Tel Aviv – Il 7 ottobre 2023 resterà nella storia di Israele come il giorno di grande “bizaion”, termine ebraico usato per definire una batosta umiliante. Così i titoli dei giornali. Gli israeliani hanno rivissuto, con un’intensità decuplicata dai moderni mezzi di comunicazione audiovisivi, il trauma dell’attacco a sorpresa lanciato cinquanta anni prima da Egitto e Siria contro le poche truppe dislocate lungo i confini armistiziali. La sorpresa, enorme, è stata la stessa, con una grande differenza: questa volta è stato attaccato il territorio israeliano e a essere colpiti e uccisi sono stati non solo i pochi soldati di guarnigione ma gli abitanti di oltre una ventina di villaggi e kibbutz situati a ridosso o a poca distanza dalla striscia di Gaza. Il bilancio, ancora non definitivo, è pesantissimo: almeno 700 uccisi, tra i quali diversi alti ufficiali caduti in combattimento, oltre 2.500 feriti e circa 130 persone prese in ostaggio da Hamas. Tra gli uccisi anche 260 giovani sorpresi dai terroristi mentre partecipavano a un rave party in una radura. Un massacro di civili, tra i quali cittadini statunitensi e di altre nazionalità, che non ha precedenti nella storia del paese. I palestinesi caduti negli scontri e nei successivi incessanti attacchi aerei su Gaza sono molte centinaia.
Il successo dell’attacco condotto all’alba di sabato da circa un migliaio di terroristi di Hamas, entrati in Israele da terra, dopo aver sfondato con i bulldozer il reticolato di frontiera in diversi punti, e dall’aria, per mezzo di parapendii motorizzati, è probabilmente andato ben oltre le previsioni più ottimistiche del movimento islamico, che ora si ritrova con un “bottino” di almeno 130 ostaggi, uomini, donne, bambini e anziani, tra i quali una nonna di 85 anni e la sua badante filippina, trascinati a Gaza in siti nascosti. Non c’è dubbio che Hamas, come ha già indicato, sfrutterà a fini di estorsione la ben nota sensibilità di Israele quando è in gioco la vita dei suoi cittadini. Per esempio, potrebbe esigere la liberazione di tutti i palestinesi detenuti nelle carceri israeliane. Hanno preceduto l’attacco salve di almeno duemila razzi e missili lanciati non solo contro la popolazione civile in prossimità della striscia ma anche contro città come Ashkelon, Ashdod e Tel Aviv, decine di chilometri più a nord. Io abito nell’area metropolitana di Tel Aviv e posso testimoniare l’enormità della sorpresa per personale esperienza che mi ha rammentato quella già vissuta il 6 ottobre 1973 (guerra del Kippur). Erano le 6.30 del mattino ed ero immerso nel dormiveglia quando l’urlo delle sirene ha bruscamente rotto la quiete dell’alba. “Che strano. Deve essere un guasto al sistema locale di allarme” ho pensato con l’intento di riprendere il sonno. Ma gli spintoni di mia moglie, l’esortazione spaventata a scendere nel rifugio che abbiamo a casa e l’eco di botti lontani mi hanno convinto che stava succedendo qualcosa di serio. D’istinto ho acceso la radio e così ho appreso che Israele era sotto attacco. La stessa scena, sicuramente, si è ripetuta nelle abitazioni di centinaia di migliaia di israeliani.
Nel corso della giornata ci sono stati ripetuti attacchi di missili, quasi tutti intercettati e distrutti in volo dal sistema di difesa Iron Dome, vanto della tecnologia militare israeliana. Altri però sono riusciti a superare la rete di sbarramento e sono caduti in località abitate causando danni considerevoli. Ma il pensiero e l’attenzione di tutti era rivolto a ciò che stava succedendo nel sud del paese. Nel silenzio, durato ore, delle fonti ufficiali, colte completamente impreparate dagli eventi, le notizie giungevano solo dalle voci angosciate e terrorizzate di abitanti nelle aree attaccate, raggiunti nei loro nascondigli dai media locali grazie ai telefoni cellulari, o dai filmini trionfalistici di Hamas, diffusi anche via internet, e di altre reti TV arabe che diffondevano scene truci di sparatorie, di cadaveri riversi in strada, di case devastate, di automezzi militari incendiati o trionfalmente trainati a Gaza tra ali di palestinesi in festa. In questo modo l’orrore è entrato in diretta nelle abitazioni degli israeliani, tra i quali non pochi genitori e parenti delle vittime. Agghiacciante l’intervista a una giovane mamma che si era barricata nel rifugio di casa. “Sono sola con le mie due bambine – raccontava bisbigliando – fuori sento sparatorie sempre più vicine e voci in arabo. Se entrano ho con me solo un coltello per difendermi. Ma dove sono i nostri soldati? Perché nessuno viene a salvarci?”. Già, dove erano i soldati? Questa domanda è risuonata per tutta la giornata e continuerà ad esserlo ancora per lungo tempo. Per avere risposte bisognerà attendere la fine delle ostilità e, politici permettendo, ci vorrà probabilmente una commissione di inchiesta indipendente per chiarire anche le tante altre gravi lacune che restano al momento senza riposta o si prestano solo a congetture. E le domande sono tante.
La prima è come è possibile che tutti i servizi di sicurezza e di spionaggio israeliani siano stati colti così di sorpresa? Se una congettura si può azzardare è che Hamas – ben conscio delle capacità di spionaggio e monitoraggio elettronico dello Shin Bet (il servizio segreto di sicurezza) e dell’intelligence militare – per preparare l’operazione (che ha denominato Diluvio Al Aqsa) abbia evitato ogni forma di comunicazione intercettabile elettronicamente (Sigint). Secondo il Wall Street Journal, alla progettazione dell’attacco l’Iran avrebbe fornito incoraggiamento e attiva assistenza tecnica. Un’altra probabile lacuna è in apparenza la mancanza o l’insufficienza di informatori locali al soldo dei servizi segreti (Humint).
Ci si chiede, inoltre, come sia possibile che al monitoraggio aereo continuo della striscia, per il quale Israele fa abbondante uso di droni sofisticati, siano sfuggiti i preparativi per un’operazione che evidentemente richiedeva l’addestramento e l’impiego di almeno molte centinaia, se non migliaia, di persone. Evidentemente, guerra cibernetica e alta tecnologia non bastano contro un nemico implacabilmente e ideologicamente determinato alla distruzione dell’”entità sionista” a qualunque costo. Alla base di tutto però c’è, probabilmente, un arrogante eccesso di sicurezza e di sottovalutazione delle capacità dell’avversario da parte dei responsabili israeliani.
Altra domanda: Israele si vanta di aver eretto lungo il confine con la striscia, oltre a sbarramenti artificiali, una rete sofisticata di sensori e di torrette di guardia munite di telecamere in grado di osservare costantemente ogni spostamento di persone in profondità nel territorio nemico. Ebbene, anche questo apparato, evidentemente, non ha funzionato. A giudicare dai filmati, i terroristi sono arrivati indisturbati al reticolato di confine e lo hanno sfondato in più punti con i bulldozer per poi straripare, su motociclette, nel territorio israeliano senza essere ostacolati, a parte le isolate reazioni armate di coraggiosi abitanti, poliziotti e soldati nelle località attaccate.
Ventisei kibbutz e villaggi sono stati occupati in questo modo. Anche nella cittadina di Sderot, a pochi chilometri da Gaza, si sono infiltrati terroristi che hanno pure occupato una stazione di polizia. L’unico consiglio dato agli abitanti dalle autorità è stato di non uscire e di barricarsi in casa. Assente l’esercito, che ha cominciato a inviare truppe solo dopo molte ore e anche sui cieli di Gaza sono passate almeno due ore prima che cominciassero gli attacchi aerei. Ancora lunedì mattina i varchi nel confine risultavano aperti alle infiltrazioni e le operazioni di bonifica dai terroristi non potevano perciò concludersi. Inevitabile chiedersi come mai una frontiera, dove la tensione era alta già da settimane, era così sguarnita e come mai un esercito, che si ritiene sia tra i più moderni e forti al mondo, sia stato così sorpreso e colto impreparato. Una risposta è che, a quanto pare, Hamas è riuscito ad “accecare” i sistemi elettronici di monitoraggio e a distruggere con droni quelli di avvistamento posti sulle torrette di guardia.
Si è pure dimostrata fallimentare la politica israeliana, caldeggiata da anni da Netanyahu, che sperava di ottenere la quiete lungo il confine con Gaza, permettendo a Hamas di ricevere aiuti finanziari dal Qatar, alleviando l’isolamento della striscia e permettendo a ventimila pendolari palestinesi di lavorare in Israele dove le paghe sono diverse volte più alte che a casa. Vista la rivalità e l’odio tra Hamas e l’Autorità Nazionale Palestinese (Anp) la politica di Netanyahu era ispirata al principio del divide et impera che ora gli si è rivoltata contro come un boomerang. L’attacco di Hamas, perciò, indica il clamoroso fallimento sia di una concezione politica sia di un sofisticato sistema operativo di difesa, sul quale Israele aveva investito somme enormi. Anche di ciò Netanyahu, padre di questa politica, dovrà rispondere.
Il governo in carica, diversi dei cui membri sono noti per loquacità e estremismo nazional-religioso, si è azzittito davanti alla gravità della crisi e stenta a riprendersi dallo shock. Le uniche scarne e laconiche dichiarazioni sono state di Netanyahu, che ha annunciato lo stato di guerra, e del ministro della difesa Galant che ha assicurato che Hamas pagherà “a caro prezzo il grave errore commesso”. Troppo poco per tranquillizzare una popolazione angosciata. Dall’opposizione è giunta l’offerta di formare un gabinetto di guerra o un governo di unità nazionale con la partecipazione di persone di provata esperienza. Una proposta che Netanyahu sta considerando a condizione però che non comporti l’esclusione degli esponenti dell’estrema destra già nel suo governo, come invece chiede il leader dell’opposizione Yair Lapid. “Non sono disposto a disfare la coalizione di 64 deputati che mi sostiene. Con chi resterò tra tre mesi?” avrebbe spiegato il premier, secondo il quotidiano Yedioth Aharonoth. Anche con un paese in guerra Netanyahu mostra, evidentemente, di privilegiare i suoi interessi rispetto a quelli dello stato.
Che farà ora Israele? Gli scenari possibili sono diversi. Tanto per cominciare, a quanto risulta, ha sospeso l’erogazione di elettricità e di acqua, di cui a Gaza ha grande bisogno per le necessità della popolazione, al fine di porre Hamas, che dal 2007 esercita il governo di fatto nell’area, davanti a una situazione insostenibile. Ma non basterà. Israele afferma ora di volere l’eliminazione fisica dei membri di Hamas e della più piccola Jihad Islamica e la demolizione di tutte le loro strutture organizzative nella striscia. Un obiettivo che sembra implicare una vasta operazione dell’esercito con grande impiego di truppe e blindati. L’esperienza del passato insegna però che questo tipo di operazioni ha un costo umano altissimo in termini di perdite anche e soprattutto in seno alla popolazione civile, inevitabili in un’area come la striscia che ha la più alta densità di abitanti al mondo.
Un ritorno alle operazioni di rappresaglia e di dimensione limitata del passato sembra si possa escludere. Non solo perché grande è la sete di vendetta ma soprattutto perché si è radicata in Israele la convinzione che una soluzione che lasciasse al potere Hamas sarebbe giudicata una vittoria strategica di quest’ultimo agli occhi di una regione dove ogni indizio di debolezza rischia di invitare nuove aggressioni. Al tempo stesso, la libertà di azione di Israele è condizionata dalla necessità di salvare gli ostaggi. Sarà disposto a rischiarne la vita?
Israele deve pure tenere gli occhi bene aperti nel nord, lungo il confine col Libano. È qui che si trova il nemico maggiore, la milizia sciita libanese degli Hezbollah, creatura dell’Iran. A sua disposizione, secondo i militari israeliani, unità di commando bene addestrate e impazienti di agire e un arsenale di circa 150mila razzi e missili, in parte in grado di colpire l’intero territorio israeliano con grande precisione e perfino con testate di mezza tonnellata di alto esplosivo, sufficiente per radere al suolo un isolato. Israele è perciò costretto a destinare parte considerevole del suo esercito, includendo i riservisti richiamati alle armi con procedura di emergenza, lungo il confine col Libano. In diverse località abitate e più a rischio a ridosso della frontiera la popolazione è stata invitata ad abbandonare le case fino a un chiarimento della situazione.
Non c’è il minimo dubbio che un’estensione del conflitto con la partecipazione degli Hezbollah sarebbe possibile solo con l’assenso dell’Iran. Finora la politica di Teheran – che condivide con Hamas l’obiettivo della distruzione di Israele – è stata di evitare di esporsi in prima persona, preferendo agire indirettamente tramite milizie locali sottoposte alla sua volontà e da lei manovrate. Per ora il governo iraniano si è limitato a comunicati di solidarietà con i palestinesi e di elogio a Hamas. Non è detto che sarà così anche nei prossimi giorni. Israele, dal canto suo, ha avvertito che un attacco degli Hezbollah, non solo riporterà il Libano all’età della pietra, ma sarà pure considerato un intervento diretto dell’Iran. La reazione, minaccia, sarà avvertita anche nel cuore stesso del paese degli Ayatollah. C’è pure il rischio che in Cisgiordania possa esplodere una nuova intifada. Gli sviluppi della situazione sul terreno decideranno il corso futuro degli eventi.
Una delle domande sollevate dai commentatori israeliani riguarda i motivi e il momento scelto da Hamas per lanciare l’attacco. Diverse le risposte degli analisti, nessuna delle quali esclude le altre. Insieme possono offrire una risposta plausibile. Una spiegazione, che ha ampi consensi, è che Hamas, sobillato dall’Iran, abbia inteso sabotare il processo di avvicinamento tra Arabia Saudita e Israele. È probabile, inoltre, che con questo attacco i palestinesi, sentendosi emarginati, abbiano voluto far sentire con forza la loro voce sul palcoscenico della politica internazionale in un momento in cui diversi stati arabi hanno già normalizzato le relazioni con lo Stato ebraico o si stanno muovendo in questa direzione.
Giorgio Raccah – Giornalista, studioso di geopolitica, già corrispondente dell’ANSA da Tel Aviv