Invito al viaggio. Ma prima alla voluttà della lettura: quando il catalogo di una mostra è un libro vero (Parte 1)

Copertina del catalogo della mostra Donatello, il Rinascimento, a cura di Francesco Caglioti, con Laura Cavazzini, Aldo Galli, Neville Rowley, Marsilio Arte 2022 con un particolare della Madonna col Bambino (Madonna Pazzi), marmo, cm 74,5 x 73 x 6,5; cornice cm 91 x 87 x 10, Berlino, Staatliche Museen, Skulpturensammlung und Museum für Byzantinische Kunst, inv. 51 (esposta al Bode Museum)

 

Da quando è diventato una moda (spesso ormai tanto più trasandata quanto più pretende di ostentare l’aderenza a una linea superficiale del gusto), “lo studio delle mostre, in particolare di quelle del passato prossimo”, corre il rischio di rientrare nel campo delle “banalità varie”, anziché nel “terreno di sperimentazione della ricerca storico-artistica più progressiva”.

“Certe esperienze si possono fare solo lì, in quel momento definito e transitorio. […]. Lo studio delle conseguenze scientifiche, qualsiasi sia l’argomento, è naturalmente un’altra cosa” (le parole tra virgolette sono di Giovanni Agosti dalla prefazione a Patrizio Aiello, Caravaggio 1951, con una postfazione di Jacopo Stoppa, Officina Libraria 2019, pp. 7-34: 7, 10-11).

Le conseguenze scientifiche delle mostre in alcuni casi si possono misurare egregiamente, pur se non esaustivamente, dai loro cataloghi. A chi fa le mostre e a chi le visita e ne legge i cataloghi tocca il compito di restituire le opere al territorio, comunque al loro ambito di provenienza, e alla loro storia, con un atto critico che è esso stesso una iniziale forma di tutela: “L’arte, di per sé muta e indifesa, non può proteggersi che con la fama, e la fama è la critica sempre desta” (così Roberto Longhi in un ammonimento che andrebbe mandato a memoria più fuori che dentro le aule universitarie, dato che in Italia si tende a dimenticare le opere del patrimonio pubblico, così non è necessario destinare alla loro tutela quotidiana denaro altrettanto pubblico).

Le mostre necessarie e i libri che ne conseguono hanno anche un ruolo civile perché possono incidere in forme decisive sul modo di intendere quello che chiamiamo “patrimonio culturale” (ormai con definizione semanticamente distorta in chiave di sfruttamento economico per un turismo devastante). A tale linea metodologica (che non nasce oggi, ha una tradizione in Italia e rinsalda i musei al territorio e i visitatori occasionali ai residenti) sono improntate alcune mostre più e meno recenti degli anni Duemila, progettate da studiosi che insegnano in università pubbliche italiane e che, per i temi proposti, sono tra i più accreditati referenti della comunità scientifica anche nei confronti del grande pubblico.

Così sta lavorando Francesca Cappelletti (ordinaria all’Università di Ferrara) da quando è Direttrice della Galleria Borghese: in occasione della mostra Guido Reni a Roma. Il sacro e la natura (chiusa il 22 maggio), oltre al catalogo Cappelletti ha curato, con Raffaella Morselli (ordinaria all’Università di Teramo) e altri autori (https://www.marsilioeditori.it/libri/scheda-libro/5463029/guido-reni-a-roma-il-sacro-e-la-natura), un volume dedicato a Guido Reni a Roma. Itinerari (https://www.marsilioeditori.it/lista-autori/scheda-libro/5463051-guido-reni-a-roma-itinerari/guido-reni-a-roma-itinerari), che è una guida per il lettore (residente o forestiero, che è cosa ben diversa dal turista) che alla ricerca delle opere del pittore bolognese, per molta parte in luoghi pubblici, ha così l’occasione di conoscere Roma seguendo un percorso non scontato, con la “speranza che le mostre temporanee all’interno dei musei si riflettano sulla città e ne alimentino la conoscenza” (così Cappelletti, Alla scoperta di Guido, a Roma, introduce agli Itinerari, a cui BeeMagazine dedicherà prossimamente uno spazio apposito).

Così lavorano Giovanni Agosti e Jacopo Stoppa della Statale di Milano, che hanno messo a frutto (in cataloghi ricchi di cose nuove) rettifiche, centinaia di dati per altri libri e altri lavori. La loro ricerca è destinata a una serie di esposizioni curate con la collaborazione a rotazione di vari colleghi e allievi, prima a Rancate (Il Rinascimento nelle terre ticinesi. Da Bramantino a Bernardino Luini, 2010: https://www.officinalibraria.net/libro/9788889854594), poi a Milano (Bramantino a Milano, 2012: https://www.officinalibraria.net/libro/9788889854990; Bernardino Luini e i suoi figli, 2014: https://www.officinalibraria.net/libro/9788897737353), a Novara, Vercelli, Varallo Sesia (Il Rinascimento di Gaudenzio Ferrari, 2018 https://www.officinalibraria.net/libro/9788899765774). Si è trattato sempre del culmine di un percorso di mappatura degli studi e delle opere sul territorio, anche con nuove campagne fotografiche, così il catalogo di queste mostre è un libro di riferimento sull’argomento.

Al catalogo i curatori hanno affiancato quasi sempre un volume di “Itinerari” permanenti, per accompagnare anche dopo la mostra lo studioso e l’appassionato sul territorio che l’ha resa possibile, dove le opere in mostra sono state realizzate o a cui erano destinate. Mostre necessarie, dunque, perché i libri che ne derivano hanno ricadute scientifiche e di tutela corrette, garantendo alle opere una “fama” che coincide con la tutela.

A monte di queste esperienze degli anni duemila c’è anche l’edizione italiana del catalogo dell’esposizione Mantegna, curata da Giovanni Agosti (con Dominique Thiébaut e saggi e schede di Luciano Bellosi, Laura Cavazzini, Aldo Galli, tra gli altri) al Musée du Louvre tra 26 settembre 2008 e 5 gennaio 2009 (https://www.officinalibraria.net/libro/9788889854310), “accessibile, rivolta a un grande pubblico” (da p. 30 del saggio introduttivo di Agosti Mantegna 2046), a compimento del libro bello e monumentale Su Mantegna che Agosti aveva pubblicato da Feltrinelli nel 2005 (https://www.feltrinellieditore.it/opera/opera/su-mantegna-vol-i/).

Quel catalogo metteva in chiaro fin dalla selezione delle immagini per la prima e la quarta di copertina che la storia dell’arte antica, perfino se divulgata nelle mostre (dunque, secondo il comune intendimento, rivolta all’intrattenimento), è uno strumento a disposizione della comunità civile per contrastare “l’irrealtà della speculazione” sempre in agguato sui paesaggi frutto dell’ingegno degli uomini in dialogo con la natura che grandi artisti come Mantegna scelsero per ambientare momenti solenni della storia sacra (p. 2).

E così la scelta di un particolare di paesaggio della Morte della Vergine per la copertina contribuiva a tenere desta l’attenzione pubblica su un pezzo di paesaggio già parzialmente ammorbato dal progresso industriale e che proprio nei mesi della mostra le speculazioni immobiliari programmavano di violare (per gli effetti dell’industria petrolchimica sull’area dei Laghi di Mantova si veda qui: https://www.arpalombardia.it/Pages/Bonifica/Mantova/Storia.aspx?firstlevel=Mantova#. Per la vicenda del contenzioso tra il Comune di Mantova e una società immobiliare: https://gazzettadimantova.gelocal.it/mantova/cronaca/2011/12/06/news/ultimo-round-lagocastello-al-consiglio-di-stato-1.2837038).

 

Copertina dell’edizione italiana del catalogo della mostra Mantegna, curata da Giovanni Agosti e Dominique Thiébaut (Parigi, Musée du Louvre, 26 settembre 2008 – 5 gennaio 2009), Officina Libraria 2008, con il particolare della Morte della Vergine (Madrid, Museo Nacional del Prado, inv. 248) con l’apertura sui Laghi di Mantova così come Mantegna li vedeva “al principio degli anni Sessanta del Quattrocento” dalle finestre della cappella del Castello di San Giorgio a cui era destinato il quadro.

 

Le ricadute del catalogo italiano della mostra su Mantegna ci traghettano al catalogo della mostra oggetto di questo articolo, che ha come protagonista l’eccezionale rivoluzionario di cui Mantegna fu erede, Donatello (questa è una delle tante conseguenze scientifiche della lettura del catalogo della mostra, come dirò dopo). Fino al 31 luglio a Firenze a Palazzo Strozzi e al Museo Nazionale del Bargello (uno dei musei dove meglio si capisce perché ogni “rinascimento” comincia e coincide praticamente con la statuaria) si visita la mostra Donatello, il Rinascimento (https://www.palazzostrozzi.org/donatello-in-toscana/), curata da Francesco Caglioti (ordinario alla Scuola Normale Superiore di Pisa), capolavoro più capillare e meglio riuscito riguardante il maestro più grande e produttivo di invenzioni decisive nella storia dell’arte.

La mostra riunisce per la prima volta un insieme di opere straordinarie, garantite per il prestito dall’autorevolezza scientifica del curatore e delle sedi ospitanti, ed è improntata a uno spirito di servizio piuttosto raro, preoccupandosi di spiegare proprio a tutti perché se si apprezzano le arti visive, dalla pittura al cinema, bisogna sapere cosa ha fatto Donatello (a questo scopo concorrono anche i testi esplicativi in mostra dello stesso Caglioti e di Ludovica Sebregondi).

In questa occasione, dunque, le conseguenze della mostra non sono nefaste o inesistenti, come spesso capita, ma sono al contrario impeccabili e utilissime a studiosi e al grande pubblico. Lo rilevano, per vari aspetti, alcune recensioni già uscite: Giovanni Frangi il 28 marzo su  “Il sussidiario”: (https://www.ilsussidiario.net/news/arte-terremoto-donatello-la-novita-del-vangelo-vale-piu-di-brunelleschi/2314159/) consiglia di vedere la mostra proprio sulla base del riuscitissimo catalogo; Daniele Rivoletti (dell’Université Clermont Auvergne) su “Alias” del 22 maggio (https://ilmanifesto.it/donatello-confronti-e-ricezione-per-il-grande-proteiforme) ha messo in evidenza che proprio la lettura del catalogo rivela “quanto il racconto dei primi passi di Donatello sia stato complicato dai mancati prestiti del Museo dell’Opera del Duomo di Firenze e del Museo di Orsanmichele”; arricchito da un’intervista al curatore e da foto dell’allestimento è l’articolo Donatello Gets His Due di Elisabetta Povoledo pubblicato il 18 marzo su “The New York Times” (https://www.nytimes.com/2022/03/18/arts/design/donatello-the-renaissance-florence.html).

A risultati tanto rilevanti si arriva quando una mostra allestita anche perché sia attraente per i visitatori non specialisti deriva da un trentennio di studi filologicamente solidissimi e da un corpo a corpo con le opere che ha reso Caglioti familiarissimo di Donatello grazie al superamento delle “false barriere delle discipline” che gli hanno permesso “audaci e rigorosi esercizi di ricomposizione” ottenendo “una inedita e vigorosa ‘archeologia’ quattrocentesca” con il supporto di “una invidiabile attrezzatura di ricerca (linguistica, documentaria, filologica) e di una infaticabile vocazione alla verifica” di ogni aspetto della storia dell’arte. Già a trentacinque anni lo studioso poteva racchiudere in due imponenti tomi lo straordinario eruditissimo Donatello e i Medici. Storia del David e della Giuditta (Olschki 2000: https://www.lafeltrinelli.it/donatello-medici-storia-del-david-libro-francesco-caglioti/e/9788822249418) che Paola Barocchi (maestra sua e di più generazioni di normalisti) definì un libro “insolito”, “a prima vista eccentrico”, basato su una “rigorosa e avvincente ricerca” a tratti “fervida e stupefacente” (nella Presentazione datata dicembre 1999: vol. I, pp. IX-XI).

Con toni altrettanto rigorosi e avvincenti lo studioso racconta ora il “terremoto” Donatello nel saggio monografico fulcro del catalogo, Vita di Donatello (pp. 25-105): il risultato della sperimentazione di avanguardia di Donatello con tutti i materiali, in tutti i generi, in tutti i ruoli possibili, dal progettista, al modellatore (p. 87), all’ideatore di figure colossali e di spiritelli e “fanciullini discinti” come “genietti classici” (p. 81), appare “ardimentoso ed elitario” (p. 65), “traboccante di grazia” (p. 68), “da capogiro” (p. 70), di “fulgore spettacolare” (p. 76), portato avanti con “disinvoltura ribelle” e totale “insubordinazione” alle regole dei maestri (p. 70), come solo può essere il lavoro di “un talento così franco e fuorilegge” che “non si fece mancare, fino all’ultimo, quella sconfinatezza di visione che ormai non ha più bisogno di essere enfatizzata” (p. 100). Dai cinquant’anni circa per lui “dal 1437 in avanti ci fu un crescendo mozzafiato di commissioni in giro per mezza Italia, da Venezia fino a Napoli, i cui esiti fallimentari quasi superarono nel numero le opere realizzate”. “Donatello fu schiacciato per sempre, fino alla fine della sua esistenza, dal peso di non meno di quattro-cinque grossi impegni sollecitatigli ogni santo giorno dai più diversi committenti” (p. 59).

Caglioti scardina e ricostruisce ogni aspetto della carriera dell’artista studiando fonti letterarie e d’archivio, documenti, opere e loro ricezione, privilegiando opportunamente l’ottica della fortuna storica e ovviamente includendo nel percorso del saggio biografico tutte le opere utili a renderlo chiaro, anche perché spesso sono monumentali e inamovibili da luoghi pubblici su metà del territorio italiano.

Così il saggio biografico permette al visitatore bulimico di integrare la visita alla mostra con un itinerario extra fiorentino ed extra regionale (a completamento di Donatello in Toscana. Itinerari curati da Caglioti in aggiunta al catalogo). Il lettore apprende anche come guardare opere di altri grandi maestri del Rinascimento nell’ottica della fortuna storica di Donatello: Caglioti spiega perché i maggiori “allievi indiretti” di Donatello furono due pittori, “Masaccio e Mantegna” (p. 98).

“Donatello operò nelle menti di un’intera generazione e, al massimo grado, in quella del suo allievo incomparabilmente maggiore, Mantegna” (p. 85). Il passaggio di consegne avviene addirittura concretamente e a causa di una delle più clamorose insolvenze di Donatello: nel 1452 l’artista pianta in asso i marchesi Ludovico Gonzaga e Barbara di Brandeburgo, dopo due anni a Mantova in cui “con alcuni suoi fedelissimi” non ha messo mano a un’arca di bronzo in cui deporre il “corpo riverito di sant’Anselmo di Lucca, riposto nella loro cattedrale”, a cui i Gonzaga tenevano tantissimo. “È estremamente significativo che, fallito nel 1458 il sogno di avere Donatello a Mantova in pianta stabile (come lui prometteva), il suo ruolo a corte fosse preso per sempre da Mantegna” (pp. 88-89).

Mantegna è la punta di diamante del “giro degli entusiasti” del lavoro fatto a Padova da Donatello, iniziato in grande stile con il “fulgore spettacolare del Cristo” crocifisso in Santa Maria dei Servi (p. 76: una scoperta condivisa tra 2006 e 2008 con Marco Ruffini, che insegna alla Sapienza di Roma), “conformato da un mestiere che forza i limiti fisici del pioppo trasfigurandolo quasi in marmo dipinto e facendolo esorbitare dalla traiettoria millenaria del genere ligneo” (p. 77).

 

Donatello, Crocifisso, 1440-1445 circa, Padova, chiesa di Santa Maria dei Servi, cappella del Crocifisso

 

Andrea Mantegna, Calvario, dalla Pala di San Zeno, 1457-1459, tempera su legno, cm 67 x 93, Parigi, Musée du Louvre, Département des Peintures, INV. 368

 

Seguendo il genere consolidato della biografia d’artista, Vita di Donatello racconta una vicenda decisiva per la storia dell’arte moderna, scrutinando filologicamente opere e documenti,  ricostruendo un profilo attendibile, travolgente e attualissimo, immune da forzature contemporaneizzanti. Non a caso l’acuto biografo Giorgio Vasari sentiva così forte il primato donatelliano nel Cinquecento che non sapeva bene se inserirlo tra gli artisti del Quattrocento o del Cinquecento, dato che senza la ‘licenza nella regola’ di Donatello, e tante altre sue cose, non ci sarebbe stata la ‘terribilità’ del divino Michelangelo.

Vita di Donatello comincia e finisce con i dati biografici, che palesano una genialità innata non derivata da una tradizione familiare e una fine eccezionale. Donatello è nato a Firenze probabilmente nel 1386 in una famiglia modesta, in cui gli uomini sono operai che lavorano la lana, come molti a quel tempo; ma la vocazione artistica ha il sopravvento e dal 1400 Donatello, esordiente orafo adolescente, è già al seguito di Filippo Brunelleschi nell’impresa civica dell’altare di San Jacopo in duomo a Pistoia (p. 25).

Quasi certamente omosessuale, non si sposa, non ha figli e abita a lungo, almeno fino a oltre i suoi quarant’anni, con sua madre Orsa, con sua sorella maggiore Tita e suo nipote Giuliano, “atratto”, ossia storpio (pp. 25, 28). Praticando l’arte più difficile di tutte, la scultura, ha sperimentato dimensioni, resuscitato tecniche, mescolato materiali. Ha viaggiato per tutta l’Italia, conteso da nobili e ricchi mecenati, accettando commissioni che alcune volte trascura o non onora, perfino sfuggendo precipitosamente agli impegni contratti.

È stato generosissimo con i suoi collaboratori, lasciando a bocca aperta i biografi e gli studiosi successivi: l’artista ha permesso difatti la “‘pubblicazione’ di idee assolutamente donatelliane da parte di scolari e imitatori prim’ancora che Donatello stesso arrivasse a giovarsene per sé medesimo” (p. 85). Ha creato opere colossali a destinazione pubblica e opere di medie e piccole dimensioni in cui ha reinterpretato l’antico che tanto ha osservato, ottenendo risultati così straordinari che spesso sono stati considerati per lungo tempo antichi: è il caso della cosiddetta “protome Carafa”, la testa di cavallo per il destriero del monumento equestre in bronzo di Alfonso il Magnanimo re di Napoli, destinato al fornice superiore dell’arco trionfale all’antica in marmo all’ingresso del Castel Nuovo a Napoli; unico elemento fuso in bronzo per un’opera mai realizzata, anche perché Donatello scappa “a Siena un anno dopo la fusione della protome (1457)”.

Dopo la morte dell’artista la testa equina, ritenuta da tempo inservibile, viene balestrata da Lorenzo il Magnifico da Firenze a Napoli come dono a re Ferrante I, che la dirotta “verso il suo primo cortigiano, Diomede Carafa, conte di Maddaloni”, che la usa “come arredo da cortile”. La “Testa Carafa, tanto vicina all’antico, si meritò poi per secoli la fama di principale reliquia figurativa della Napoli greco-romana” (p. 91: anche questa è una delle preziose risultanze dell’impegno trentennale nella ricerca donatelliana di Caglioti: chi voglia accostarvisi può cominciare con due lezioni di lui rispettivamente dedicate alla Testa Carafa, nel 2012, e all’arco di Castel Nuovo, nel 2017: https://www.raiscuola.rai.it/storiadellarte/articoli/2022/05/Francesco-Caglioti-La-Testa-Carafa-e-il-mito-del-poeta-Virgilio-mago-e-protettore-di-Napoli-5378b460-feea-46cb-8423-afed376ed7fe.html e https://www.youtube.com/watch?v=u5VeiKzayzQ).

Il 13 dicembre 1466 l’ottantenne Donatello muore, a Firenze, in una casa modesta, “nell’area oggi spartita tra la Galleria dell’Accademia, il Conservatorio di Musica “Cherubini” e l’Opificio delle Pietre Dure”; riceve degna sepoltura nella cripta della chiesa di San Lorenzo, a pochi passi dalla sepoltura del principale esponente della famiglia Medici che di Donatello sostenne il successo, Cosimo il Vecchio.

L’attraente allestimento della mostra e la vertiginosa qualità delle opere esposte risaltano fin dalla lettura del catalogo, stampato molto bene, su una carta opaca che permette di godere al meglio delle fotografie, nel formato grande ormai classico per questo genere di libri e con due particolari riprodotti sulla prima e sulla quarta di copertina che riassumono la scala di toni, generi e materiali del cimento donatelliano (la mamma e il bambino erculeo intrecciati e incuranti degli estranei nel marmo screziato della Madonna Pazzi; il trionfo della ridda di particolari decorativi nel bronzo dell’elmo sulla testa decapitata di Golia e sul piede flessuoso del David di cui il cadavere è trofeo).

Nella Vita di Donatello il lettore viene preparato allo shock visivo delle meraviglie che vedrà in mostra attraverso il richiamo a scelte di scrittura e a concetti fondamentali e ricorrenti nella biografia. Se ne possono isolare cinque, che costituiscono altrettante linee di lettura dell’opera di Donatello.

  1. Le parole usate da Caglioti aderiscono sempre perfettamente a fatti biografici e a opere di cui scrive, nel solco della tradizione dell’ecfrasis che è anche la scommessa alla base della storia dell’arte, che con stile e con scelte lessicali opportuni deve sostituire le cose con le parole, perché si parla a chi non può vedere. Nella Vita di Donatello alcune definizioni sono così efficaci per concisione e scelta di sostantivi e vezzeggiativi, verbi, struttura sintattica, che potrebbero stare in un tweet: l’Amore-Attis “è anche una statua […] in movimento, la quale rischierebbe di crollare, se non avesse le ali, per colpa di quel serpentello che prova a far inciampare il genietto” (p. 72); “Ecco, dunque, sfilare davanti agli occhi increduli dello spettatore un Orto degli ulivi nel quale Cristo ha trascinato con sé tutti gli apostoli, costringendoli ad appisolarsi dove capita, anche seduti a cavalcioni della cornice” (p. 101: è la parte sugli sfrenati pergami bronzei di San Lorenzo).

Donatello, Amore-Attis, bronzo parzialmente dorato, cm 103 x 55 x 45, Firenze, Museo Nazionale del Bargello, inv. Bronzi 448, veduta da tergo

 

Caglioti è accuratissimo anche nella scelta delle parole con cui definire i materiali, in modo che il lettore non specialista possa sostare sul profilo biografico senza ricorrere per forza alle didascalie delle schede delle singole opere (pur se la lettura integrale è consigliabile vivamente!): quindi, non è genericamente ‘pietra’, bensì “macigno” (cioè un blocco di roccia dura e di grandi dimensioni) la materia di tre opere fiorentine a destinazione pubblica: la perduta Dovizia in Mercato Vecchio (p. 67), la “pala con l’Annunciazione” dell’altare Cavalcanti in Santa Croce (p. 60; per quest’opera si veda anche il punto 2), la cornice intorno alla vetrata con l’Incoronazione della Vergine in duomo (p. 58; per quest’opera si veda oltre e anche il punto 2); “pietra di Nanto” (cioè la pietra cangiante di modesta durezza proveniente dai colli di Vicenza) è la materia del “Sepolcro […], vertice d’ispirazione tragica” nell’altare maggiore della Basilica di Sant’Antonio a Padova (p. 80).

Alcuni tecnicismi non sono sfoggio di erudizione per lettori specialisti e colleghi, ma risultano funzionali a raccontare i fatti in maniera anche didatticamente precisa. Il cultismo pergamo per ‘pulpito’ è appropriato quando Donatello dall’antico mescola e resuscita tecniche, iconografie, materiali in modi nuovissimi; Caglioti appropriatamente spiega che la Cantoria di Santa Maria del Fiore è “il pergamo per far accomodare l’organista davanti alla mostra parietale del suo strumento […], voluta dai committenti in forma di balcone parallelepipedo” in cui Donatello “sfruttò fino all’ingordigia i suggerimenti che venivano dai modelli templari, e applicò ai cinque mensoloni volute doppie rubate invece alle chiavi degli archi trionfali”, “diversificò pure i materiali”, “inscenò l’ancor più celebre carosello di spiritelli lungo un alto fregio continuo” (pp. 54-57). Il “motivo come la seriazione di ovuli e freccette fu strappato al cimazio del cornicione di una trabeazione dell’Urbe, per diventare protagonista nel fregio della trabeazione stessa” (p. 62) dell’edicola in forma di “antica ara funeraria” nell’Annunciazione dell’Altare Cavalcanti in Santa Croce (per quest’opera si veda anche il punto 2).

Nel brano appena citato ricorre cimazio (< lat. tardo cymātion, a sua volta dal gr. kymātion) ‘cornice sporgente che circonda la sommità di un elemento architettonico’ per il più diffuso cimasa. Non è ricerca fine a sé stessa di una voce dotta ma tecnicismo che coinvolge il lettore anche con le parole, sottolineando le ragioni di stile e di iconografia in un’opera che deve moltissimo allo studio dell’antico.

La tomba di Piero e di Giovanni de’ Medici in San Lorenzo è qualificata con il cultismo opistoglittica, cioè ‘a doppia faccia’, come poche righe sopra Caglioti ha chiarito perifrasticamente, a proposito della tomba di Lorenzo de’ Medici il Vecchio, ugualmente visibile da entrambi i lati (p. 69). Per spiegare in che modo Donatello prevede che lo spettatore guardi “la prima vera statua nuda dell’era post-classica”, il David vittorioso bronzeo, staccandolo da terra con tre diversi supporti, di cui il più estremo è il basamento a colonna che consente la giusta visione dal basso della statua sottoposta ad anamorfosi, Caglioti sceglie il verbo bilicare tr. ‘mettere in bilico, far stare in equilibrio’ (probabilmente da *umbilicare, deverbale da umbilicus ‘ombelico’ e anche ‘punto centrale’, DELIn), la cui prima attestazione in volgare è quattrocentesca (posteriore di pochi anni alla morte di Donatello: ante 1470, Luca Pulci, GDLI: si bilica rifl. ‘sta in equilibrio’) e che Vasari consolida come tecnicismo della lingua della storia dell’arte nell’edizione Giuntina delle Vite: “egli bilicò il giovane eroe non solo su una ghirlanda trionfale, ma anche sulla testa della vittima: David vi è appena saltato al di sopra, e nel mettersi in posa davanti al pubblico rischia quasi di distrarsi e di cadere, portando via con sé testa e ghirlanda” (p. 67).

Né “grave” né “solenne” è l’aggettivo adatto al “ricordo” “di alcune Madonne romaniche dipinte e scolpite” confluite nella stupenda Vergine di bronzo dell’altare maggiore nella Basilica di Sant’Antonio a Padova, ma ancora un grecismo, “ieratico”, perché Maria ostenta il figlio neonato come “nel cuore del naos di un santuario classico” (p. 79). Il Lavabo di Casa Medici nel ricetto dietro la Porta dei Martiri in San Lorenzo non può che palesarsi “metamorfico” (p. 10), se il marmo si contrae, si gonfia, si trasforma, esplode in decorazioni naturalistiche e animali veri e fantastici e mostri mitologici che emergono dalla vasca o ne sono rampicanti.

Come espedienti lessicali mnemotecnici che incidono nella memoria la tipologia dei lavori dell’artista in una certa fase della carriera, i tecnicismi interagiscono anche con il montaggio delle fotografie nel libro. A p. 54 Caglioti introduce così il decennio 1433-1443: “Donatello era […] tornato nel 1433 dal soggiorno a Roma, l’ultimo della sua vita, con un’impressionante ricarica di idee antiquarie, pronte a sprigionarsi e a rimescolarsi come in un caleidoscopio soprattutto nei dieci anni a venire, fino alla partenza per Padova (1443)”. Nella stessa p. 54 la didascalia della fig. 55 ci informa che Donatello è autore del cartone (cioè del disegno progettuale da trasferire su un altro supporto finale) della vetrata policroma realizzata da Domenico di Piero da Pisa e Angelo di Lippo di Paolo con l’Incoronazione della Vergineper l’oculo principale del tamburo della cupola del duomo di Firenze.

L’opera risale al 1434-1437, dunque al decennio in cui le idee di Donatello si sprigionano “come in un caleidoscopio”: a un mirabile e irripetibile disegno fatto di pezzi di vetro multicolore ricongiunti in una forma circolare da guardare da lontano corrisponde, difatti, la riproduzione della vetrata a fig. 31, p. 55, per la quale il grecismo metonimico caleidoscopio è, quindi, davvero inevitabile.

  1. Dell’Incoronazione della Vergine Caglioti scrive in aggiunta: “Ecco un altro capolavoro difficile o forse impossibile da far conoscere attraverso le riproduzioni fotografiche, che lo circoscrivono sempre alla parte vitrea, mentre Donatello concepì la corona di teste angeliche intorno alla coppia divina come uno sfondamento prospettico che proseguiva la strombatura della cornice di macigno tutt’intorno” (p. 58). L’ammissione dei limiti della fotografia di riproduzione è chiave di ricostruzione storica e critica nella Vita di Donatello che permette allo studioso una serie di affondi anche didattici. Riprodotta a p. 56, la “pala con l’Annunciazione di macigno” del mutilo e pur mirabile Altare Cavalcanti nella Basilica di Santa Croce (p. 60) è fruibile correttamente soltanto in chiesa: “Quasi nessuna fotografia realizzata nell’ultimo secolo e mezzo è stata in grado di spiegare la percezione di chi, con Vasari, apprezzava come gli spiritelli apicali, “per paura dell’altezza, tenendosi abbracciati l’un l’altro, si assicurino”.

 

Infatti il fotografo, volendo evitare di correggere lo scorcio dell’edicola nella ripresa dal basso, si pone sempre ben sopra le teste dei riguardanti: in tal modo egli annulla lo sporgersi degli spiritelli dal cornicione” (p. 62). Ecco una sollecitazione a saldare la visita alla mostra a quella delle opere permanenti sul territorio, poiché la pala è inamovibile dalla parete della navata destra della basilica francescana su cui è murata.

In generale, il problema di una restituzione fotografica verosimigliante interessa praticamente tutte le opere illustrate in catalogo ed esposte in mostra e, come ovvio, è il problema di fondo della riproduzione della scultura e delle tecniche a essa correlate. Per Donatello la cosa si complica ulteriormente perché egli progetta le statue pubbliche assoggettandole ad anamorfosi, la deformazione del “corpo per renderlo perfettamente godibile dal basso a 360°” (p. 67), come nel caso del David vittorioso, che la mostra restituisce temporaneamente a una visuale molto prossima a quella prevista da Donatello.

Fine prima parte

 

 

 

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