L’Iran delle donne, quella raccontata da Cecilia Sala (e non solo). Tra protesta, genio, arresti e speranza

Il caso della giornalista italiana riporta alle coscienze le tante storie di eroismo, censura, prigioni e repressioni nella repubblica degli ayatollah. Un’epopea del coraggio che va dal grande cinema iraniano alla comica Zeinab Musavi, finita in carcere per i suoi sketch
La giornalista Cecilia Sala - Facebook Iran

L’ultimo episodio del suo podcast, Stories, racconta la storia di “Imperatore Kuzco”, all’anagrafe Zeinab Musavi, una comica iraniana che nel 2022 è stata arrestata per gli sketch di uno dei suoi personaggi: “Oggi – si legge nell’ultima riga della didascalia – dice che anche in cella di isolamento ha trovato qualcosa su cui ridere”. La puntata è stata pubblicata il 18 dicembre scorso e adesso, in isolamento in una cella a Evin, un carcere nel quartiere a nord di Teheran, Iran, c’è la sua autrice, la giornalista italiana Cecilia Sala.

La notizia è stata diffusa a una settimana dal fermo e “il governo – dice il ministro degli Esteri, Antonio Tajani – sta lavorando con la massima discrezione per cercare di riportarla a casa”. E per capire quali accuse – ancora non note – le siano state mosse. “Auspichiamo di fare come con Alessia Piperno”, ha aggiunto il titolare della Farnesina: è la blogger arrestata nel 2022 sempre a Teheran, e che è stata detenuta, sempre a Evin, per 43 giorni.

Quel carcere, “quell’angolo di inferno” come lo ha definito Piperno, è stato costruito nel 1972 per la detenzione dei prigionieri politici, e dopo la rivoluzione islamica del 1979 è diventato il principale centro di incarcerazione per dissidenti, giornalisti, attivisti e membri di minoranze etniche e religiose.

Cecilia Sala in un collegamento con il Tg1 - Screenshot
Cecilia Sala in un collegamento con il Tg1 – Screenshot

Sarebbe stata portata lì, a dicembre, anche la cantante Parastoo Ahmadi. Il suo nome forse vi dice poco, ma il suo video che la ritrae mentre si esibisce in un concerto senza pubblico l’11 dicembre del 2024, è stato ripreso da tutte le testate del mondo.

“Sono una ragazza che vuole cantare per le persone che ama. È un diritto che non potevo ignorare. Ascoltate la mia voce in questo concerto immaginario e immaginate questa bellissima patria”, aveva scritto sotto il video del suo concerto. Lei appare bellissima ed elegante: indossa un abito nero lungo, sfiancato ma non troppo aderente, con spalline sottili. È perfettamente truccata, con un filo di matita sugli occhi e un velo di rossetto. I suoi capelli, castani e lisci, sono lasciati al vento in un piazzale vuoto. Otto canzoni, un’esibizione che dura meno di 30 minuti.

Per chi lo vede, come me, con gli occhi di un occidentale, tutto appare elegante e assolutamente normale. Ma in Iran ci sono altri occhi, e quella voce, senza un hijab a coprirle il capo, è come una dichiarazione di guerra.

Due milioni di visualizzazioni

Mentre su YouTube il contatore delle visualizzazioni sotto il suo video cresceva di ora in ora, arrivando a superare i 2 milioni di clic, in Iran Parastoo e due membri della sua band, il pianista Ehsan Beiraghdar e il chitarrista Soheil Faghih-Nassiri, venivano arrestati. Le autorità giudiziarie iraniane, ha scritto l’agenzia stampa Mizan, hanno presentato denuncia contro la cantante e i suoi compagni per aver tenuto il concerto “senza permesso” e senza rispettare le “norme legali e religiose”.

Quelle che impediscono a una donna di cantare come solista (può farlo solo in coro o in un duetto con un uomo) e, soprattutto, di mostrarsi scoperta da quel velo che, dopo la morte di Mahsa Amini, una giovane donna uccisa per mano della polizia religiosa a causa di un hijab mal indossato, è diventato il simbolo della lotta contro il governo della Repubblica Islamica. Quel velo che molte donne oggi vorrebbero indossare per scelta religiosa, ma che, per scelta, decidono di lasciare appeso dentro il proprio armadio contro le leggi della shari’a, la legge sacra imposta da Dio e non elaborata dagli uomini.

Una donna iraniano che non porta il velo nel principale bazaar di Teheran (giugno 2024) - AP Photo/Vahid Salemi Associated Press/LaPresse
Una donna iraniano che non porta il velo nel principale bazaar di Teheran (giugno 2024) – AP Photo/Vahid Salemi Associated Press/LaPresse

Parastoo oggi è libera, ma poteva essere condannata a morte, come altri prima di lei. Toomaj Salehi, conosciuto semplicemente come Toomaj, è un rapper di 33 anni, volto di quella generazione che in Iran sostiene il movimento Zan, Zendegi, Azadi (Donna, Vita, Libertà), nato dopo la morte della giovane Mahsa Amini. È un uomo, ma per il governo islamico il sesso, in questo caso, è indifferente: è stato liberato il 2 dicembre scorso dopo un primo arresto nel 2022 e un secondo nel 2023.

Accusato di un crimine traducibile come “diffusione della corruzione sulla terra”, è scampato a due condanne a morte per decisione della Corte Suprema iraniana. Majidreza Rahnavard, giovane wrestler di 23 anni, è stato invece impiccato a una gru il 12 dicembre 2022 nella città di Mashhad dopo un processo farsa e dopo appena 23 giorni dal suo arresto. Era stato condannato per aver partecipato alle proteste contro il governo iniziate dopo la morte di Mahsa Amini e per aver ucciso due membri della milizia paramilitare dei basiji, impiegati nella repressione delle dimostrazioni. Per lo stesso reato, l’8 dicembre dello stesso anno, era stato giustiziato, Mohsen Shekari, anche lui 23enne.

Decine di migliaia di arresti

A causa della censura e della repressione in Iran, è impossibile ottenere informazioni complete e aggiornate su tutte le persone arrestate. Le organizzazioni internazionali per i diritti umani continuano a monitorare la situazione e a pubblicare rapporti basati sulle poche informazioni disponibili. Amnesty International ha riferito che, durante le proteste iniziate nel settembre 2022, decine di migliaia di persone, tra cui donne, uomini e anche minorenni, sono state arbitrariamente arrestate. Tra queste, almeno 90 giornalisti e 60 avvocati sono stati incarcerati per il loro coinvolgimento nelle manifestazioni o per aver difeso i diritti dei dimostranti.

Sempre a causa della censura e della repressione, non è possibile nemmeno stimare con precisione il numero di artisti, creativi, cantanti, pittori, attori e registi in esilio o emigrati a causa delle leggi restrittive del governo islamico. Leggi severe che limitano le forme d’arte considerate non conformi ai valori islamici: molti di loro – non si sa quanti, per l’appunto – sono stati banditi per aver espresso opinioni contrarie al governo.

Il regista Abbas Kiarostami - Wikimedia Commons
Il regista Abbas Kiarostami – Wikimedia Commons

Ebrahim Golestan, regista, sceneggiatore e scrittore, considerato un pioniere nel campo cinematografico e documentaristico iraniano, è nato a Shiraz il 19 ottobre del 1922 ed è morto a Sussex, nel Regno Unito, il 22 agosto del 2023. Lasciò l’Iran nel 1975, quattro anni prima della Rivoluzione Islamica, e per questo non può essere considerato un vero e proprio esiliato, ma il suo pensiero indipendente e critico, mai schierato in un movimento politico esplicito, in contrasto con le autorità e con il clima culturale del tempo, non gli ha mai permesso di rientrare nel suo Paese. Tra tutte le sue opere, una sicuramente più di altre merita di essere vista: Khesht o Ayeneh (Brick and Mirror). È stato recentemente proiettato durante una rassegna organizzata dalla Cineteca di Bologna.

La locandina descriveva la pellicola così: “Primo vero capolavoro moderno del cinema iraniano, esplora i temi della paura e della responsabilità all’indomani del colpo di stato. Mescola sogno e realtà reagendo al nuovo clima sociale, al fallimento degli intellettuali e all’onnipresente corruzione”. Presentato e firmato da Ehsan Khoshbakht (regista, nato in Iran, oggi residente a Londra).

Il MoMA, il prestigioso museo di arte moderna di New York, ha inserito il film di Golestan all’interno della rassegna Cinema iraniano prima della rivoluzione 1925-1979, proiettandolo dopo registi come Abbas Kiarostami (Teheran, 22 giugno 1940 – Parigi, 4 luglio 2016), Farrokh Ghaffari (Teheran 1921 – Parigi, 17 dicembre 2006), Bahram Beyzaie (nato a Teheran, è in esilio volontario negli Stati Uniti dal 2010).

Quel film, come molti fermo-immagini sulla locandina della rassegna, foto spesso in bianco e nero come le loro pellicole, mostra l’Iran prima dell’ascesa del governo khomeinista, con donne come oggi non si possono più vedere al cinema: senza il velo, dentro e fuori le mura di casa, madri e lavoratrici, che indossano una camicia da notte che lascia le spalle scoperte. Perché c’è stato un tempo, prima del 1979, in cui l’Iran era anche questo.

La forza (obbligata) delle metafore

L’ascesa della nuova Repubblica Islamica ha cambiato le regole e relegato le donne al ruolo più succube che il Corano – secondo l’interpretazione sciita – vorrebbe per loro. Come la sua società, anche il cinema iraniano ha subito profonde trasformazioni, e oggi le donne non possono più essere mostrate senza il velo neanche in contesti privati o in scene che si svolgono all’interno delle mura domestiche. Vanno altresì rispettate le normative relative al codice di abbigliamento e al comportamento morale, al fine di evitare contenuti considerati inappropriati secondo i principi della legge islamica.

Regole che sono intervenute in uno dei momenti più brillanti del cinema iraniano e che oggi hanno stimolato i registi persiani a sviluppare soluzioni creative per rappresentare dinamiche sociali, intime e psicologiche nel rispetto delle restrizioni. Registi come Asghar Farhadi, ad esempio, o come il già citato Abbas Kiarostami, che hanno usato simbolismi e metafore per esplorare temi complessi, inclusa la condizione femminile, senza violare le leggi.

©COSIMA SCAVOLINI / LAPRESSE
La regista Samira Makhmalbaf al festival di Cannes 2003 – ©COSIMA SCAVOLINI / LAPRESSE

Ma c’è anche una sacca di resistenza femminile, nel cinema iraniano. Registe rimaste in patria (o che almeno vi hanno vissuto per lungo tempo) le cui opere sono riconosciute anche a livello internazionale, che offrono prospettive uniche affrontando temi molto rilevanti in Iran.

Samira, Rakhshan, Marzieh e le altre

Samira Makhmalbaf, figlia dello scrittore e regista Mohsen Makhmalbaf (esiliato a Londra), appartiene al movimento New Wave del cinema iraniano. Con il suo film Lavagne – una storia simbolica che riflette sulla condizione delle donne e la loro lotta per l’educazione e l’indipendenza in contesti difficili – si è aggiudicata il premio della giuria al 53° Festival di Cannes. Per due anni di fila è stata la concorrente più giovane alla mostra.

Rakhshan Bani-Etemad, considerata una delle principali registe iraniane, è nota per i suoi drammi sociali che esplorano le sfide affrontate dalle donne e dalle classi meno privilegiate in Iran. Narges Abyar ha diretto Track 143 e Breath, che hanno ricevuto riconoscimenti per la loro rappresentazione sensibile delle esperienze femminili durante periodi storici critici in Iran. Pouran Derakhshandeh, attiva nel cinema iraniano da diversi decenni, è nota per affrontare temi sociali complessi, tra cui le questioni dei diritti dei bambini e delle donne.

Marzieh Meshkini, moglie del grande regista Mohsen Makhmalbaf, ha diretto The Day I Became a Woman, che esplora le sfide affrontate dalle donne iraniane in diverse fasi della vita. Tahmineh Milani, conosciuta per i suoi film provocatori che trattano temi femministi e questioni sociali, ha diretto opere come Two Women e The Hidden Half.

Alcune di loro sono state arrestate senza troppe spiegazioni dopo le manifestazioni di strada del 2022, nel periodo in cui tutto il mondo su Instagram condivideva video di donne iraniane, anche giovanissime, che a capo scoperto cantavano da sole per sostenere la loro battaglia. Loro non cantavano, come Parastoo, le loro canzoni: cantavano la resistenza. Cantavano Bella Ciao in farsi.

 

Francesca CarrariniGiornalista

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