Ispirato da una storia vera. Quante volte vi è capitato di leggere questa frase come preambolo alla visione di un film al cinema o nelle didascalie di una delle tante serie TV sulle piattaforme streaming? Direte voi: “Spesso.” Bene, io vi dico invece: “Sempre più spesso!” Perché queste storie, che sono diventate ormai quasi un genere a sé, sono notevolmente aumentate. E non solo nelle sale cinematografiche, ma anche – e soprattutto – su canali come Netflix, Amazon Prime e Disney+, che hanno implementato il loro catalogo inserendo sempre più docuserie e film ispirati, appunto, a fatti reali e che hanno avuto un impatto significativo sull’opinione pubblica.
Forse da qualche anno, complice anche la pandemia e lo smart working, avete tolto per sempre dal vostro computer lo scotch nero che copriva l’obiettivo della vostra telecamera, quello che avevate messo nel 2016 dopo aver visto Snowden, il film di Oliver Stone che raccontava la storia vera di un ex dipendente della CIA e collaboratore della National Security Agency, che ha rivelato al mondo i dettagli di programmi di sorveglianza di massa segreti del governo statunitense.
Ma scommetto che quando avete visto The Social Dilemma, il documentario diretto da Jeff Orlowski che esplora l’impatto dei social media sulla società contemporanea, avete disattivato o almeno limitato per un periodo l’uso dei social media, preoccupati soprattutto per come queste piattaforme “ci ascoltano”: per come raccolgono i nostri dati e per come li usano rendendoci inconsapevolmente protagonisti di un sistema che alimenta la pubblicità mirata.
Non pensatevi complottisti: documentari come questo, infatti, hanno spinto a serie riflessioni anche le istituzioni, contribuendo a rafforzare le richieste di regolamentazioni tecnologiche e ispirando discussioni su normative come il GDPR europeo (Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati) o le proposte di legge statunitensi per limitare il potere delle Big Tech.
Ma non solo: anche il genere crime, quello che, come vi direbbe qualsiasi produttore cinematografico del mondo, “tira”, funziona e ha ricadute importanti nella vita reale. Il caso di Vatican Girl: la vera storia di Emanuela Orlandi, per esempio.
Pubblicizzato in tutta Roma con enormi manifesti che si spingevano fino quasi alle porte della Santa Sede, è stato pubblicato il 20 ottobre 2022 e, dopo solo qualche mese, è arrivata la notizia della riapertura delle indagini da parte del Vaticano: “Mai come in questi ultimi tempi si erano riaccesi i fari sulla storia della scomparsa della giovanissima Emanuela Orlandi”, scrivevano i giornali battendo la notizia.
In America, il caso di Steven Avery e di suo nipote Brendan Dassey, condannati nel 2007 per l’omicidio della fotografa Teresa Halbach, ha visto di recente diversi sviluppi legali anche per effetto delle pressioni del pubblico dopo l’uscita di Making a Murderer, la docuserie Netflix pubblicata nel dicembre 2015, dopo 10 anni di lavoro. La storia dei due uomini è complessa, e la serie affronta diverse tematiche importanti: dall’equità del sistema di giustizia americano, all’integrità e alla corretta condotta delle forze di polizia, al ruolo dei media nei processi. La serie ha ispirato podcast, analisi e discussioni sui social media, cercando un costante approfondimento sugli eventi rappresentati nello sceneggiato.
L’impatto sull’opinione pubblica è stato importante: milioni di persone hanno firmato petizioni su siti di scopo come Change.org e anche sulla piattaforma ufficiale della Casa Bianca, chiedendo il rilascio di entrambi gli accusati. Attualmente il caso è in attesa di una decisione della corte d’appello riguardo alla richiesta di un nuovo processo.
Ma perché questi sceneggiati riescono ad avere una così forte attenzione dal pubblico, superando anche (e nettamente, a volte) la cronaca giornalistica che per anni – come nel caso di Emanuela Orlandi in Italia o di Avery e Dassey in Wisconsin – ha seguito passo dopo passo gli sviluppi giudiziari e ospitato i dibattiti più variegati sulle pagine dei quotidiani o nei salotti televisivi? La risposta è molto spesso legata alla natura stessa di questo prodotto, alla sua capacità di coinvolgere emotivamente lo spettatore, di fargli unire quei puntini che sono dettagli tra le molte righe che compongono le cronache quotidiane di un caso. Raccontano allo spettatore una storia che lui ha l’impressione di sentire quasi per la prima volta.
La struttura narrativa costruisce un percorso coinvolgente, presentato sotto forma di personaggi, drammi, conflitti e risoluzioni che rendono gli eventi più personali e più facili da comprendere. L’emotività legata a questo tipo di narrazione può suscitare una risposta empatica da parte dello spettatore, portandolo a sentirsi maggiormente coinvolto e motivato a riflettere sull’argomento proposto, soprattutto se si tratta di qualcosa di reale, che potrebbe potenzialmente capitare a chiunque di noi.
Ma non solo. Anche la semplificazione e la polarizzazione offerta da questi film o serie documentarie è da tenere in considerazione. A volte, infatti, per facilitare la comprensione di eventi complessi, questi sceneggiati tendono a semplificare le dinamiche o a polarizzare i temi, creando contrasti tra “buoni” e “cattivi” che non sempre rispecchiano in modo fedele tutte le sfumature di cui è composto il dedalo della realtà. Questo può contribuire a una visione più manichea dei fatti, mentre la cronaca giornalistica, pur nella sua sintesi, propone una pluralità di punti di vista, mantenendosi nei limiti imposti dalle regole deontologiche di base, tra cui continenza e neutralità nell’esposizione dei fatti.
Non c’è un giusto e uno sbagliato, solo una riflessione offerta dai dati elaborati dalla società Nielsen per The Wall Street Journal nell’agosto 2022: è stato il primo mese in cui lo streaming ha superato la TV via cavo, catturando l’interesse del 34,8% degli spettatori contro il 34,4% di quelli che hanno scelto la televisione tradizionale. Inoltre, questi utenti avrebbero dedicato il 23% di tempo in più ai contenuti in streaming rispetto al 2021 e il 9% in meno a quelli proposti dalla TV via cavo, marcando di fatto la continua ascesa delle piattaforme e il crollo della televisione.
Se da una parte la distribuzione globale di contenuti ha reso accessibili storie che altrimenti sarebbero rimaste locali, amplificando questioni come razzismo (When They See Us), industria carceraria (13th) o la corruzione (The Panama Papers), quello che prima era vero perché “lo hanno detto in televisione” sarà altrettanto vero se raccontato all’interno di un prodotto “ispirato da una storia vera”?
Francesca Carrarini – Giornalista