Il castello …di carte. La burocrazia vista da una filologa

La piaga dell’antilingua, degli artifici e dell’artificialità della lingua burocratica. Certe circolari ministeriali d’antan, oggetto di frizzi e lazzi e di ricerche per decifrane il senso. La lezione di Italo Calvino. Il messaggio di Kafka

Il recente articolo di Pietro di Muccio, apparso sulla nostra rivista il 23 ottobre scorso, oltre ad essere il prodotto di un approccio umoristico, con punte esilaranti, al tema della burocratizzazione sociale del nostro paese, mi ha sollecitato ricordi di esperienze personali e professionali che convergono sulla categoria degli scribae ( gli estensori di scritture amministrative) per dirla con i latini e delle loro lungaggini, già nella Roma repubblicana stigmatizzate come morae intollerabili.

Se la volessi buttare solo sullo scherzo, ricorderei che ogni lettura di circolare del Ministero della Pubblica Istruzione (dicitura ora superata dalla nuova ineffabile dittologia comprendente il Merito) era accompagnata da commenti ironici, talora sarcastici da parte dei docenti, in merito (qui ci vuole!) all’incomprensibilità della scrittura, al gusto della superfetazione linguistica e dell’involuzione baroccheggiante. Bisognava ogni volta sottoporre lo scritto alle semplificazione come si fa per i procedimenti algebrici, riducendolo, sezionandolo, prima di poter accoglierlo mentalmente e commentarlo collettivamente.

Ricordo anche che adoperai uno di questi prodotti ministeriali per far comprendere agli studenti il codice prossemico e la misurabilità delle distanze sociali nella comunicazione: in particolare, la fase distanziata del rapporto burocratico, che, oltre ad essere garantita fisicamente dal burocrate attraverso oggetti materiali ( scrivania più o meno grande) e staff, receptionist in funzione filtrante, è solitamente affidata proprio ad un uso quasi ermetico della lingua, per l’appunto il burocratese. Un sistema di segni che sembra studiato per scollare il significante dal significato, per creare un labirinto di senso concatenando gli enunciati in arabeschi e involuzioni sintattiche da districare. Il lessico poi appare nel dizionario come B e questo basta a definirne la singolarità e la sua disponibilità a “uccidere” l’italiano: il trionfo dell’antilingua, cioè la lingua di chi non sa dire”ho fatto”, ma deve dire “ho effettuato”.

Così il grande Italo Calvino, che sul piano psicologico vi scorgeva anche la mancanza di un vero rapporto con la vita, ossia in fondo l’odio per sé stessi. Ma Calvino andava oltre quando annotava, a proposito di questo linguaggio settoriale, che la sua caratteristica predominante è quello che egli definisce “terrore semantico”, cioè la fuga da ogni vocabolo che abbia di per sé un significato chiaro e inequivocabile. Chi parla l’antilingua è come se temesse di mostrare familiarità con le cose di cui parla, come se sottintendesse sempre di essere più in alto delle cose di cui parla. Bell’esempio di comunicazione! Scrivere o parlare con l’intenzione di non essere compresi, di disorientare il destinatario dell’atto comunicativo.

Spassosamente Calvino descrive la fatica quotidiana e automatica di centinaia di migliaia di nostri concittadini che soprattutto nell’ultimo secolo sono intenti a tradurre mentalmente la lingua italiana in un’antilingua inesistente. Si sa che il nostro grande scrittore e intellettuale ( di cui sono in corso tante celebrazioni per il centenario dalla nascita che tralasciano spesso gli scritti più inquietanti, come le riflessioni del perplesso Palomar ) aveva forti interessi per gli aspetti “ingegneristici” della scrittura e per le sperimentazioni testuali letterarie. Proprio grazie a questa sua solida preparazione teorico-formale poteva permettersi di indicare al lettore quello che non è gioco, invenzione intelligente, ma piuttosto inganno e mistificazione. Il dubbio non deve riguardare il diritto, la legge della polis o i dati dell’amministrazione pubblica. Il dubbio epistemologico va esercitato- secondo Calvino- nei confronti della realtà e della presunzione di attingere a una verità assoluta. L’antilingua invece non ha niente a che fare con il mistero del mondo. Siate brevi, sarete bravi! Questo il suo monito. Come sempre esatto e irrinunciabile.

Ma nessuno meglio del signor K ( e in genere della letteratura mitteleuropea) ci ha restituito la più inquietante descrizione fenomenologica della burocrazia, di quella “burocratizzazione della vita sociale” stigmatizzata da Max Weber. Sto pensando a Il castello di Franz Kafka che, in un solo colpo di spugna, trasforma un topos letterario millenario ( il castello) da  locus amoenus nell’infernale terreno di un esercito di funzionari, nell’invasione di uffici e nelle valanghe di pratiche.

 

 

 

Il mondo con cui deve confrontarsi il signor K e da cui, profetizza Kafka, non ci libereremo mai perché la burocrazia si è infiltrata in ogni strato dell’esistenza. Mai prima di allora, in nessun luogo, K. aveva visto l’amministrazione e la vita a tal punto connesse, così connesse che a volte si aveva l’impressione che l’amministrazione e la vita avessero preso il posto l’una dell’altra. Non posso  avventurarmi neppure a tentare di riassumere la trama del romanzo incompiuto di Kafka, ma mi preme notare che il fil rouge che lo attraversa non è soltanto il senso di esclusione che si ingenera nell’animo dell’agrimensore signor K. : non è tanto il senso di estraneità ( Kafka non è Camus..) del soggetto rispetto a uno spazio/ comunità, quanto piuttosto la fatica sisifea del povero K che fin dall’inizio è vittima di un malinteso tra due ministeri e quindi destinatario di un’erronea convocazione. Inizio di una via crucis!

Quella che nella letteratura amena era avventura, coraggiosa e spesso irta di difficoltà ma finalizzata al raggiungimento di uno scopo nobile, si è trasformata in lotta impari e senza scopo, in un’allucinante sequela di porte chiuse davanti alle quali K. è costretto a perdere ore di inutile attesa, di sovrintendenti, funzionari che fanno discorsi e offrono motivazioni implausibili dei rallentamenti e delle lungaggini imposti dalla burocrazia, per approdare a un nulla di fatto. Lotta senza possibilità alcuna di vittoria, ma neppure di minimo avanzamento. Secondo la testimonianza di Max Brod, Kafka avrebbe immaginato per il suo romanzo un finale in cui K., dopo insormontabili infiniti fastidi muore di sfinimento e proprio allora arriva dal castello la sentenza che egli non ha in realtà diritto alcuno di cittadinanza al villaggio, in cui però gli viene “concesso” di vivere per riguardo ad alcune circostanze accessorie.

Finale che più cupo il grande boemo non avrebbe potuto immaginare: il beau geste intriso di misterioso paternalismo non cambia il colore della rappresentazione: il nero della “macchina” amministrativa. Grande Kafka nostro contemporaneo!

 

Caterina Valchera –  Docente, filologa

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