L’8 Settembre, 80 anni fa. Una data triste per un Paese sconfitto e umiliato

"L’Italia subì la resa incondizionata come paese nemico e sconfitto e dovette accettare il controllo alleato di tutte le strutture amministrative, finanziarie e civili, oltre a quelle militari. Il governo italiano perse la sua sovranità, avendo quell’armistizio sancito diritti e imposizioni di una potenza occupante’’. ‘’Per 150 giorni Brindisi, la cosiddetta “capitale del regno del Sud”, fu il rifugio del re e della sua scorta. Lo Stato, con le sue improvvisate e precarie strutture ministeriali, occupò spazi e luoghi della città e di alcuni comuni della provincia’’ Un professore ordinario di Storia contemporanea illustra questa pagina cruciale della storia italiana.

L’8 settembre 1943 Badoglio rese noto il testo dell’armistizio sottoscritto con gli anglo-americani il 3 dello stesso mese a Cassibile dal gen.le Castellano. Cinque giorni di silenzio, tentennamenti, incertezze che ebbero lo scopo di ingannare l’alleato tedesco assicurando ancora un’alleanza militare e, al tempo stesso, accettando le clausole della resa incondizionata sottoscritte con gli inglesi e americani. Soltanto la pressione di questi costrinse il governo italiano e il re a uscire dall’ambiguità in cui si erano rinchiusi senza prospettare un’alternativa credibile da offrire ai loro interlocutori e in particolare al popolo italiano. La credibilità dello Stato e della stessa Monarchia fu fortemente compromessa.

Quella dell’8 settembre fu indubbiamente una data triste per il paese. Molte sono le interpretazioni date di quell’avvenimento; la maggior parte di esse però concorda nel mettere in evidenza le responsabilità del re e del governo nel riparare a Brindisi e nel lasciare la capitale senza alcuna difesa e le forze armate, soprattutto quelle impegnate sul fronte dei Balcani e nell’Egeo, senza alcuna direttiva. Roma fu abbandonata al solo scopo di mettere al sicuro la propria persona e tutelare la continuità dinastica della Monarchia una volta finita la guerra, come poi effettivamente avvenne. La capitale, priva di ogni difesa militare e affidata alla resistenza spontanea dei cittadini romani, fu occupata dai tedeschi.

L’unica autorità presente fu la Chiesa di Papa Pio XII. Le forze armate furono lasciate allo sbaraglio; da un momento all’altro dovettero puntare le armi contro l’ex alleato tedesco o arrendersi a questo. Gli eserciti di stanza nei Balcani subirono la sorte più atroce. A Cefalonia furono passati alle armi oltre cinquemila militari della Divisione Acqui dopo aver opposto una strenua resistenza ai tedeschi. L’armistizio segnò la drammatica vicenda di circa 650.000 militari italiani, che per quasi due anni furono segregati nei lager nazisti in Germania e in Polonia, dove furono sottoposti a ogni forma di violenza morale, fisica e psicologica nel tentativo di annientare la loro resistenza perché consapevolmente avevano rifiutato di continuare la guerra a sostegno della Repubblica Sociale Italiana e della Wehrmacht in cambio della propria libertà.

Ebbe inizio quell’incredibile e spontanea ribellione militare di massa degli Internati Militari Italiani (IMI), definita come “L’altra Resistenza” (A. Natta), come “Resistenza silenziosa” ed anche come “Resistenza disarmata”. Definizioni tutte congrue ed efficaci. Quella, però, fu una Resistenza “diversa” da quella comunemente studiata; ma non per questo “minore”.  I suoi caratteri furono determinati essenzialmente dalla scelta compiuta dalla grande maggioranza di quei soldati, una scelta che ebbe il carattere soprattutto individuale più che collettivo, come il rifiuto alle promesse di libertà e alle lusinghe di un rimpatrio più immediato. Promesse a cui una piccola minoranza degli internati aderì.

Si trattò indubbiamente di un’opposizione ai tedeschi, alla guerra nazista, alla Repubblica Sociale di Salò, a Mussolini e alla sua politica imperialista, ma non allo Stato monarchico e al governo Badoglio, tranne che per quegli internati che avevano avuto un’esperienza di antifascismo militante.

Del resto, la grande maggioranza di essi, essendo militari, restò fedele al “giuramento” prestato allo Stato e alla Monarchia, in particolare gli ufficiali e i sotto-ufficiali. Quella degli IMI fu comunque una storia drammatica, che per quasi 50 anni è stata taciuta, anche per volontà degli stessi protagonisti, i quali, una volta rientrati in patria, hanno sempre mantenuto il riserbo su quell’esperienza. Solo alla fine degli anni Novanta del secolo scorso, alcuni storici tedeschi hanno ricostruito e riportato alla memoria quella vicenda collettiva, che ora ha ricostruzioni storiografiche e nuove interpretazioni.

Con l’armistizio dell’8 settembre, l’Italia subì la doppia occupazione militare e territoriale: angloamericana al Sud, tedesca al Nord; le due parti del paese conobbero governi diversi, quello di Salò al Nord e di Badoglio al Sud, che in modi diversi furono assoggettati agli eserciti stranieri. In entrambe le parti del paese, la popolazione visse l’occupazione con intensità e partecipazione diversa: di collaborazione con gli alleati e, in un certo senso, anche con la monarchia al Sud; di partecipazione alla resistenza armata contro i nazifascisti e di “guerra civile” tra gli stessi italiani al Nord.

Il testo dell’8 settembre, il cosiddetto “corto armistizio”, evidenziò i caratteri dell’occupazione militare del paese. Esso definì le clausole della resa incondizionata, come la cessazione delle ostilità contro gli angloamericani, la fine della collaborazione con i tedeschi e la restituzione dei prigionieri di guerra e degli internati delle Nazioni Unite; prevedeva l’immediata “garanzia del libero uso di tutti i campi di aviazione e dei porti navali in territorio italiano”, che sarebbero stati protetti dalle forze armate italiane fino a quando gli alleati non avessero assunto loro la difesa.

A quelle clausole però gli alleati ne aggiunsero delle altre, che stabilirono lo stato di un paese sconfitto e sotto tutela e segnarono la perdita della sovranità nazionale, che fu sancita dal cosiddetto “lungo armistizio” sottoscritto a Malta da Badoglio il 29 settembre 1943. Quella mattina -racconta Agostino Degli Espinosa nel suo libro Il Regno del Sud– nel porto di Malta, Badoglio, il de Courten, il Sandalli, l’Ambrosio e il Roatta, attendevano di recarsi a bordo della corazzata inglese “Nelson” dove doveva avvenire l’incontro con i capi dell’esercito alleato. Badoglio fu il primo della delegazione a salire a bordo della “Nelson” , accolto con gli onori da una compagnia di marines e dai capi militari inglesi e americani. Al centro vi era il generale Eisenhower, “piuttosto alto, robusto, dall’ampia giubba a vita senza cintura, i pantaloni lunghi accuratamente stirati, la bustina, ed il viso largo, risoluto, sorridente del grande uomo d’affari americano”. Vicino a lui posava il generale Alexander, “viso disteso, i baffetti accuratamente tagliati, berretto, stivali, pantaloni alla cavallerizza, giubba attillata, sembrava un ufficiale di cavalleria”. Vi erano poi l’ammiraglio Cunningham, il maresciallo dell’Aria Sir Arthur Tedder, il Feld-Maresciallo Lord Got, il governatore di Malta Victoria Cross, i signori Murphy e Mac Millan. “Il maresciallo Badoglio -scrive Degli Espinosa- si rivolse dignitosamente ai vincitori, ma la stessa uniforme coloniale di comune tela da truppa, grinzosa, sdrucita, con la sahariana mal tagliata su di lui, conquistatore dell’Etiopia, che quell’uniforme aveva portato con ben altro sfarzo, sembrava testimoniare la decadenza dell’Italia”.

 

 

La descrizione dei tre protagonisti della scena è indicativa dello stato in cu il paese si trovava. La decadenza dell’Italia, letta attraverso il diverso modo di vestire l’uniforme, coglieva significativamente il rapporto tra vincitori e vinti, che fu stabilito da quell’incontro, al di là delle dovute cortesie e cordialità militari riservate a Badoglio dai capi dell’esercito alleato. La divisa di Badoglio, sdrucita e grinzosa, modesta e dignitosa, un tempo sfarzosa e simbolo di un paese coloniale e imperialista, era umiliata di fronte a quelle di Eisenhower e di Alexander, così come le condizioni che l’Italia dovette necessariamente accettare furono l’espressione più diretta della forza esercitata dai vincitori su un paese vinto. In quel momento si stava consumando una pagina drammatica della storia d’Italia.

Lo dimostravano le clausole del “lungo armistizio”, composto da 44 articoli. L’Italia subì la resa incondizionata come paese nemico e sconfitto e dovette accettare il controllo alleato di tutte le strutture amministrative, finanziarie e civili, oltre a quelle militari. Il governo italiano perse la sua sovranità, avendo quell’armistizio sancito diritti e imposizioni di una potenza occupante. L’Italia non poté disporre delle proprie forze armate, né di rappresentanze diplomatiche; non poté avere una sua moneta né adottare misure sui cambi; il personale dei servizi amministrativi, giudiziari e pubblici avrebbe espletato le proprie funzioni sotto il controllo del comando militare alleato. Il cittadino italiano perse quella minima libertà di stampa che gli era stata concessa dopo il 25 luglio dal governo Badoglio e la facoltà di espatriare e di commerciare con l’estero. L’art. 26 definiva gli italiani  “sudditi”  e furono loro requisite le proprietà private, così come lo erano state quelle pubbliche.

“Mai, -scrive ancora Degli Espinosa- salvo che in guerre coloniali, il vincitore aveva esercitato il diritto della forza con tale ampiezza” (p. 103). Uno stato di subordinazione che in parte mutò con l’annuncio, il 13 ottobre, della dichiarazione di guerra alla Germania. Si apriva per l’Italia la fase della “cobelligeranza”, termine ambiguo e “formula di compromesso e di rinvio” [D. W. Eellwood, L’alleato nemico. Milano 1977, p. 62], che non significava affatto l’alleanza con gli angloamericani. Bisognerà aspettare il 1947 per la sottoscrizione del trattato di pace.

Osservato da un altro angolo visuale, l’8 settembre ha segnato la storia della città di Brindisi, di una provincia come di una regione. Dopo l’annuncio dell’armistizio, il re, la corte, il governo e i ministri ripararono nella città adriatica il 10 settembre. Per 150 giorni Brindisi, la cosiddetta “capitale del regno del Sud”, fu il rifugio del re e della sua scorta. Lo Stato, con le sue improvvisate e precarie strutture ministeriali, occupò spazi e luoghi della città e di alcuni comuni della provincia. Dislocò i suoi uffici in palazzi e immobili noti alla gente del luogo. Molti di essi furono requisiti per far posto agli uffici della Commissione Alleata di Controllo, che era poi il vero organo di governo e di comando della città e delle province del Sud liberate.

 

 

Brindisi incrociava una seconda volta la data dell’8 settembre. La prima volta era avvenuta nove anni prima, il 1934, quando Mussolini aveva compiuto il suo viaggio in Puglia[1], quasi per annunciare l’impresa d’Etiopia, dopo l’aggressione alla Grecia e all’Albania. In quell’occasione propagandò la grandezza della nazione imperialista e volle accertarsi della fiducia delle popolazioni pugliesi alla missione imperialista dello Stato fascista.

Mussolini trovò una città trasformata, un cantiere aperto per le significative e imponenti opere pubbliche realizzate o in fase di realizzazione a supporto dell’imponenza della missione che avrebbe intrapreso. Nel discorso pronunciato dal balcone di palazzo Montenegro, esaltò la marcia su Roma, un “avvenimento di incalcolabile portata storica”, egli disse, perché rappresentava “la vera, profonda, infrangibile unità morale di tutto il popolo italiano”. Per rafforzare il senso dell’unità, egli chiese al popolo pugliese e a quello brindisino “spirito di iniziativa, obbedienza alle leggi, fedeltà in ogni minuto della (loro) vita alla causa della rivoluzione fascista”.

Passò poi a visitare le grandi opere monumentali realizzate dai più rinomati architetti del regime ad arredo del porto e dintorni, che conferivano imponenza a una città storicamente protesa verso l’Oriente e piattaforma naturale verso il bacino del Mediterraneo, là dove erano riposte le mire espansioniste del regime. Egli visitò il nuovo aeroporto militare, entrato in funzione pochi giorni prima della sua visita, che con il porto costituiva l’altro punto sensibile per gli obiettivi strategici militari del regime.

Radicalmente diversa fu l’immagine della città che si presentò al re Vittorio Emanuele III quando sbarcò a Brindisi. Quella che per Mussolini era una città in piena ristrutturazione urbanistica, un “cantiere aperto”, al re e al suo seguito Brindisi si presentava in uno scenario di distruzione, di macerie, di rovine; una situazione urbanistica e sociale desolante, dovuta ai bombardamenti della città iniziati dagli anglo-americani fin dall’ottobre 1940, ad appena cinque mesi dall’entrata in guerra dell’Italia. Interi rioni della città furono rasi al suolo. Molti cittadini furono costretti ad abbandonare le loro case e a trasferirsi nelle campagne e nei paesi vicini. La città aveva cambiato volto. Brindisi non era più una stazione di transito per l’Oriente o una base logistica di supporto alle operazioni militari, com’era stata durante il primo conflitto mondiale; né la città costruita da Mussolini nello splendore imperialista dell’antica Roma; né quella immaginata dai brindisini. Brindisi era in quel settembre del 1943 una città distrutta dalle azioni militari alleate che non risparmiarono neanche la popolazione civile.

Assieme alle bombe distruttrici i brindisini subirono la pressante propaganda angloamericana che con volantini lanciati dagli aerei, motivava le ragioni dei bombardamenti e li sollecitava a dissociarsi dalla guerra nazifascista. “Dobbiamo distruggere e distruggeremo i mezzi guerreschi del nemico, le sue difese, le sue officine, i suoi depositi e i suoi trasporti, ovunque si trovino”, si legge in uno di essi. Una propaganda che produsse nella popolazione, ancora non pienamente consapevole delle conseguenze dovute alle vicende complesse delle alleanze militari e delle condizioni politiche in cui il paese si era cacciato, un risentimento nei confronti di chi bombardava, ritenuti responsabili delle distruzioni civili e materiali della città e del territorio e di chi aveva portato l’Italia in guerra, per le conseguenze procurate negli affetti famigliari di tanti brindisini impegnati sui diversi fronti di guerra e incerti di un loro rientro in patria.

Brindisi, dunque, per due volte aveva incrociato la data dell’8 settembre. Due giorni di due anni particolari della storia d’Italia. La posposizione poi dei due decimali, il 3 col 4, sembrava quasi essere un’ironia della sorte, se non della storia, che si era abbattuta sulla città. Un destino di cifre incrociate, cioè, che in modo diverso avevano segnato un periodo, certamente limitato ma intenso, della sua storia, di un territorio, di un insieme di abitanti che avevano subito, non certamente per loro scelta, e vissuto le vicende drammatiche e contraddittorie che si erano abbattute sulla loro sorte. A Brindisi, sia Mussolini sia il re e Badoglio lasciarono un‘impronta della loro presenza nell’immaginario collettivo della popolazione. Le cronache di allora diedero grande risalto ai due avvenimenti, nel cui contesto, che sconvolse radicalmente il mondo e l’Italia, Brindisi, suo malgrado, si trovò investita di un ruolo non secondario nelle dinamiche nazionali e internazionali.

Brindisi, in quel periodo, fu un vero e proprio laboratorio di analisi e di prospettive per il dopo guerra, per il futuro dell’Italia. Non fu solo una città che aveva accolto il re, il suo governo, la presenza ingombrante e vigile del comando alleato; la città accolse le prime organizzazioni dei rinati partiti antifascisti e delle formazioni politiche, anche di quelle qualunquiste e monarchiche. I diversi protagonisti che occuparono la scena politica si confrontarono sulle prospettive dell’Italia dopo la liberazione. Essi si mossero in un coacervo di situazioni complesse e contraddittorie, di processi non sempre definiti, di analisi e di prospettive per un paese che volle chiudere col passato e aprire una nuova fase completamente diversa e inedita.

La continuità dello stato monarchico una volta finita la guerra era rivendicata dal Re, da Badoglio, da quella classe dirigente che durante il fascismo aveva condiviso la politica del regime e che precipitosamente si era apprestata a sostenere la politica di Badoglio. Quella continuità era condivisa anche dagli inglesi, che nella crisi della monarchia vedevano con preoccupazione l’apertura di una fase politicamente radicalizzata gestita dalle forze antifasciste, mentre gli americani spingevano sul governo perché aprisse nel paese un processo di democratizzazione delle istituzioni e della società, come poi avvenne con l’avvio della fase costituente.

Sull’altro fronte, quello dei ricostituiti partiti antifascisti, veniva rivendicata l’apertura di una nuova fase della storia del Paese, che avesse come presupposto la rottura con l’esperienza del fascismo (di uno stato totalitario, imperialista e dal 1938 razzista), con lo Stato monarchico, ma più in generale, con l’esperienza dell’Italia liberale prefascista. L’obiettivo, com’è noto, fu quello di avviare già in quella contingenza, la ripresa democratica del paese per la costruzione di uno stato democratico, repubblicano e antifascista e per il ripristino delle prerogative dei diritti civili e sociali come poi furono sanciti dalla Costituzione.

Il re e Badoglio cercarono di recuperare la credibilità del popolo italiano persa con l’abbandono della capitale e la fuga a Brindisi e una legittimazione istituzionale da parte degli alleati attraverso un’operazione di carattere politico, culturale e organizzativo, affidata al giornale “L’Unione”, settimanale pubblicato a Brindisi, finanziato dall’ammiraglio Aslan Granafei di Mesagne e dal conte Carlo Dentice di Frasso di Carovigno, diretto dall’avvocato piemontese Edoardo Marini e da Jefferson Chelotti, già collaboratore di  “Salento fascista. Giornale di Brindisi”, organo ufficiale delle Federazioni fasciste di Terra d’Otranto e futuro corrispondente della Gazzetta del Mezzogiorno. Gli obiettivi furono ben chiari fin dalle prime battute del giornale, che pubblicò il primo numero il giorno di Natale del 1943 e continuò le pubblicazioni ininterrottamente fino al luglio 1944.

La prima questione affrontata fu il recupero dell’immagine di Vittorio Emanuele III, di porre una netta separazione con il regime fascista, di liberarsi, insomma, dell’eredità di Mussolini responsabile di aver trascinato il paese nell’avventura della guerra. Il secondo obiettivo fu quello di contrastare la presenza dei partiti antifascisti del CLN, ai quali veniva contestata la pretesa di essere gli unici rappresentanti della volontà popolare, di cui si ritenevano i depositari. Il dibattito al Congresso di Bari (28-29 gennaio 1944), del resto, evidenziò molto chiaramente la posizione dei partiti antifascisti nei confronti della Monarchia. Tali operazioni richiesero una motivazione di carattere culturale: da un lato, fu rilanciato il ruolo della Monarchia avuto durante il periodo del Risorgimento. Veniva ricordato che la Monarchia era stata la protagonista del processo di liberazione e di unificazione del paese e il re ne era stato il soggetto determinante. Un punto fermo di tale operazione consisteva nella valorizzazione dello Statuto albertino, come antidoto a qualsiasi alternativa istituzionale una volta finita la guerra.

Avendo il re deposto Mussolini e chiuso con l’esperienza del fascismo, si presentava la Monarchia come un soggetto politico antifascista, che aveva il sostegno degli alleati e, quindi, era legittimato a partecipare alla guerra di liberazione nazifascista alla stregua dei partiti del CLN. A tale scopo, e per poter competere con i partiti antifascisti, fu costituito il Partito dell’Unione, che prese il nome del settimanale, ebbe un suo statuto con un articolato programma politico, aprì delle sezioni territoriali nel brindisino e nel Salento e si dotò di organi di partito.

Il confronto politico tra il primo partito monarchico nel Mezzogiorno (altri poi si costituirono man mano che il re e il governo si trasferirono prima a Salerno e poi a Roma) e i partiti del CLN fu aspro e duro, e si giocò in quel momento sulla pregiudiziale istituzionale al re posta al Congresso di Bari, sbloccata poi da Togliatti con la svolta di Salerno.

Letta sul lungo/medio periodo, la formazione di quei primi partiti monarchici pose le basi del risultato del Referendum e del voto alla Costituente del 2 giugno 1946, che nelle regioni meridionali vide una larga affermazione della monarchia.

 

Nota 1 – La visita di Mussolini alla città adriatica, l’8 settembre 1934, rientrava nel programma di viaggio del duce in Puglia, dove era stato il 6 a Bari per l’inaugurazione della Fiera del Levante, il 7 a Taranto per l’inaugurazione del palazzo della prefettura, e lo stesso giorno a Lecce per normalizzare una situazione politica ancora incerta per il fascismo e per tranquillizzare una classe dirigente non ancora convinta dello smembramento dell’antica provincia di Terra d’Otranto. Com’è noto, nel 1923 era stata costituita la provincia di Taranto e nel 1927 quella di Brindisi. L’8 settembre, Mussolini da Lecce si spostò a Brindisi per poi recarsi a Foggia a conclusione del suo viaggio.

 

Carmelo Pasimeni – Già ordinario si Storia contemporanea UniSalento

 

Castelli: Salvini? irreversibile declino politico. Lega tradita, Nord senza rappresentanza

Roberto Castelli ha lasciato la Lega dopo 40 anni e ha formato un suo movimento politico. Marco Reguzzoni, anch’egli importante Read more

Assassinio di un filosofo, Giovanni Gentile

È triste che un filosofo venga ricordato più per la sua morte che per la sua vita, e magari più Read more

Benedetto Croce e il putinismo

Mentalmente m’indirizzo a loro, parlo con loro, in quel futuro mondo che sarà il loro, per avvertirli che lascino stare, Read more

Via della Seta, perché l’Italia vuole uscire dall’accordo con la Cina? Intervista a Paolo Alli

L’Italia abbandona la Via della seta: è questo l’argomento del nuovo episodio del format Skill Pro, con protagonista Paolo Alli, Read more

Articolo successivo
Il giudice e la sua coscienza: il compromesso di Chilone di Sparta
Articolo precedente
Oppenheimer, quando i fisici “conobbero il peccato”

Menu