Oltre ad essere state e restare ancora oggi vittime di una lettura androcentrica della storia, le donne lo sono anche della rappresentazione (o come si ama dire oggi) della “narrazione” offerta dalle fiction televisive, quantomeno da quella registrabile nella miniserie La lunga notte. Dopo la caduta del duce che anche nel sottotitolo fa il verso al film del 2004 La caduta. Gli ultimi giorni di Hitler con uno straordinario Bruno Ganz nella parte del führer.
Schiacciate dalla tipizzazione che non fa risuonare assolutamente e per nessuna di loro la complessità psichica del mondo femminile, quasi tutte le donne di questa ricostruzione corrispondono alla definizione risalente a E. M. Forster di flat characters, cioè personaggi senza profondità né evoluzione e costruiti attorno ad un’unica idea o “qualità”, senza problematizzazione né un minimo di approfondimento psicologico. Ma questo sarebbe stato sorprendente, visto che il produttore è Luca Barbareschi, cui non aderisce certo uno sguardo “femminista”. Nel dipanarsi della vicenda ripetute volte le donne sono invitate a tacere o al più a partecipare emotivamente al dramma in atto.
Trattandosi di creature di finzione storica, dovrebbero almeno rientrare nella manzoniana categoria del verisimile o quanto meno rispettare una quota più alta di veridicità rispetto a quelle di pura invenzione. Donne degli uomini del regime, si muovono in un’atmosfera cupa, lugubre, immerse in un clima di tregenda più che di preludio a una tragedia storica: appaiono spesso in camicia da notte o al massimo in lunghe vestaglie di seta, rievocando le donne fatali del filone cinematografico dei telefoni bianchi, tanto apprezzato dalle camicie nere, con la differenza che qui non sono altrettanto “leggere” e divertenti e nelle varie sequenze cui partecipano finiscono spesso nel letto (compresa la moglie del serissimo Dino Grandi), relegate nel ruolo di comprimarie in un’oscura domesticità o nei salotti della buona società.
Sembrano quasi intente a conformarsi all’aforisma ripetuto due volte dal re Vittorio Emanuele sulle donne dei Savoia che “servono solo a fare la calza o andare a letto”. Appare isolata rispetto a questa morfologia, grazie alla sua cultura contadina, la povera Rachele che fa la sua unica iniziale apparizione- stereotipata e trasmessa così anche all’immaginario popolare- letteralmente con le mani nella terra, mentre zappetta e infila piante nei giardini esterni di Villa Torlonia e urla al marito di “uccidere tutti” i gerarchi e gli ufficiali traditori.
Antitesi perfetta di Claretta, che invece irrompe sulla scena mollemente distesa su una chaise longue, svestita come la canoviana Paolina ma con un supplemento di atteggiamenti, pose e movenze da moderna escort, pronta a soddisfare l’erotia narcissica del duce. La citazione gaddiana è d’obbligo, proprio perché risulta difficile interpretare in chiave di serietà storica un simile approccio a Clara Petacci, che solo nella fase finale si apre al ruolo di istigatrice della vendetta del suo Ben. Secondogenita di una famiglia che vantava anche origini aristocratiche e figlia del medico dei sacri Palazzi apostolici, appassionata di pittura e cinematografia, infatuata di Benito fino al sacrificio, la giovane Petacci viene inchiodata al ruolo della maliarda neppure tanto ammaliatrice, visto che subito sappiamo che è tradita dal priapesco amante.
Forse intenzione del regista era sottolineare, attraverso la contrapposizione moglie-amante, quella tra le radici inguaribilmente plebee del duce e il fascino esercitato su di lui dal mondo dell’alta borghesia romana, dalle “donne gentili” dell’aristocrazia? Risulta difficile attribuire questo credito socio-psicologico ai due quadretti di genere in cui la contadina, con le mani da contadina che parla solo di brodo e di gallina, si esprime in modi proverbiali e popolani -“I morti a chiamarli troppo prima o poi vengono!”- mentre Clara recita la parte di oggetto sessuale (con l’esclusiva dell’ufficialità) del duce.
Considerando che recenti studi attribuiscono a quest’ultima altre “qualità” caratterizzanti, tra cui l’astuzia ingannatrice e una vera fede hitleriana, ci si poteva avventurare in una rappresentazione più articolata e complessa del personaggio, anche rispetto alla vulgata sentimentale e martirologica.
Poi c’è Edda, la figlia ribelle di Mussolini, che Maria José definisce vanesia e sciocca, fissata nel ruolo della gelosissima del padre, che cerca di sedurre quasi in un’incestuosa gara con l’odiata Petacci, ma che è soprattutto interessata ad estorcergli denaro utile alla sua ludopatia. Grottesca la battuta che si fa dire a un Mussolini ammonitore verso la figlia sperperatrice dei denaro al gioco: I Mussolini non perdono mai. ( una battuta dal sapore involontariamente autojettatorio, e non solo con il senno di poi).
Un’Edda che quando perde al tavolo del poker impreca “Merda!” nell’italica lingua (ovviamente) e non alla francese e che duetta con Galeazzo in un reciproco rinfaccio di flirt e “scopate” (sic!), mentre per controcanto la seria e ansiosissima moglie di Grandi ricorda alla nipote adolescente alle prese con i primi spasimi amorosi che “per le donne c’è solo il buon nome”.
La scarsa veridicità di cui parlavo sopra riguarda dunque anche il livello espressivo attribuito ad alcune di queste figure femminili, il lessico molto poco di genere e d’ambiente, reso troppo spregiudicato dalla forzatura attualizzante. Solo la principessa Maria José ha il privilegio (noblesse oblige) di esprimersi agevolmente in francese e di assumere modi e posture consonanti al suo ruolo storico: indossa fili di perle secondo la tradizione savoiarda (certo non gli undici di Margherita!) e almeno agisce in linea con le sue “simpatie antifasciste”.
Sia Edda sia Maria José però sono mosse dal medesimo desiderio di tramare per far brillare la luce dei propri consorti troppo in ombra, affascinate dal potere che il duce ha incarnato e che con la sua caduta cerca altre teste su cui posarsi.
Che dire insomma di questa fiction che cercava di raccontare una tragica pagina di storia del nostro Paese? Tutto sommato un’occasione perduta di restituire queste figure femminili al loro calibro storico e di non farle recitare- o urlare- come personaggi di una soap opera.
Caterina Valchera – Docente, saggista