I morti di Cutro e lo jus migrandi

MondoPolitica

Abbiamo ancora negli occhi le immagini del naufragio di Cutro, costato la vita a una ottantina di persone (settantanove i morti accertati, imprecisato il numero dei dispersi). Ennesima tragedia del mare che si sarebbe potuta evitare.

 

 

 

 

Purtroppo, da anni ormai, il Mediterraneo si è trasformato in un immenso cimitero, ove, insieme ai migranti, è annegato – e continua ad annegare – ogni briciolo di umana pietà. Anche in questa occasione, infatti, abbiamo dovuto assistere ad ipocrite commemorazioni di circostanza, alle quali si sono aggiunte improvvide affermazioni circa la estrema pericolosità del viaggio, la quale avrebbe dovuto suggerire ai poveri migranti “di non partire”: quasi che la pericolosità non fosse nota e si trattasse di turisti in crociera e non, invece, di poveri cristi spinti dalla disperazione più profonda a fuggire dalla propria terra – e da persecuzioni, violenze, mancanza di libertà e di prospettive di vita – verso un miraggio chiamato Italia o Europa, divenuto, a 40 metri dalla costa, la loro tomba.

Un fenomeno, quello dei migranti, col quale l’Italia e l’Occidente si confrontano da anni, almeno dalla caduta del muro di Berlino e dalla fine della guerra fredda, ed al quale non è stata data ancora una soluzione appagante.

Eppure le migrazioni non  sono eventi saltuari, né recenti: sono, invece, un fenomeno costante che ha attraversato la storia dell’uomo.

Compagni (davvero da tempi non siamo nuovi a sventure), / o voi, che di peggio soffriste, pure a queste un dio / porrà fine. Voi la rabbia di Scilla, sugli scogli / conosceste dal cupo rimbombo, voi delle rupi del Ciclope / aveste esperienza…”

Sono versi dell’Eneide, risalenti a più di duemila anni fa, che ci ricordano una fuga, quella di Enea e dei Teucri da Troia, più di mille anni prima della nascita di Cristo, al termine di una sanguinosa guerra persa con i Greci.

Sembra di leggere, nei versi di Virgilio, il dramma di oggi, dei profughi in fuga dalla Siria, dall’Afganistan, dall’Iran, dai Paesi del centro e del corno d’Africa; ed oggi, come allora, alla sofferenza di chi fugge si oppone la diffidenza – se non l’ostilità – di chi risiede e dovrebbe accogliere. Solo che nel poema virgiliano la diffidenza viene rimossa dall’intervento del dio Mercurio alla regina dei cartaginesi, Didone “perché la terra di Cartagine e le nuove mura / s’aprano ospitali ai Teucri e Didone, all’oscuro dei fati, / dal suolo non li respinga…”. Non così, invece, per i poveri morti di Cutro, per i quali vi è stato solo un allarme da un aereo di Frontex che non ha smosso nessuno, nonostante la diffusa consapevolezza che il mare, ormai forza sette, non fosse più navigabile per un barchino carico di profughi.

Problema antico ed estremamente complesso quello che riguarda i fenomeni migratori, al quale è, forse, difficile dare soluzioni pienamente convincenti, forse perché non ne esistono. Ma su un punto non si può transigere: chi si trova in difficoltà in mare va soccorso e ai rifugiati va riconosciuto il diritto d’asilo. Lo stabiliscono a chiare lettere la nostra Costituzione (art. 10, comma 3°) e le norme di diritto internazionale (dalla Convenzione di Ginevra del 1951 al Protocollo del 1967 sul principio del non refoulement; dalla Direttiva “qualifiche” del 2004 (CE 2004/83) alla direttiva sulle vittime di tratta, sino ai vari Protocolli ONU tesi a prevenire i fenomeni di trafficking e smuggling).

Del resto, la storia dell’uomo è – come detto – una storia di migrazioni. Il diritto alla fuga, la libertà di abbandonare la propria terra, la propria comunità di origine “con la certezza di essere ben accolti in altre terre”, in altre comunità, costituisce “il pilastro di ogni libertà umana”. Nel libro di David Graeber e David Wengrow “L’alba di tutto” (Rizzoli) viene ricostruita, attraverso un’accurata analisi archeologica, storica ed antropologica, proprio questa possibilità, riconosciuta all’uomo, di muoversi in cerca d’asilo o di rifugio e di essere accolto, ospitato. Negli stessi termini descritti da Virgilio nei versi dell’Eneide.

Quando gli esseri umani trovano che sia insostenibile vivere a causa delle condizioni politiche, economiche, ecologiche, sono naturalmente portati a spostarsi altrove, a rifarsi una vita, a ricostruire la trama dei propri rapporti sociali, sottraendosi alle violenze e alle prevaricazioni di satrapi e tiranni, “Siamo una specie in perenne fuga … abbiamo piedi e non radici” (così Marco Aime in “Verdi tribù del Nord” – Laterza).

Ovvio, allora, che ad una siffatta, precipua condizione umana, il diritto non potesse essere indifferente, dovendo necessariamente svolgere un ruolo da mediatore nel conflitto fra l’ineliminabile aspirazione di migrare (da un lato) e la contrapposta volontà di chiudere le frontiere (dall’altro) o, comunque, di non riconoscere agli stranieri gli stessi diritti dei cittadini. Di tutto ciò si occupa un altro interessantissimo volume, scritto da Eliana Augusti – docente di storia del diritto medievale e moderno presso l’Università del Salento – “Migrare come abitare” (Giappichelli), nel quale viene ricostruita, attraverso la storia delle migrazioni, anche la riflessione filosofica e giuridica che, nel corso dei secoli, ha accompagnato questo fenomeno. Autori come De Vitoria, Grozio, De Vattel, Pufendorf, Wolff, sino a Rousseau e Kant sono attentamente scandagliati e lo jus migrandi (ossia il diritto di lasciare liberamente il proprio Paese e farvi liberamente ritorno), teorizzato per primo da Francisco De Vitoria, ne viene fuori come diritto naturale universale, fondamento del moderno diritto internazionale.

Nel libro viene anche affrontata la speciosa distinzione fra rifugiati e migranti economici. Rifugiati sarebbero coloro che scappano da guerre e persecuzioni politiche, mentre migranti economici sarebbero solo coloro che fuggono per scampare alla fame, alla povertà, alle malattie, in cerca di un futuro migliore. Una distinzione speciosa che – scrive Donatella Di Cesare – non regge. Intanto perché non sempre una tale distinzione non  è così netta come si vorrebbe far credere (si pensi a Paesi come l’Eritrea, la Somalia, il Mali, da dove si fugge per la fame, ma anche per le violenze e le persecuzioni politiche) e poi perché sulle barche utilizzate per la fuga sono quasi sempre presenti entrambe le categorie e non si vede come si potrebbe … separare il grano dal loglio.

“I poveri – scrive Donatella Di Cesare – colpevoli solo per essersi mossi, non suscitano alcuna compassione. Eppure, questi nuovi poveri cui è stata tolta persino la dignità del povero, hanno mille motivi da far valere per la loro scelta sofferta di fuggire dal loro Paese”. Tanto più che, in molti casi, l’impoverimento dei loro Paesi è dovuto a cause politiche alle quali non è estraneo l’Occidente al quale tendono.

Dopo la tragedia di Cutro, il Governo ha varato il Decreto legge 10.3.23, n. 20, nel quale, accanto a scelte certamente condivisibili – quale quella di ampliare le quote di ingresso e di prevedere canali umanitari per i migranti – ce ne sono altre a dir poco discutibili: come quella di abrogare il 3° e 4° periodo del comma 1.1.dell’art. 19 D. L.vo n. 286/98 – che consentiva il riconoscimento della protezione speciale alle persone che in Italia hanno una propria vita personale e familiare, magari con contratti regolari ed ormai divenute parte integrante del nostro sistema sociale – o quella, pur lodevole nell’intento, di innalzare le sanzioni penali nei confronti di scafisti e trafficanti. La conseguenza della citata abrogazione, infatti, lungi dallo scoraggiare le partenze, sarà probabilmente quella di produrre un esercito di irregolari, che difficilmente, in mancanza di accordi con gli Stati d’origine, potranno essere allontanati dal territorio nazionale e che finiranno con l’alimentare il lavoro nero, mentre l’innalzamento delle pene, così come previsto col D.L., al di là della deriva pan-penalistica che, in concreto, ben difficilmente produce i frutti sperati, finirà col creare all’interprete ulteriori problemi, considerata l’amplissima categoria di soggetti passibili delle nuove sanzioni, posti tutti sullo stesso piano pur a fronte di condotte profondamente diverse e di differente gravità.

Concludendo: i fenomeni migratori, continuando a sfidare la divisione territoriale del pianeta, si confermano come “processo strutturale e storicamente accessibile” (Augusti). Scrive ancora Donatella Di Cesare: “Il <<migrare>> si fa <<abitare>> in senso heideggeriano, un migrare che richiama lo scorrere di un fiume”. E, riprendendo la Di Cesare, Eliana Augusti avverte che “se la corrente del fiume è il luogo del soggiornare umano sulla terra, allora l’abitare non può trovare legittimazione né nel sangue, né nel suolo. L’abitare diventa sostare fugace sulla terra, mentre il migrare diventa transito, lo jus migrandi si fa sostanza e diventa jus transiti e, quindi, jus degendi” (cfr: diritto di risiedere).

Utopistico? Forse. Ma – affermava Oscar Wilde – “dei mattoni dell’utopia è lastricata la strada che porta al progresso”.

 

Roberto TanisiPresidente del Tribunale di Lecce, già presidente della Corte d’Appello

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