pierre Changeux, ma anche Jerome Kagan e Wolf Lepenies,  che sembrano sollevati dall’attuale (forse temporanea) sospensione degli effetti seduttivi della scienza e, sorprendentemente, chiedono agli umanisti di recuperare una consapevolezza identitaria, in un invito a “restare se stessi” , intenti a creare “oggetti di bellezza” ma anche a svolgere “molte funzioni critiche”.

Funzioni che consisterebbero nel ricordare “alla società le sue contraddizioni”, a esprimere “stati emotivi importanti”, a identificare “il mutare delle premesse culturali”, capaci di affrontare “dilemmi morali più profondi della loro cultura” e di documentare “gli eventi imprevedibili che costellano una vita o un periodo storico”.

Questi sono i vari “compiti”, “impegni” non proprio accessori, che Jerome Kagan affida agli umanisti affinché, in quanto tali, possano agevolare anche gli “altri”, gli scienziati, nel “cercare la strada”, in virtù di quella loro eccentrica forma di utilità. Una strada “umanizzante” che agisca in senso “contrario della disintegrazione” (è la natura dell’arte, secondo Elsa Morante), orientando, scienziati e non, verso l’orizzonte comune di una “scienza unitaria”: è questa la “prerogativa ontologica” che, nel complesso, la cultura scientifica riconosce alle humanities. Sulla necessità di  mettersi in cerca di una dimensione inter-dialogica sembra contare anche Edgar Morin, che considera superate le questioni di adesione o disconoscimento della scienza e sposta  la prospettiva su un altro fronte comune: quello del sapere, ovvero, acquisizione di scienza, saggezza (l’antica Sapienza), capacità di riflettere e risolvere i problemi globali come la paventata «morte ecologica» dell’umanità intera, per colpa o inerzia degli uomini.

La strada che indica da percorrere, a umanisti e non, è scandita da quei “sette saperi necessari all’educazione” evocati nel titolo del suo libro, pubblicato in fine millennio (1999). Un piccolo libro, come quello di Snow, dal tenore sapienziale, che si dà alcuni scopi che consistono nel suggerire “rimedi” apparentemente semplici, ma inusuali, come la conoscenza pertinente, l’apprendimento della condizione umana, dell’identità terrestre, della comprensione, dell’etica del genere umano e della “condizione cosmica”, al fine di riappropriarsi di una “Terra Patria”.

Morin ha in mente la necessità di superare di ciò che chiama “parcellizzazione dei saperi” e punta l’attenzione sugli effetti negativi di una “intelligenza compartimentata, disgiuntiva, riduzionista” e di un'”umanità smembrata”, in balia della scomoda situazione anti-ecologica di “radicamento nella sfera vivente” e di “sradicamento propriamente umano”, che deriva dall’essere “nello stesso tempo dentro e fuori la natura”.

Da qui la sua idea di reliance [5] un concetto che qui assume confini cosmici, va oltre i singoli “brodi di cultura”, abbraccia l’uomo e la tecnosfera, la comprensione, la cultura planetaria e soprattutto l’etica.

La reliance  per Morin è la forza che all’origine “da sola ha impedito al cosmo di disperdersi o di svanire appena nato” e avrebbe ancora il compito di “sostituirsi alla disgiunzione”  e di consentire l’accesso alla “simbiosofia, la saggezza del vivere insieme”[6]  restando saldamente alleati della scienza: a cui occorre chiedere ogni aiuto possibile per evitare il precipizio di tutta la specie ormai ridotta sull'”orlo del vulcano di Empedocle”. Più che mai la scienza riguarda tutti noi [7].

 

Enza Biagini – Prof. emerito di Critica letteraria e di Letterature comparate nell’Università di Firenze

[1]          Nathalie Kremer, «Charles Batteux, Principes de littérature, 1764», Fabula-LhT, n°8, «Le Partage des disciplines», dir. Nathalie Kremer, mai 2011,URL : http://www.fabula.org/lht/8/batteux.html, page consultée le 15 avril 2022.

[2]          Elio Vittorini, Per un’assunzione di responsabilità umanistiche da parte della cultura scientifica, «Il menabò», n. 10, 1967).

[3]          Pierpaolo Antonello, Un inglese in Italia: Charles Percy Snow e il dibattito degli anni Sessanta, «Pianeta Galileo», 2009 (consultazione on line 10 febbraio 2022). Il tema si trova trattato capillarmente in modo  approfondito nel volume, Contro il materialismo. Le due culture in Italia: bilancio di un secolo, Torino, Aragno 2012. Nell’Introduzione si legge una dettagliata scansione dei tempi – 1900-30; 1930-60; 1960-90; 1990-2020 (?) –  di quella che l’autore chiama la «dialettica periodica» degli atteggiamenti culturali predominanti nel dialogo o scontro tra le «due culture», ovvero materialismo vs anti-materialismo (spiritualismo), Ivi, p. XXV.

[4]          Silviero Sansavini, Il difficile dialogo fra le culture umanistica e scientifica, Estratto da «Il Carrobbio», ed. 2014/2015, pp. 1-18, consultazione on line, 10 febbraio 2022.

[5]          Alla lettera  si poterebbe tradurre ri-alleanza, perdendo però il senso del gioco di parole che mette insieme relier (legare) e alliance(alleanza). Ma per una riflessione meditata sul concetto non solo in Morin, si veda: Marcel Bolle De Bal: Reliance, déliance, liance: émergence de trois notions sociologiques, in «Sociétés», 2003, n. 80, pp. 99-131, Consultazione on line https://doi.org/10.3917/soc.080.0099 del 12 marzo 2022.

[6]          Edgar Morin, I sette saperi necessari all’educazione del futuro [Les sept savoirs nécessaires à l’éducation du futur, 1999], trad. Susanna Lazzari, Milano, Cortina, 2001, p. 79.

[7]Il pensiero appartiene a Jimm Baggott e si legge in Origini. La storia scientifica della creazione [Origins. The Scientific Story of Creation, 2015], trad. Isabella C. Blum, Milano Adelphi, 2017, p. 24.

 

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