Insegnanti sotto attacco, le varie spiegazioni della violenza

La segregazione da lockdown c’entra fino a un certo punto. La scuola di Barbiana, luci e ombre. A un rispetto a volte persino eccessivo e imbarazzante dei genitori nei confronti della figura del professore si è sostituito dagli anni Novanta del secolo scorso un atteggiamento antagonistico, che in certi casi avalla i comportamenti dei figli. Il vero problema, per molti adolescenti di oggi, è semmai quello di essersi sentiti dire pochi no e di non avere conosciuto anche nell’ambito scolastico quelle prove iniziatiche bonsai che sono sempre state gli esami, quelli veri. La proposta del ministro Valditara di incrementare la presenza di psicologi all’interno delle scuole meriterebbe qualche distinguo. La scuola di Cuore era davvero peggiore di quella di oggi?

Una singolare coincidenza ha voluto che le celebrazioni del centenario della nascita di don Lorenzo Milani siano quasi coincise con l’ennesima notizia dell’aggressione a un docente: una professoressa di Lettere accoltellata durante la lezione in un liceo dell’hinterland milanese da un alunno sedicenne.

 

Don Lorenzo Milani

 

Causa occasionale dell’aggressione pare siano state alcune “note” negative, che pregiudicavano la promozione del giovane; ma il gesto del ragazzo oltre che spropositato era senz’altro premeditato; non si spiegherebbe altrimenti perché avesse portato con sé oltre a un’arma da taglio anche una pistola giocattolo, sprovvista però del prescritto tappo rosso, di cui si è servito per allontanare i compagni di classe impedendo loro di soccorrere l’insegnante.

Elisabetta Condò, la professoressa aggredita, è tutt’altro che una docente reazionaria: cinquantunenne (l’età media degli insegnanti italiani), già esponente della Cgil scuola, impegnata, ironia della sorte, nella commissione scolastica per l’accoglienza e l’inclusione del suo istituto, aveva avuto l’unico torto di esigere dall’alunno un minimo di impegno e di rispetto.

In una delle prime dichiarazioni, durante il ricovero in ospedale, ha espresso il desiderio che il suo aggressore possa uscire presto dal carcere, desiderio che, visto il lassismo del nostro sistema giudiziario, ha molte probabilità di essere esaudito. Probabilmente è uno dei tanti insegnanti che si sono formati sui testi di don Milani, ed è evidentemente agli antipodi della docente rea di avere bocciato uno degli alunni della sua scuola presentatosi da privatista, cui il priore di Barbiana indirizzò l’indignata Lettera a una professoressa.

Sarebbe azzardato stabilire un collegamento fra l’aggressione alla professoressa Condò e il rinnovamento pedagogico maturato anche sotto l’influenza del celebre pamphlet, uno dei libri più citati e meno letti nella storia della pedagogia. La scuola di Barbiana, una informale scuola di sagrestia che preparava privatisti, era tutt’altro che permissiva. “Noi per i casi estremi si usa anche la frusta” si può leggere in Lettera a una professoressa, e molti suoi ex alunni avrebbero potuto confermarlo.

 

 

Si potrebbe sostenere che don Milani concepisse la scuola come un’istituzione democratica solo in chiave teleologica, in quanto avente il fine di preparare futuri cittadini in grado di partecipare consapevolmente alla vita civile del Paese. Non a caso il professor Adolfo Scotto di Luzio, ordinario di storia della pedagogia all’università di Bergamo, ha intitolato il suo lucido saggio sul priore di Barbiana, appena edito da Einaudi, L’equivoco don Milani.

Figura complessa e ricca di contraddizioni, il sacerdote avviò tuttavia quell’opera di progressiva svalutazione della figura del docente, incarnata nella persona dell’odiata professoressa, avallando e amplificando luoghi comuni – come quello relativo al modesto impegno lavorativo degli insegnanti – che ancora oggi inquinano il dibattito sindacale e contribuiscono a screditare, insieme a numerosi altri fattori, la figura dell’insegnante presso le famiglie.

Chi scrive ebbe l’occasione di leggere la prima edizione della Lettera, ricevuta in prestito da una professoressa amica di famiglia, e futura suocera di un ministro dei Lavori pubblici ricordato soprattutto per avere imposto il limite di velocità dei 110 all’ora. Apparteneva a quella generazione di laureate arrivate alla cattedra dopo severissimi concorsi (per insegnare al “ginnasietto” era richiesto persino il tema in latino: oggi non saprebbero scriverlo nemmeno molti cardinali…) e abituate a ritornare stravolte da faticose ore di insegnamento a casa, dove le attendevano le cure domestiche (già in quel lontano 1967 i magri stipendi degli insegnanti non consentivano di pagare una domestica fissa, almeno da Roma in su). Avvertiva tutta l’ingiustizia di certe generalizzazioni, pur nutrendo rispetto per il sacerdote, lei fervente cattolica uscita dai ranghi della Fuci.

L’ondata di violenza che attraversa le scuole italiane, comunque, non deriva certo da questa prima delegittimazione della figura del docente, comune per altro ad altre figure investite di responsabilità. Non è un fenomeno esclusivamente italiano: in molte scuole francesi, soprattutto di banlieue, avvelenate da asperrime tensioni interetniche e interreligiose, i docenti avevano preso l’abitudine di invocare il “droit de retrait”, che consente di astenersi dal lavoro in caso di pericolo (la situazione pare sia migliorata con la discussa legge che proibisce in classe l’esibizione di simboli religiosi).

Episodi di violenza nei confronti degli insegnanti, per altro, sono sempre avvenuti, ma i comportamenti incivili erano sanzionati dalla riprovazione sociale e dalle reazioni dell’autorità scolastica e della famiglia. Oggi, invece, sono spesso proprio i genitori a fare, come si suol dire, i “sindacalisti” dei figli, talora in forme più rozze, che non escludono il passaggio in certi casi alle vie di fatto, in altre più sottili, magari spendendo in esposti o ricorsi al Tar per una bocciatura o per un voto troppo basso soldi che forse sarebbe stato più saggio utilizzare per le lezioni private.

A un rispetto a volte persino eccessivo e imbarazzante, specie presso i ceti popolari e la piccola borghesia, nei confronti della figura del professore si è sostituito dagli anni Novanta del secolo scorso un atteggiamento antagonistico, che in certi casi avalla i comportamenti dei figli. Il numero delle aggressioni a docenti, verbali e spesso fisiche, è molto superiore a quanto traspare, per diversi motivi. Esistono buoni motivi per pensare che quanto emerge sia solo la punta di un iceberg e che molte aggressioni trapelino per un referto ospedaliero o paradossalmente per un filmato messo in rete dagli stessi responsabili, convinti, non a torto, dell’impunità.

In certi casi ci può essere da parte dell’insegnante una sorta di pudore, simile a quello di una donna riluttante a denunciare molestie, in altri la consapevolezza che il responsabile comunque la passerà liscia, in altri ancora il timore che la denuncia sia interpretata come un’ammissione della propria incapacità di tenere la disciplina. Di conseguenza fanno notizia solo i casi più preoccupanti, magari con effusione di sangue, o più inquietanti, come la professoressa oggetto da parte di un alunno di tiro al bersaglio con una carabina, fra l’indifferenza della scolaresca. Ma un malessere ben più diffuso rischia di rimanere sotto traccia.

Sono in molti a sostenere che le aggressioni nei confronti degli insegnanti siano conseguenza di un più vasto disagio giovanile legato alla pandemia e alle conseguenti fasi di confinamento obbligatorio, che possono avere disabituato molti alunni alle regole della civile convivenza. Può darsi che la sindrome da confinamento sociale abbia esercitato la sua influenza, ma sono necessarie almeno due considerazioni.

Intanto, il problema delle violenze contro i docenti era emerso già prima del lockdown, con alcuni casi addirittura clamorosi, come quello della professoressa Franca Di Blasio, sfregiata al volto da un suo studente nel 2018, che poi fu ricevuta in viale Trastevere dall’allora ministra Fedeli e insignita del titolo di Cavaliere della Repubblica, quasi a titolo di simbolico risarcimento.

Poi, l’atteggiamento compassionevole e di conseguenza giustificazionista nei confronti dei giovani rischia di essere controproducente. Il confinamento sociale ha senza dubbio comportato problemi psicologici per tutti, giovani e adulti, ma i ragazzi che si affacciarono alla vita negli anni dell’ultima guerra e dell’immediato dopoguerra avevano conosciuto ben altri traumi: i bombardamenti e i rastrellamenti, la fame e la perdita di persone care, la precarietà dell’esistenza: altro che striscioni ai balconi e pastiere fatte in casa. Eppure questo non impedì loro di assumersi le proprie responsabilità e di recare un contributo decisivo alla Ricostruzione e poi al miracolo economico.

Il vero problema, per molti adolescenti di oggi, è semmai quello di essersi sentiti dire pochi no e di non avere conosciuto anche nell’ambito scolastico quelle prove iniziatiche bonsai che sono sempre stati gli esami, quelli veri. Un ragazzo nato negli anni Cinquanta prima di terminare gli studi aveva affrontato quattro esami: l’esame del primo ciclo della scuola elementare, l’esame di licenza elementare, l’esame di terza media, l’esame di maturità. Fino a una certa data, aveva sostenuto, se aveva scelto l’indirizzo classico, il temutissimo esame di ammissione alle medie e l’esame di licenza ginnasiale, con tanto di interrogazioni e compiti su tutte le materie, versione dall’italiano al latino compresa.

Oggi gli unici esami rimasti sono la licenza media e quella che impropriamente si continua a chiamare la maturità, oltre all’esame di qualifica (regionale, non più statale) negli istituti professionali. Abituati spesso a tirare avanti fra “debiti formativi” e promozioni con voto di consiglio, di fronte alla minaccia di una bocciatura rischiano di perdere l’autocontrollo (ma rischiano di perderlo anche per motivi molto più futili: un rimprovero troppo accalorato, il sequestro di un cellulare, una “nota” trasmessa sul registro elettronico al genitore).

Beninteso, non è il caso di rimpiangere la scuola di una volta anche nei suoi aspetti deteriori: i docenti che in quarta ginnasio rivolgendosi a una classe di trentasei alunni profetizzavano il primo giorno di scuola che solo una dozzina sarebbe arrivata alla maturità (ce n’erano, eccome), o le insegnanti che alle madri venute col cappello in mano ai colloqui sentenziavano che il ragazzo non aveva “le basi” ma non si preoccupavano di fornirgliele, o le professoresse convinte che i romani usassero il femminile per i nomi degli alberi per far cadere in errore gli scolari.

E nemmeno i maestri e le maestre emuli del plagosus Orbilius, che in barba al divieto di infliggere punizioni corporali, introdotto con Regio Decreto nel lontano 1928, continuavano a far uso della bacchetta. Ma di qui alla giustificazione di ogni comportamento ingiustificabile il passo rischia di essere breve.

A questo proposito, la proposta del ministro Valditara di incrementare la presenza di psicologi all’interno delle scuole meriterebbe qualche distinguo.

La psicologia e soprattutto la neuropsichiatria infantile hanno avuto notevoli meriti nell’individuazione di patologie in precedenza sconosciute o trascurate.

Basti pensare alla dislessia o la discalculia, patologie che prima non venivano prese in considerazione, per cui gli scolari che ne erano affetti venivano trattati alla stregua di ritardati, mentre invece è facilmente superare con opportuni strumenti (per esempio, l’uso della scrittura elettronica per chi presenta difficoltà a scrivere a mano) questi e altri disturbi specifici dell’apprendimento.

Il rischio tuttavia risiede nella tendenza insita nell’atteggiamento di molti psicologi a fornire alibi a comportamenti aggressivi. Già oggi da parte di molte famiglie si assiste alla corsa ai cosiddetti Bes, i Bisogni Euducativi Speciali, interpretati da molti come una sorta di scorciatoia per la promozione, oltre che una fucina di esposti e ricorsi al Tar in caso di bocciature, qualora i consigli di classe non abbiano riempito alla perfezione la modulistica prevista.

Ma la tendenza deresponsabilizzante a “medicalizzare” ogni comportamento, già oggi invalsa fuori del contesto scolastico (basti pensare all’abuso della temporanea infermità di mente, scialuppa di salvataggio per molti omicidi), all’interno delle aule potrebbe essere rovinosa, e già oggi in parte lo è. Se vivesse oggi, Franti sarebbe probabilmente classificato come uno “studente antagonista” e come tale giustificato, mentre il direttore didattico che lo caccia bruscamente fuori di scuola sarebbe denunciato per abuso di mezzi di correzione: Umberto Eco versus Edmondo De Amicis.

 

Umberto Eco

 

Edmondo De Amicis

 

Ma siamo proprio sicuri che la scuola di Cuore, da cui uscirono i fanti del Piave, fosse davvero peggiore di quella di oggi, dove si può impunemente impallinare la professoressa?

 

Enrico NistriSaggista

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